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Celle e mascherine

Nel bel mezzo di un saggio interessante su «eremitismo francescano e reclusione femminile» Marco Guida, francescano a sua volta, e preside della Scuola superiore di Studi medievali e francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma, fa un’osservazione inattesa1. Non perché avventurosa, oscura, discutibile o che altro, anzi; inattesa perché atipica rispetto alla natura accamedica del testo. Ecco cosa scrive lo studioso, introducendo le sue considerazioni su clausura e reclusione nel caso di Chiara d’Assisi: «L’interesse per l’“attualità” di certi temi non deve condizionare l’analisi e l’interpretazione dei testi medievali. Le Regulae, ad esempio, furono una risposta a domande sociali e religiose del XIII secolo e possono aiutarci a comprendere e a contestualizzare le esigenze di quel periodo, difficilmente potranno dare delle risposte a come vivere concretamente oggi; potranno offrire, invece, orizzonti, valori e ideali cui ispirarsi. Le norme e le consuetudini di una regola duecentesca sono spesso inutili e inapplicabili in un contesto radicalmente diverso da quello del secolo in cui videro la luce».

Non posso escludere che qualche religioso non si trovi completamente d’accordo, per contro, per un laico, pur consapevole di tante cose: limiti, difetti, velleità, appropriazioni indebite, ecc., la parola chiave è quell’«invece», ed è lì che mi sono soffermato, poiché in fondo credo che, parafrasando, «le regole siano anche una risposta a domande esistenziali probabilmente di ogni secolo». In questo senso, poi, il saggio di Marco Guida è ricco di citazioni che invitano a trascendere, se così si può dire, la materia trattata, con particolare riguardo al concetto di «cella interiore».

Giusto un paio di esempi. Il primo è un «detto» di Francesco tramandato dalla cosiddetta Compilazione di Assisi (FF 1659) e recita: «Pur essendo in cammino, il vostro comportamento sia così dignitoso come se foste in un romitorio o in una cella [in heremitorio aut in cella]. Infatti dovunque siamo e andiamo, noi abbiamo la cella con noi [habemus cellam nobiscum]: fratello corpo è la nostra cella, e l’anima è l’eremita che vi abita dentro per pregare il Signore e meditare su di lui». Ma cosa succede se in questa «cella» regna un silenzio abissale, una confusione inestricabile di voci o si srotola un monologo più o meno vaneggiante? Cosa, se il Signore lo si crede assente o una mera istanza ideale? Cosa avviene, realmente, lì dentro, se la cosiddetta anima (constipata et sola, come diceva di sé Angela da Foligno) è strapazzata dalle sue illusioni? A quest’ultima domanda risponde lo stesso Francesco, quando aggiunge subito dopo: «Perciò se l’anima non rimane in tranquillità e solitudine nella sua cella, di ben poco giovamento è per il religioso quella fabbricata con le mani». Le risonanze sociali, politiche, psicologiche e psicoanalitiche di quelle parole sono innumerevoli, e forse non c’è modo di uscirne, e dalla questione e dalla cella2.

Il secondo esempio è una testimonianza, ancora di Francesco, tratta dalla Vita Seconda di Tommaso da Celano (FF 681): «Cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo con lo spirito, ma anche con le singole membra al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola con il mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica per non svelare la manna nascosta. Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto con lo sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto». Ma in assenza di quella «visitazione», cosa c’è da nascondere? Qual è il segreto che non si può condividere quando si è stipati tra mille? Che non sia manna, allora, bensì il suo contrario? Come nel caso delle mascherine che ci siamo abituati a indossare in questi anni?

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  1. In «Quaderni di storia religiosa medievale», 24 (2021), pp. 195-238.
  2. «Azione è uscire dalla solitudine», direbbe, per fare un solo esempio, Luigi Pintor.

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«Volete che ve lo faccia ripetere?» (La «Compilazione di Assisi», pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Mi pare che nella Compilazione1 vi sia traccia di come Francesco, oltre a preoccuparsi di essere d’esempio per i suoi frati, fosse anche consapevole dell’eccezione che rappresentava e dei «pericoli» che la sua esemplarità poteva generare. Molto significative a questo proposito sono le sue parole in occasione della rinuncia al governo dell’Ordine (capitolo generale del settembre 1220): Francesco proclama la sua volontà di obbedire piuttosto che di essere obbedito, chiede che gli sia assegnato un «guardiano», ricorda che nel superiore bisogna riconoscere Dio e non l’uomo e commenta: «Non vi sarebbe al mondo superiore tanto temuto dai sudditi, quanto il Signore mi renderebbe temibile ai frati, se lo volessi»2.

Queste parole risuonano anche per me con un’evidenza singolarissima, e devo amettere, per usare un’immagine abusata, che è come se le sentissi pronunciare. Come innumerevoli altre, del resto: durante una predica a Perugia, più che consapevole dei campanilismi, Francesco dice ai cittadini che lo ascoltano: «Non state a badare se io sono di Assisi»; una volta un religioso gli chiede di pregare per lui, e Francesco lo fa immediatamente: infatti, «per sua abitudine, quando gli veniva chiesta una preghiera, lo faceva subito, per paura di dimenticarsene»; quando un medico prova a mentirgli sulle sue reali condizioni di salute, Francesco lo incalza: «Dimmi chiaramente: che ne pensi? Non sono mica, per grazia di Dio, un’animuccia da temere la morte»; una volta chiede a un frate di farsi prestare una cetra per suonargli qualcosa, ma quando il frate risponde che si vergogna a farlo e teme quello che la gente potrebbe pensare di lui, Francesco dice: «Ebbene fratello, lasciamo stare» (una piccola lezione importantissima); e ancora quando i provinciali vanno a trovarlo a Fontecolombo, e si dichiarano preoccupati che la regola che sta scrivendo sia troppo dura, lui invoca Cristo: «Signore, non te l’avevo ben detto io che non mi avrebbero creduto?», e quando il Signore risponde in maniera inequivocabile, Francesco si volta verso i frati e dice: «Avete sentito? Avete sentito? Volete che ve lo faccia ripetere?»

È il senso di contemporaneità che, al di là di tutte le questioni filologiche, anche le più complesse e non secondarie, mi spinge ad accumulare letture monastiche, le questioni che vi vengono poste in una specie di eterno presente, la spinta a ricavarne indicazioni concrete di comportamento. E in Francesco, al di là delle vicende «politiche» a lui contemporanee, al di là delle traduzioni, al di là della costruzione successiva di un’immagine, questo «senso» risulta spesso amplificato in maniera eccezionale, perché Francesco è davvero 3.

Lo sconcerto che suscita è tale che i suoi seguaci più esatti sono coloro che non si pongono domande, i semplici. Come fra Giovanni il Semplice, appunto, che «era di una tale semplicità che si riteneva obbligato a ripetere quanto vedeva fare da Francesco»: se Francesco giunge le mani, lui giunge le mani, se si alza, lui si alza, e se tossisce, lui tossisce, tanto che Francesco ne ride e lo riprende: «Ma egli rispose: “Fratello ho promesso di fare tutto quello che fai tu, quindi…”. Francesco, vedendolo così semplice e ingenuo, ne restava ammirato e ne godeva assai». Anche su questo paradosso inciampo clamorosamente, e forse il cuore di tutto il problema dell’ambivalenza che evocavo all’inizio di queste note sta in una breve considerazione che si trova nel capitolo 82 della Compilazione: «Francesco pose una grande attenzione a non esser ipocrita davanti a Dio», o, come rendono le FF: «L’aspirazione più alta e dominante di Francesco fu quella di non essere mai ipocrita davanti a Dio». Colpito e affondato.

Mai ipocrita, anche se si tratta di cucina: «In quel medesimo tempo Francesco, stando con i frati che allora aveva, era di un tale fervore che, da quando il Signore gli rivelò che doveva vivere – lui e i suoi frati – secondo la norma del santo Vangelo, volle e s’impegnò di osservarlo alla lettera per tutta la vita [esattamente come fra Giovanni si impegna di seguire lui, Francesco, alla lettera]. Al frate addetto alla cucina, quando voleva passare alla comunità i legumi per cibo, proibì di metterli a bagno in acqua tiepida la sera avanti, come si usa, perché i frati osservassero il consiglio del santo Vangelo: “Non vogliate preoccuparvi del domani”.

«Così quel frate li metteva a bagno dopo il mattutino».

(2-fine)

  1. Le citazioni sono tratte da Fr. Leone e compagni, S. Francesco d’Assisi dagli Scritti dei suoi Compagni. «Compilazione d’Assisi» dal Ms. 1046 di Perugia, prima edizione italiana a cura di M.L. Bigaroni ofm, Edizioni Porziuncola 1975; ma sono andato sempre a vedere anche le Fonti francescane, terza edizione rivista e aggiornata, Editrici francescane 2011.
  2. Meno lineare, ma forse ancor più chiara la traduzione offerta dalle FF: «Non c’è un prelato nel mondo intero, che sarebbe temuto dai sudditi e fratelli suoi quanto il Signore farebbe che io fossi temuto dai miei frati, qualora io lo volessi». Merita di essere citata, almeno in nota, anche la frase che precede questa: «Tra le altre grazie, l’Altissimo mi ha largito questa: obbedirei al novizio entrato in Religione oggi stesso, se fosse mio guardiano, come se si trattasse del primo e più attempato nella vita e Religione dei frati» (1554 [1663]).
  3. Dirò qui, in nota, lo sproposito, che lui stesso aborrirebbe: Francesco è , se così si può dire, molto di più di Gesù stesso.

 

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«Noi che fummo con lui» (La «Compilazione di Assisi», pt. 1/2)

La Compilazione di Assisi, già nota con altri titoli, tra i quali Leggenda antica di san Francesco o Leggenda perugina1, oltre a essere una lettura bellissima, è un testo che fa emergere in misura marcata molti degli aspetti che caratterizzano il mio rapporto con gli scritti e le testimonianze francescane. Ogni volta che leggo «qualcosa di francescano», dopo le prime pagine, mi dico che da quel momento in poi non leggerò altro che testi francescani per un bel po’ di tempo; quindi, finito il libro, accade il contrario e per un bel po’ di tempo non mi avvicino a san Francesco. Be’, non sono certo il primo, a subire il suo fascino e a provare questa ambivalenza – là dove fascino è parola che esprime in maniera inadeguata e parziale il tipo di relazione.

Che fosse una benedizione, e al tempo stesso un’ardua prova, stargli vicino risulta evidente da un’infinità di particolari, a cominciare da quell’espressione fantastica che compare spesso a introduzione del commento a un episodio: «Noi che fummo con lui»2. È una formula che va lasciata risuonare qualche istante, affinché trasmetta tutta la sua forza, insieme ad altre simili: Noi che fummo con lui, per noi che vivemmo con lui, noi che siamo stati lungo tempo con lui, che io leggo anche come Francesco è esistito e noi lo abbiamo visto e udito… Talvolta la clausola si amplia e diventa: «E noi che vivemmo con lui possiamo testimoniare che, quando egli diceva: “Così è”, o “così sarà”, avveniva sempre come diceva». «Si avverte, netta», commenta Felice Accrocca, presentando la Compilazione nelle Fonti francescane, «la nostalgia per i primordi, quando i fratelli, dietro il loro padre, si sforzavano di seguire con gioia e generosità le orme di Cristo, in povertà e umiltà», e lui era sempre avanti, verrebbe da aggiungere. Sempre avanti e incontenibile, nonostante lo spirito di obbedienza.

Quale paziente e un po’ risentita rassegnazione si può cogliere, ad esempio, in questo breve dialogo: «Un giorno il medico venne da Francesco e gli disse: “Fratello, una poveretta malata agli occhi è venuta da me; ma è tanto povera, che bisogna che io l’aiuti per amor di Dio e le passi anche il vitto”. A quelle parole, Francesco si commosse; fece chiamare il guardiano e gli disse: “Fratello, dobbiamo restituire quello che non ci appartiene”. “Cioè?” disse il guardiano [come dicesse: Di cosa stai parlando, Francesco?]. “Questo mantello che abbiamo ricevuto in prestito da quella poveretta, malata agli occhi”. “Fa come ti sembra meglio”, gli rispose il guardiano» [come dicesse: Fai un po’ come vuoi, tanto lo fai sempre].

Francesco è una coscienza purissima personificata, incarnata, così umanamente incarnata da risultare una specie di involontaria spina nel fianco per chiunque lo voglia seguire, anche da lontano e in maniera imperfetta. Come quel provinciale (nel quale mi sono riconosciuto) che va a interrogarlo ancora una volta sulla povertà e che, ottenuta una risposta conforme alla Regola, commenta: «Che sarà allora di me che ho tanti libri del valore di oltre 50 libbre?» E lo dice «perché voleva tenerli in tranquilla coscienza, e ne sentiva il rimorso». La replica del santo è mitemente implacabile: «Io, gli rispose Francesco, non posso andare contro la mia coscienza e contro l’osservanza del santo Vangelo che abbiamo promesso». Io non posso, vedi un po’ tu cosa puoi fare.

Più si avvicina alla fine e più sembra animato dalla determinazione di dar corpo a un modello preciso e tangibile, in modo che nessuno possa dire: «Ho fatto il possibile, ho provato». Come spiega una volta, a colloquio con il cardinale Ugolino, «bisogna che io con la mia condotta sia di norma a quanti sono e verranno nell’Ordine, così di fronte a Dio saranno inescusabili in questo mondo e nell’altro». Inescusabili, senza possibilità di scampo. Ma al tempo stesso la sua straordinaria partecipazione alle debolezze altrui gli ispira alcuni dei gesti più belli, che paiono contraddire quanto sopra.

Come quella volta a Rivotorto quando, nel cuore della notte, dal gruppetto di frati che dorme si leva un grido: «Muoio, muoio!» Tutti si svegliano, e Francesco, fatta accendere una luce, chiede: «Chi è che ha gridato: muoio?» Un frate si fa avanti e alla richiesta di ulteriori spiegazioni risponde: «Sì, muoio di fame». E allora «Francesco, da uomo qual era pieno di delicata carità, perché quello non si vergognasse di mangiare solo, fece subito apparecchiare, e mangiarono tutti insieme.»

E noi osserviamo commossi e sollevati quello spuntino notturno.

(1-segue)

  1. Perché nella Biblioteca Augusta di Perugia ne fu scoperto, nel 1922, da Ferdinand Delorme, il manoscritto.
  2. Cito prevalentemente da Fr. Leone e compagni, S. Francesco d’Assisi dagli Scritti dei suoi Compagni. «Compilazione d’Assisi» dal Ms. 1046 di Perugia, prima edizione italiana a cura di M.L. Bigaroni ofm, Edizioni Porziuncola 1975; ma ho tenuto davanti, ovviamente, anche le Fonti francescane, terza edizione rivista e aggiornata, Editrici francescane 2011.

 

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San Giuseppe «decollato» (Voci, 9)

La credenza che san Giuseppe da Copertino potesse levitare è ben nota, non avevo mai appreso, invece, che prima di spiccare il volo, di solito, il francescano emettesse qualche grido – di spavento? Ecco alcune testimonianze tratte dal capitolo 39 della Vita redatta da Roberto Nuti, dedicato a questa specialità del santo: «Come fu veduto molte volte in estasi elevato da terra, volare in luoghi alti, e tenersi in aria senza appoggio alcuno».

Ma non solamente questo servo di Dio haveva il dono ordinario dell’estasi, con uscire in eccesso di mente, restando senza moto alcuno, ma molte volte questa elevatione fu communicata anche al corpo, onde si vidde per qualche tempo sollevato da terra volare in luoghi eminenti, impossibile a farsi da un corpo grave, e restare in aria senza appoggio alcuno; cosa molto meravigliosa e fuori del corso naturale. […]

Nel tempo che se ne stava alla Madonna della Grottella per la festa delle sacre Stimmate del Padre San Francesco, si sequestrò in una cappelletta posta dentro di un oliveto un tiro di moschetto [sic] lontana dal Convento; e mentre quivi faceva oratione, diede cinque strilli molto grandi, uno mezz’hora doppo l’altro; il che sentito da’ Padri corsero alla cappella sudetta, e lo trovarono volato sopra il tetto di quella, ch’era diroccata, e stava abbracciato ad una Croce d’altezza più di venti palmi inginocchioni.

Un’altra volta essendo venuto il Vicario Generale di Nardò […], il padre Giuseppe se ne andò a supplicarlo volesse benedire alcune Croci […], che a sua richiesta e devotione havevano fatte fare i suoi amorevoli, rappresentanti il viaggio del Calvario; il che gli fu benignamente concesso; con questa occasione egli si fermò alla messa cantata, che si faceva con gran pompa, e bellissima musica, nel sentire di quella melodia diede un grido e volò alla presenza di tutto il popolo da terra nella sommità del pulpito, dove restò inginocchioni.

[…] Quando il Padre Maestro Santi Rossi da Trevi era Novitio in questo sacro Convento, per una ferita che haveva in testa, causatali da una caduta, aggravato dal male, si tratteneva nel letto; il P. Giuseppe andava spesse volte a visitarlo, & un giorno fra gli altri vi andò che vi era il signor Alcide Fabiani, e molti altri Padri, da’ quali si ragionava spiritualmente di varie cose. Questo servo di Dio fissò gli occhi in un certo Crocifisso piccolo, attaccato al muro sopra di un anche piccolo tavolino, nel quale si  conservavano molti bicchieri, caraffine, vasetti di unguenti & altre robbe fragili che costumano tenersi nelle camere degli infermi […]. Si venne a discorrere della Santissima Concettione di Maria, & egli sentendo questo ragionamento con un gran strillo se ne andò quasi di volo a quel Crocefisso nel muro, e stette in aria senza toccar terra, o legno da nessuna parte quasi mezzo quarto d’hora, e poi cadde sopra il tavolino, pieno di tante cose, senza rivoltarlo né guastar o rompere nessuna delle cose accennate, ma le lasciò tutte nello stato di prima.

Può sorgere la curiosità di sapere cosa accadesse dopo il volo…

Meditando in una Congregatione di alcuni buoni Sacerdoti la Croce, che essi havevano fatto piantare in fine del viaggio sudetto del Calvario, uno di essi propose, se in quella Croce vi fusse Christo Signor nostro inchiodato, come stava nel Monte Calvario, in tempo della sua dolorosa passione, e fosse lecito ad ogn’uno di loro il baciarlo, dove l’haverebbono baciato? Altri dissero per humiltà che gli haverebbono baciati i piedi. Altri per corrispondenza di amore la piaga del costato, ma toccando a questo servo di Dio di appalesare il suo sentimento, disse con un volto tutto infuocato, e con voce altissima: «Et io, & io, & io li baciarei quella santissima bocca, amareggiata di aceto e fiele». E ciò detto prese un volo da terra, & andò alla sommità di quella Croce, la quale era più di dieci braccia di altezza, e si pose con la faccia a puntino a quel luogo dove, se vi fosse stato il Crocifisso, sarebbe appunto stata la sua bocca; e restò quivi inginocchioni, con gran stupore di tutti, in un chiodo di legno, che stava per segno dove furono inchiodati i piedi santissimi di Christo; e per farlo descendere a basso furono necessitati andare nel Convento a prendere una scala.

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Roberto Nuti, Vita del servo di Dio P. F. Giuseppe da Copertino, sacerdote dell’ordine de’ minori conventuali, in Vienna, appresso Pietro Paolo Viviani, 1682, pp. 463-465.

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«Si caccino dal monastero tutti i cagnuoli» (Voci, 8)

Capo VI. Della clausura

1. Sta ordinato, che avanti la porta del monastero l’entrata sia ben fortificata, e custodita da due porte: ove le monache non debbano mai entrare, nel mentre che le porte di fuori stanno aperte, o che in breve si hanno da aprire, acciò le monache da quel luogo non vedano e non possano esser vedute.

2. La portinaja sia una sorella discreta e matura, ed abbia una compagna anche matura. Ella tenga la chiave della porta nel giorno, e senta ciò che si parla; senza gran necessità non apra la porta prima di giorno chiaro, e che sia uscito il sole: nella sera poi la serri all’Ave Maria, e consegni la chiave alla madre.

3. Quando è necessario, che nel monastero entri il medico, il confessore, il sagnatore [colui che fa i salassi], o altra persona necessaria, non si ammetta, se non ha la licenza de’ superiori in scriptis; e posto che debba entrare, si dia il segno della campana, acciocché le monache si ritirino, e vi assistano solamente le accompagnatrici deputate, per tutto il tempo in cui gli uomini entrati dimorano nel monastero.

4. Negli ordini fatti dalla S.C. de’ regolari sta proibito, che non si ammettano dentro il monastero i vetturali, che porteranno vino per uso del monastero, o acqua de’ bagni per le inferme, se non è di giorno.

5. Di più sta ordinato, che niuno entri nel monastero a cernere farina; e se mai vi entra alcuno per altra cagione necessaria ed urgente, non faccia simili servigj.

6. Di più sta ordinato, che si caccino dal monastero tutti i cagnuoli.

7. Di più che le portinaie, e le accompagnatrici degli uomini, che sono entrati nel monastero, abbiano quarant’anni, e non meno. Di più, che le accompagnatrici facciano sempre compagnia ai confessori, medici, chirurgi, e ad altri, che per necessità entrano dentro la clausura.

8. In quanto poi ai parlatorj, si ordina che niuna possa parlare alle grate con altri, che co’ parenti di primo e secondo grado, cioè padri, fratelli, zii, nipoti carnali, e fratelli cugini.

9. Ordina di più la regola, che quando alcuna monaca, o figliuola secolare sarà chiamata alla grata (eccettoché se fosse il confessore) debbono assistervi alcune compagne, o almeno una, che sia matura e divota, e deputata dalla madre.

10. Di più, che niuna suora possa parlare da solo a solo con alcuna persona, se non è presente un’altra sorella ascoltatrice; ciò s’intende di dentro parlando con uomini.

11. Di più, che nell’ora della mensa né la badessa, né altra suora, stia a parlare nelle grate senza urgente causa, e senza licenza della madre.

12. Sta poi ordinato negli ordini della S.C., che in ogni monastero non si tengano grate di ferro più che una, o al più due.

13. Di più sta ordinato, che le fenestrelle donde le suore pigliano la santa comunione, siano alte mezzo palmo, e larghe un palmo intiero; e che dette finestrelle si serrino con due porticelle con altrettante serrature, e chiavi, l’una dalla parte di dentro e l’altra di fuori.

14. In quanto poi a’ parlatorj sta ordinato, che il parlatorio di dentro stia chiuso con chiave, ed ivi non entri alcuna monaca, se non quando sarà chiamata, ed avrà avuta la licenza dalla superiora. E quivi sempre stiano presenti le ascoltatrici deputate, le quali debbano udire ciò che si dice, eccetto se quel che si ha da ragionare, richiedesse segretezza; il che potrebbe permettersi a’ parenti più stretti da parte di padre senz’altra compagnia.

15. Di più, che i parlatorj di fuori non abbiano porte che si possano serrare, ma tutte stiano aperte.

16. Di più, che niuna monaca, o conversa tratti di qualunque negozio, causa, o lite con alcun avvocato, procuratore, sollecitatore, esattore, o altro fattore; eccettoché con quei soli, i quali son deputati per procurare e difendere i comuni negozj e le liti del monastero, e con licenza della prefetta del monastero.

17. Di più sta ordinato che tutte le finestre, o buchi, che staranno nelle mura della clausura, da cui le monache possano vedere, o esser vedute, del tutto si chiudano; concedendosi loro solamente alcune fenestre, che sian necessarie per prender luce, e queste pur siano tali, che di là in niun conto possano esser vedute né vedere.

Regole per il ven. monastero di S. Maria Regina Cœli nella città d’Airola sotto l’istituto di S. Elisabetta del Terz’Ordine di S. Francesco, rivedute e ridotte in miglior ordine da Sant’Alfonso Maria De Liguori, Torino, presso Giacinto Marietti tipografo-libraio, 1830.

 

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«Con le sue manj». Il taglio dei capelli di Chiara d’Assisi

LeggendaSantaChiara«Et poi sancto Francesco la tondì denante allo altare, nella chiesia de la vergine Maria dicta dela Portiuncola.»

Ho approfittato dell’edizione in volume separato da poco pubblicata dalle edizioni Paoline per leggere la Leggenda di santa Chiara vergine di Tommaso da Celano. Quando mi avvicino alla «regione francescana» (e clariana), in particolare alle sue fonti, si accende una sensibilità inconfondibile, e sono certo di non essere il solo miscredente (peraltro non si è mai il solo «qualcosa») che Francesco d’Assisi zittisca. Oggi è stata la volta di una scena: il taglio dei capelli di Chiara d’Assisi.

Richiesto su come comportarsi per seguirlo nella «religione» («quando e come dovesse agire»), Francesco ha detto a Chiara di lasciare la casa paterna e di raggiungere lui e i suoi compagni a Santa Maria degli Angeli, la notte della Domenica delle Palme («el dì de la oliva», del 1211 o del 1212). Lei lo fa, uscendo da una porta secondaria, che apre miracolosamente, e «accompagnata da una onesta compagnia». In breve raggiunge la chiesa della Porziuncola, illuminata da fiaccole e dove i frati la stanno aspettando in preghiera. «E lì subito, gettate via le brutture di Babilonia, diede al mondo il libello del ripudio, tagliati per mano dei frati i capelli, depose anche i vari ornamenti» (Leggenda, IV).

Così scrive Tommaso da Celano. È un brano che nel suo complesso è stato, come è ovvio, attentamente analizzato, poiché ricco di sfumature e allusioni, ma del quale rimane intatta la forza dell’immagine notturna della chiesetta, illuminata dalle torce e presumibilmente fredda (è marzo), in cui fa il suo ingresso Chiara, attesa dai frati. Il curatore della Leggenda, Marco Guida, osserva sulla scorta di diversi studi anche il significato preciso della scelta del Celano di attribuire collettivamente ai frati, in contrasto con le fonti agiografiche precedenti, il taglio dei capelli di Chiara: la «responsabilità corale» nella fuga della giovane serve a ribadire, a molti anni di distanza dai fatti «il legame tra “sorelle povere” e “frati minori” caratteristico delle origini».

Altre «leggende», invece, scelgono comprensibilmente di unire Chiara e Francesco anche in quel gesto. Come nel caso della Legenda minore umbra, in volgare, probabilmente della fine del XIV secolo, che anzitutto precisa che i frati stavano proprio pregando per Chiara, «che non havesse impedimento al suo sancto desiderio et proponimento»; che restituisce poi ancora più poetica l’immagine della chiesa, «et intrando nella echiesia dove erano multi lumi accesi, però che li frati cantavano multe belle laude de Dio, et himnj sancti multo devotamente»; e arriva infine così all’apice della scena (che merita la citazione estesa):

«Et vestita de una soctana grossa, sancto Francesco con le sue manj sì li moçço et tondì li soi capilli, et cénseli una grossa corda, et puseli in capo uno velo biancho et uno negro de grosso et materiale panno. – Porresti pensare piatosamente, che era ad vedere una fanciulla tanto dilicata de .xiij anni andare con una soctana grossa et così grosamente velata con quillo angelico volto, et acompagnata da così poveri frati.»

Tommaso da Celano, Leggenda di santa Chiara Vergine, a cura di M. Guida, Edizioni Paoline 2015; la Legenda minore umbra, e tante altre cose molto interessanti, si può trovare nel sontuoso Fonti clariane. Documentazione antica su santa Chiara d’Assisi…, a cura di G. Boccali ofm, Edizioni Porziuncola 2013.

 

 

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Due (o più) note francescane

A un certo punto del suo carteggio con il servita Giovanni Vannucci, sorella Maria del Campello ritorna sulla sua decisione di dare del tu al giovane sacerdote di cui già apprezza la spiritualità, l’attività, l’attenzione verso la sua comunità, il complicato rapporto con le strutture ecclesiastiche. È il gennaio del 1949, i due si conoscono e si scrivono da poco più di un anno, lei ne ha 74, lui ne ha appena compiuti 35, e la lettera di Maria del 17 è tra le più lunghe e dense di quelle pubblicate (125 su 525, tanto per concludere un periodo pieno di numeri…). È un epistolario di notevole intensità, interessante di suo, si potrebbe dire, al di là della luce che getta sulle personalità dei due corrispondenti, sull’eco lasciata dalla figura di Ernesto Buonaiuti, sulla chiesa di quegli anni, sulle vicende di Nomadelfia, sull’astro di David M. Turoldo, ecc. – tutte cose di cui non so quasi niente e che è a suo modo più stimolante avvicinare attraverso le testimonianze degli individui che tramite le ricostruzioni storiche.

Per intanto, tuttavia, c’è quel «non si stupisca del Lei cui sono ritornata. Forse è meglio così, riflettendo. E forse verrà tempo d’una comunione più trasparente» (e infatti verrà). La nota suscita in Maria, la «Minore», come si autodefinisce, una riflessione sulle difficoltà dei rapporti: «Non è facile il passo avanti nel conoscimento di noi stessi e degli altri, anche se carissimi e consoni» (il corsivo è mio); lei si sente manchevole anche nei confronti delle sue compagne, che condividono quella singolare esperienza dell’eremo di Campello dal 1926, e aggiunge: «Quanto è nebuloso l’animo umano, anche dopo lunghi anni di convivenza fraterna!»; lo raccomandava anche Francesco, nella Regola non bollata: «”Si guardino i frati dal mostrarsi nebulosi…”».

È solo un lieve slittamento di significato, da nuvoloso a nebuloso, forse relativo soltanto all’italiano. Le Fonti francescane, al Capitolo VII, 16 della Regola non bollata, riportano infatti: «E si guardino i frati dal mostrarsi tristi all’esterno e oscuri in faccia come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e giocondi e garbatamente amabili», che viene dal latino: «Et caveant sibi, quod non se ostendant tristes extrinsecus et nubilosos hypocritas; sed ostendant se gaudentes in Domino et hilares et convenienter gratiosos»); passo che riceve testimonianza da un brano (XCI) della Vita seconda di Tommaso da Celano: «[Francesco] Amava poi tanto l’uomo pieno di letizia spirituale, che per ammonimento generale fece scrivere in un capitolo queste parole: “Si guardino i frati di non mostrarsi tristi di fuori e rannuvolati come degli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore, ilari e convenientemente graziosi”».

Ma il titolo parlava di due note, almeno. Sì, perché, andando a vedere il passo di Tommaso da Celano, mi è cascato l’occhio, nella pagina a fronte, su un’immagine di Francesco così bella che con essa mi piace chiudere gli appunti di quest’anno:

«Talora – come ho visto con i miei occhi – raccoglieva un legno da terra, e mentre lo teneva sul braccio sinistro, con la destra prendeva un archetto tenuto curvo da un filo e ve lo passava sopra accompagnandosi con movimenti adatti, come fosse una viella, e cantava in francese le lodi del Signore.»

Francesco che suona e canta.

Sorella Maria, Giovanni M. Vannucci, Il canto dell’allodola. Lettere scelte (1947-1961), a cura di P. Marangon, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006 (la lettera citata è la 23); Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, XC.

 

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Giorgio Agamben, Altissima povertà (pt. 3)

(la prima parte è qui, la seconda parte qui)

Nel lungo processo di definizione dello status giuridico della regola il caso francescano, e sarebbe più corretto dire di Francesco, si situa per così dire in un punto estremo di radicalità, e a esso è dedicata la terza, densissima parte del volume di Agamben.

Non è un caso che la radicalità francescana emerga all’inizio del XIII secolo, in un momento di forte effervescenza di movimenti religiosi, ed ereticali, in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche, o più esattamente visti da esse come una minaccia mortale, non tanto sul piano dottrinale quanto su quello della vita stessa, del modo di vivere. Proprio su questo aspetto, da un punto di vista monastico, il concetto che per eccellenza è legato al modo di vivere, cioè la regola, diventa terreno di scontri e contraddizioni. La particolare tensione che si era creata tra i due estremi di regola e vita, in direzione di una sostanziale identificazione, si fa massima in Francesco, le cui poche parole sembrano indicare una «terza via», la forma-di-vita.

Come nell’incipit della «Regola non bollata» del 1221 (cioè confermata senza bolla), in quello che si ritiene il residuo della prima regola presentata a Innocenzo III nel 1210, il Prologo e il Capitolo I, laddove (I, 1) si legge «La regola e vita dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e l’esempio del Signore Nostro Gesù Cristo». Regola e vita, che quindi non sono la stessa cosa, e che si uniscono a formare una terza cosa, una forma-di-vita, appunto, che altro non è che l’imitazione della vita di Gesù raccontata dal Vangelo: «Come avversari e seguaci intesero immediatamente, la “forma del Santo Vangelo” non è in alcun modo riconducibile a un codice normativo», e ancora: «È chiaro che Francesco ha qui [R.n.b., II] in mente qualcosa che non può semplicemente chiamare “vita”, ma che nemmeno si lascia classificare come “regola”». Non è una legge che possa essere infranta (non per niente Francesco rifiuta di impegnarsi personalmente nell’esercizio della disciplina verso chi non rispetta la regola), è una zona extragiuridica, è il tentativo immane di «realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto». Un tentativo che, ricorda A., ovviamente infiammerà la reazione della curia e che per la sua spinta rivoluzionaria non potrà che fallire.

È alla luce di questo tentativo che, ad esempio, bisogna leggere il nome che Francesco ha dato ai suoi frati: minori, anche cioè minorenni, soggetti privi di potestas, sottomessi alla potestà di un paterfamilias (Dio padre e, in subordine, il papa). E la chiave di questo tentativo, il fondamento di questa «neutralizzazione del diritto rispetto alla vita», è la rinuncia alla proprietà, la povertà (l’altissima paupertas, il «senza nulla di proprio»), sulle orme di Gesù (Figlio minorenne del Padre?). I francescani sono bambini che rinunciano al possesso delle cose senza però rinunciare all’uso di esse, all’uso di fatto: «L’abdicatio iuris (con il ritorno che essa implica allo stato di natura precedente alla caduta) e la separazione della proprietà dall’uso costituiscono il dispositivo essenziale di cui i francescani si servono per definire tecnicamente al peculiare condizione che essi chiamano “povertà”». Non rinunciano all’uso perché si trovano in uno stato di necessità che precede qualsiasi legge (mangiare per sopravvivere, ad esempio, come gli animali che tanto rilievo hanno nella predicazione di Francesco): «L’uso e lo stato di necessità sono i due estremi che definiscono la forma di vita francescana».

Sul concetto di «uso» si scatena la guerra, uno scontro durissimo che si concluderà con la vittoria del papato, nella persona di Giovanni XXII (e della sua bolla Ad conditorem canonum), a riprova del potenziale eversivo del messaggio francescano. Le questioni si faranno sottilissime e coinvolgeranno alcuni dei cervelli più fini del tempo (nel campo campo francescano, che ben presto si dividerà tra spirituali e conventuali, per esempio Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Bonagrazia, Bonaventura, Olivi, ecc.): uso contro proprietà, come nel caso dei «beni di consumo» – un pezzo di pane? – che nel momento in cui vengono usati – cioè mangiato – diventano «proprietà» di chi li usa; o ancora uso di fatto e uso di diritto, cioè da un lato il «puro esercizio fattuale di una prassi umana» [mangiare] e dall’altro il «diritto di usare» una cosa fondato su un diritto positivo di origine umana.

Il mite e preveggente Francesco, suggerisce A., si era saggiamente tenuto fuori queste complicazioni «rifiutando di articolare in una concettualità giuridica e lasciando affatto indeterminato il suo vivere sine proprio», affidando il suo messaggio a una forma di vita che poté manifestarsi in tutta la sua potenza soltanto nell’esperienza di un solo individuo e dei suoi primi, pochissimi seguaci, anche per via del suo profondo significato escatologico: «La forma di vita francescana è la fine di tutte le vite…, l’ultimo modus, dopo il quale non è più possibile la molteplice dispensazione di modi vivendi. L'”altissima povertà”, col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica».

Con Francesco, sembra di capire, si sarebbe salvata la vita stessa, e non soltanto le persone.

(3- fine)

Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Homo sacer IV, 1), Neri Pozza 2011.

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Dodici anni in monastero (pt. 2)

(la prima parte è qui)

L’immagine del noviziato che scaturisce dalle pagine che vi dedica McCabe (siamo nel 1885) è quantomeno sorprendente: un luogo dove individui troppo giovani sono costretti ad affrontare «il tremendo problema di una scelta irrevocabile», sotto l’occhio vigile di un manipolo di frati che hanno smarrito da tempo, se mai l’hanno avuto, il fervore della loro vocazione, e al tempo stesso fanno di tutto per isolare e preservare il germe di quella dei novizi. Il noviziato: l’istituzione e il luogo «in cui si prova la nuova vita».

La nuova vita, la nuova giornata, comincia alle 4.45, con una sveglia che ricorda un po’, tanto, certe scene da caserma, con il«superiore» che passa battendo le porte delle celle con un bastone («In una circostanza un giovane confratello, profondamente addormentato, venne trascinato fuori della stanza sul materasso dai suoi compagni e lasciato in mezzo al corridoio»), e prosegue secondo un ritmo scandito dalla celebrazione dell’Ufficio in cappella. Niente di strano, anzi, se non fosse per lo squilibrio tra la lunghezza dei riti e l’effettiva capacità di concentrazione dei confratelli, soprattutto dei più giovani. Il freddo e il sonno al mattino, la fame verso mezzogiorno, la distrazione durante la meditazione silente, la difficoltà della lingua latina… tutte cose che fanno dire, tristemente, a McCabe come «nel complesso, sia stato subito chiaro che delle sette ore di preghiera che ci erano imposte, almeno sei fossero una assoluta perdita di tempo».

E anche le refezioni sono motivo di sorpresa, per lui e per chi legge. Certo non per il cibo, bensì per le bevande. Sia a pranzo che a cena, infatti, il pasto è accompagnato da una pinta di birra per ciascun confratello, novizi compresi. «Molti di noi avevano a mala pena raggiunto l’età del bere forte, ma eravamo costretti a prendere due boccali al giorno… insieme agli altri». E ogni scusa è buona per aggiungere una terza pinta quotidiana, per esempio sostituendola al tè delle 15.30. E poi il vino nei giorni festivi, «un bicchiere di sherry, seguito da due o tre di ottimo porto – talvolta persino champagne» (offerto dai parrocchiani ai «poveri frati»). «Non avevo mai bevuto birra, né vino, prima di entrare in monastero, ma un semplice calcolo mi dice che, nel mio sedicesimo anno, devo aver consumato cinquanta galloni di birra e una dozzina di bottiglie di buon vino durante il mio primo anno di vita monastica» (cinquanta galloni sono circa duecento litri). Già, i giorni festivi: l’occasione agognata per spezzare la routine, altrimenti alleviata soltanto da brevissimi periodi di «ricreazione» in cui è permesso anche ai novizi rompere il silenzio e magari giocare a cricket o con la palla…

McCabe osserva con disincanto, e direi senza malignità, l’effettivo contenuto di alcuni concetti chiave della vita monastica alla quale viene «preparato». Il digiuno per esempio, che in realtà significa un solo pasto («protratto fino alle quattro del pomeriggio», però), e che non tocca il bere (potus non frangit jejunium), magari con un pezzettino di formaggio, perché parum pro nihilo reputatur: il poco conta come il niente. O la mortificazione, sulla quale un frate portoghese «assetato di sangue» insisteva molto: dopo la cena i novizi devono ritirarsi nella propria stanza e somministrarsi la disciplina (una corda annodata) ma, «sapendo che il nostro maestro era solito restare in corridoio ad ascoltare durante la performance, spesso gli offrivamo esagerate manifestazioni del nostro fervore percuotendo la scrivania o un’altra superficie». Per non parlare dello studio, meccanico e basato sulla ripetizione. O dell’esempio dato dagli anziani, frati e sacerdoti, «sempre alla disperata ricerca di distrazioni». O infine la penitenza per le mancanze, duramente represse nei novizi: «Tutto è pensato», osserva amaramente McCabe, «per distruggere anche la minima particella di ciò che viene comunemente chiamato rispetto di sé, per distorcere e deformare il carattere in ossequio a uno stupido ideale medievale».

Alla fine dei dodici mesi, il capitolo si riunisce per ricevere i voti semplici dei novizi e accoglierli stabilmente nella comunità. La cerimonia è ricca di fascino e atmosfera, e i postulanti sembrano consapevoli della gravità di quello che stanno per promettere, ma, si chiede McCabe, «cosa sono il mondo e la carne per un ragazzo di sedici anni, o anche per un giovane di diciannove (età alla quale il passo finale e irrevocabile è compiuto), che è rimasto chiuso in un’istituzione ecclesiastica da quando ne aveva tredici?» Non sa niente della vita, non sa quasi niente di se stesso e, soprattutto, «quando mormora la promessa del celibato, [è] del tutto ignorante della passione che un giorno pulserà in ogni fibra del suo corpo e trasformerà il mondo al di là di quanto possa immaginare. Sta firmando un assegno in bianco sul quale la natura un giorno potrebbe scrivere una somma spaventosa». È un «cieco sacrificio» che non dovrebbe essere permesso a quell’età, preludio a un’insana guerra con le forze profonde dell’essere che potrebbe durare una vita: «Se è vero che la vita monastica è sempre sul punto di naufragare nella corruzione, dovremmo essere più inclini alla pietà nei confronti dei monaci, piuttosto che al biasimo».

(2-continua; la prima parte è qui)

Joseph McCabe, Twelve Years in a Monastery, third and revised edition, London, Watts and Co., 1912.

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Dodici anni in monastero (pt. 1)

Per quanto sia meglio resistere alla cattiva abitudine di considerare i transfughi soltanto quanto vengono dalla propria parte, ho letto con curiosità Twelve Years in a Monastery di Joseph McCabe (trovato per caso in una libreria di libri usati). Scrittore inglese, di formazione filosofica, e cosiddetto «campione» del libero pensiero, nonché sostenitore dell’ateismo in tempi assai diversi dai nostri, McCabe (1867-1955) fu frate francescano e sacerdote prima di «gettare il saio» e uscire dalla Chiesa cattolica nel 1896. L’anno successivo pubblicò questo libretto, forse il suo titolo più famoso, cominciando a scrivere a rotta di collo (molti suoi testi sono disponibili in rete e qualcosa sta riapparendo in ebook) e dando inizio a un’intensa attività di polemista, divulgatore e organizzatore.

È una fotografia ingiallita di un frammento della lunga storia del monachesimo: di un momento, di un luogo (un’Inghilterra in partibus infidelium, che i monaci cattolici vivevano come terra di missione) e di un individuo, a partire da quali non si può certo generalizzare, ma nemmeno considerare del tutto eccezionali. Un’immagine che sembra raccontare soprattutto di una fase di profondissima decadenza di un’ideale di vita che, dalla sua apparizione sino a oggi, ha attraversato periodi ricorrenti di «corruzione» e «rinnovamento», a dimostrazione, per i suoi sostenitori, dell’eterna aspirazione dell’uomo alla perfezione e, per i detrattori, a misura della sua incompatibilità con la natura umana.

Sin dall’inizio, per esempio, McCabe parla più di «reclutamento» che di «vocazione». Aveva quindici anni e gli piaceva molto la chiesa francescana di Manchester, i frati fecero qualche allusione e poi un converso si dedicò «a suscitare in me il desiderio di entrare nel loro Ordine». Dopo due tentativi andati a vuoto, costui lo convinse a iscriversi alla scuola del monastero («I missionari sono i tipici “sergenti da reclutamento”, [e hanno] il compito di procurare fondi e novizi per i loro conventi»).

«Eravamo in otto quell’anno e si può tranquillamente affermare che non ci fosse in tutto il Regno Unito un gruppo di collegiali più oziosi e furbi di noi. Il nostro degno professore sapeva poco della vita dei ragazzi, e ancor meno di quella delle ragazze. Aveva, inoltre, molti altri incarichi che lo distraevano dai suoi doveri di docente. Il rettore, un vecchio frate belga deliziosamente ottuso, avrebbe potuto assolvere i suoi compiti altrettanto bene che se fosse vissuto su Marte.»

Dopo un anno scarso – passato a studiare latino,  un po’ di francese e un po’ di greco – McCabe viene mandato nel monastero di Killarney per il noviziato, il cui racconto comincia su una nota quantomeno singolare: «Il primo sentimento che quel luogo mi ispirò quando vi entrai, alla fine del maggio 1885, fu un misto di profonda malinconia e scontentezza». Quella sera, seduto ai tavoli spogli di legno del refettorio, in totale silenzio e deprimente gravità, «sentii che la mia carriera monastica sarebbe stata molto breve».
(1-continua)
Joseph McCabe, Twelve Years in a Monastery, third and revised edition, London, Watts and Co., 1912.

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