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«Che si alzino superbe nell’eminenza dei calcagni» (Voci, 5)

discorsiclaustraliDiscorso LXXIII. L’affettata pulitezza negli abiti indizio del poco ornamento delle virtù

 I. Allor che nacque cogli uomini l’innocenza fu sua prima veste la nudità, e tanto più bella comparve, quanto più nuda. Morta che fu l’innocenza, la colpa, che entrò in possesso del mondo, cominciò a vestirsi; direi perché troppo deforme ebbe rossore di lasciarsi vedere così spogliata. Capisco che le vesti sono orditura del peccato per ricoprire le sue bruttezze, che per altro tanto vi è meno di deformità, quanto di meno vi è da nascondersi sotto l’ombre di qualche manto. A così nobile sentimento allude il Santo Padre quando prescrive a’ suoi figli che non affettino notabile singolarità negli abiti. Non sit notabilis habitus vester. Volle insegnarci che per esser nata col peccato l’invenzione degli abiti, quello mostra d’aver meno della primiera innocenza che più s’industria di ben vestirsi, che è quanto il dire ciò che ora m’accingo a dimostrarvi. Diciamolo con modo più breve e con sentimento più chiaro. Cuore nudo in un corpo notabilmente vestito. Non sit notabilis habitus vester.

II. Io non disapprovo una religiosa pulitezza, una monda povertà. Le lane che ci ricuoprono non debbon essere né lacere, né sordide, perché altrimenti chi affettasse panni così lordi e sdruciti mi darebbe sospetto di qualche fasto colla medesima viltà degli abiti, e stentarei assai a non formentare il giudizio che fece Socrate di Antistene nella sua filosofica povertà gonfio e superbo, che in osservarlo a far pompa del suo pallio logoro e lacerato gli rinfacciò la sua fastosa abbiezione con questo acuto rimprovero: Video per scissuram pallii tuam vanitatem. Se pure non era indizio di anima trascurata la sordidezza del manto. No. Abito mondo, rappezzato talvolta, sì, ma in modo che in vece di abito religioso non mostri d’essere un stovagliolo da pentole e focolajo. Ciò che biasimo e disapprovo è il volere che il panno non sia volgare, ma di tessitura più nobile, sì per la sottigliezza del lavoro, come per la preziosità delle lane; pretendere che oltrepassi la dovuta misura, acciò una lunga coda renda più maestoso il portamento del corpo e più fastoso il passo del piede; volere che talora entrino le sete al vile ministero di purgare dagli escrementi o il naso, che gocciola, o la fronte, che suda; affettare o maniche raddoppiate o con più pieghe le falde, e che fino le sandole, che per servire al piede dovrebbero essere umili ed abbiette, far che si alzino superbe nell’eminenza dei calcagni e mostrino la sua pompa nella finezza delle cinture. Questa è la vanità degli abiti che rimprovero ne’ nostri Scalzi, e che mi porge motivo di concepire nudo d’ogni ornamento di virtuosi attributi quel religioso che impegna le sue cure nella pulitezza esteriore de’ vestimenti. […]

IV. E qual addobbo di virtù potrassi mai vagheggiare ove alza trono la vanità e signoreggia il fasto? Se di nuovo tornasse a risorgere dalla gloriosa sua tomba il serafico San Francesco, ed incontrasse tal uno di questi religiosi che s’industriano di far comparire con sfarzo un sacco di penitenza, che è quanto il dire di vestire di abito monastico la vanità, suppongo che di nuovo, come fece a’ suoi tempi con frate Elia, vicario generale del suo Ordine, si farebbe imprestare quell’abito, e dopo aver raddoppiate le maniche, e piegate le falde, e raffazzonato il cappuccio, raffettandolo acconciamente sul dosso, lo vedreste con passo fastoso, con fronte rilevata, con gesto altiero, fino a spurgarsi per accompagnare col fasto del portamento un sonoro rimbombo di voce, salutare or l’uno, or rispondere all’altro con maestosa gravità, acciò in fine tutto il portamento dell’abito, delle parole mostrasse grandezza e cattivasse rispetto. Lo vedreste dopo con tutta veemenza di zelo trarsi quell’abito sì fastigioso, slanciarlo da sé lontano, e poi, rivolto al religioso, sgridarlo con tal rimprovero: Così vanno vestiti i bastardi dell’Ordine!

Discorsi claustrali sopra la Regola del gran padre Santo Agostino recitati a’ suoi religiosi dal padre Prospero da S. Giuseppe, Teologo, Predicatore e poi Vicario Generale de’ Scalzi Agostiniani, in Venezia, 1732, presso Gio. Battista Recurti. (Il Discorso LXXIII si può legger qui.)

 

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«Mortificar il corpo, ma non occiderlo» (Voci, 2)

Concludo la lunga serie dedicata a Chiara da Montefalco con le durezze cui la giovanissima Chiara si sottopone nel reclusorio retto dalla sorella Giovanna, come raccontate in un’agiografia assai più tarda rispetto ai fatti (avvenuti intorno al 1280).

VitaBeataChiara

Era solito la B. Chiara ritirarsi ogni notte, mentre l’altre riposavano, in qualche luogo remoto di detto Reclusorio, dove con un flagello di funi, che s’haveva accomodato, si disciplinava fino al sangue. Questo flagello, con il quale Chiara si disciplinava, fu trovato da Tomassa, una delle sue compagne, tutto insanguinato, di che stupita, e giudicando, come era veramente, che il flagello fusse di Chiara, andò dalla Rettrice, alla quale mostrando il detto flagello, la consigliò che volesse riprender Chiara, a ciò desistesse da penitenza tant’austera, esseguì Giovanna quanto le veniva consigliato da Tomassa; onde chiamata Chiara, le disse che cessasse dal disciplinarsi tanto severamente; dovendo ella mortificar il corpo, ma non occiderlo. Ricevè Chiara l’avertimento di Giovanna, e ne la ringratiò; ma perché credeva che fusse stato conseglio di amorosa sorella1, seguì tuttavia ogni notte la solita disciplina con le dette funicelle, ò con un fascio d’ortica, overo di rovispine, mentre havea sospetto di poter esser sentita, la quale disciplina finita, prendeva il mantello di qualche sua compagna con il quale si copriva, a fin che passando la Rettrice non la riconoscesse così facilmente.

Dovendo dare il debito riposo al suo corpo, non volse in questo Reclusorio concedersi altro letto, che la nuda terra, anzi parendogli soverchia delizia stendervelo, per lo più dormiva sedendo con il capo appoggiato al muro, overo ad un legno, che stava nella sua cella alzato, che havendo il traverso sembrava à Chiara il legno della santa Croce.

Il cibo era pane di orzo, e di segala, il quale spesse volte era da lei bagnato nell’acqua, e poi involto nella cenere : vino rare volte bevea : la minestra quando le veniva posta avanti, era da essa resa insipida con l’acqua; risoluta di non voler sentir gusto alcuno ne cibi.

Desiderosa la B. Chiara d’osservare la legge, che si havea proposta, di non gustar mai quel cibo del quale essa n’havesse havuto fantasia, era solito dire al suo corpo, mentre appetiva qualche cibo particolare, queste parole: «Misero corpo, che desideri? Quando mai meritasti tal cibo? Mentre con altro puoi sostentarti, contentati, che questo non l’haverai altrimente». Una volta, essendosi infermata, hebbe desiderio di gustare un poco di casciata, vivanda così chiamata in que’ tempi, hoggi calcione. Si trovava in questo punto dentro il Reclusorio Francesco suo Fratello, al quale in vece della casciata domandò un pezzo di pane duro muffito, volendo in questa guisa mortificare il desiderio della sua carne; ma volendo il Sign. consolare la sua serva, diede a questo pezzo di pane sapore di casciata, & insieme la fece tanto padrona del suo gusto, che d’indi in poi in tempo di sua vita, mai più hebbe desiderio di cibo particolare; in modo, che se tutti i cibi del mondo le fussero stati posti avanti, non haverebbe havuto più desiderio di uno, che dell’altro.

Vita della B. Chiara detta della Croce da Montefalco dell’Ordine di S. Agostino. Descritta dal Sig. Battista Piergilii da Bevagna, seconda edittione, in Foligno, appresso l’eredi d’Agostino Alterii, 1663. Parte prima, Capitolo V, «Delle penitenze che la B. Chiara cominciò e fece in detto Reclusorio», pp. 12-13 (che si può leggere qui).

 

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«Dolcemente e lievemente» (la Vita di Chiara da Montefalco pt. 3/3)

BerengarioDonadio

(la prima parte è qui, la seconda qui)

Ho deciso di riservare un terzo appuntamento con la Vita di Chiara da Montefalco di Berengario di Donadio1 non per affrontare la delicata e complessa questione del cuore della santa, che dopo la sua morte fu trovato piuttosto ingrossato («grosso come la testa di un bambino piccolo») e recante, secondo l’agiografia, i segni della Passione di Cristo – questione assai dibattuta anche da un punto di vista medico. Né per passare in rassegna i circa trenta miracoli post mortem riportati in appendice (conversioni, visioni e guarigioni, di uomini e animali, dall’epilessia al mal di denti) e la lunga serie di intercessioni i cui destinatari – come riportati da un’opera di molto posteriore – sono suddivisi in un irresistibile elenco: «I. Morti resuscitati; II. Paralitici, attratti et impediti in qualche membro del corpo, guariti e liberati; III. Rotti et herniosi liberati; IV. Liberati dal male di pietra; V. Donne liberate dal dolore di madre, flusso di sangue e dolori di parto; … IX. Liberati dalle scrofole et enfiature della gola; … XII. Persone liberate da nemici e dal pericolo d’annegarsi», e così via2). Mi preme invece di annotare quanto occorso a Giocondo di Gonzo, «un frate della regola e dell’Ordine dei Minori, incaricato di predicare alle esequie di Chiara». Tre momenti in particolare.

Fra Giocondo si è preparato il sermone, «come era solito fare per i defunti», ma non appena sale sul pulpito è colto da improvvisa ispirazione e inizia a parlare a braccio, tessendo lodi altissime di Chiara. È proprio scatenato, tanto che suscita più di una perplessità nell’uditorio. Qui la scena è riportata con una tale vividezza che merita la citazione estesa: «Alle sue elevatissime parole, i frati, venuti da molti diversi Ordini, indignati, specialmente i suoi confratelli francescani, cominciarono alcuni a sghignazzare dentro i cappucci, altri a guardare con occhi torvi, mentre altri scuotevano il capo, altri volgevano altrove il viso e altri si dicevano vicendevolmente che passava la misura nel suo elogio». Giocondo si accorge del malumore che serpenteggia tra i suoi ascoltatori, se ne dispiace, ma non demorde, anzi, «buttando via ogni timore… diceva della predetta vergine tutto ciò che non aveva pensato prima ma che gli ispirava il Signore».

Lo scandalo del sermone non si chiude con la fine della funzione. Giocondo rincara la dose in altre occasioni, attirandosi critiche sempre più aspre. È molto amareggiato e comincia anche a dubitare del proprio giudizio. Un giorno, mentre si trova nella sua cella, ha una visione: è proprio Chiara, che gli si avvicina «con volto lietissimo» e gli chiede: «Guardami e vedi se ti sembra troppo quanto hai detto di me nelle prediche». Comincia così una scena la cui accesa sensualità è tenuta a stento entro i limiti dal partecipe Berengario. Giocondo è abbagliato dallo splendore della santa, capisce e non capisce, allora Chiara, «interposti mano e braccio tra il collo del frate, che dormiva leggermente, e il guanciale, con l’altra mano lo toccò dolcemente e lievemente nella parte superiore della guancia dicendo: “Guarda ora e vedi se sono bella”». Un gesto che ripeterà tre volte… Al di là di qualsiasi considerazione, è una scena di grande dolcezza.

Più volte incalzato dalla santa a riconoscere la sua bellezza, e quindi rassicurato su quanto aveva predicato, fra Giocondo pensa a cosa possa essere paragonata la luminosità ineffabile di Chiara. Tutto gli sembra insufficiente, finché «finalmente gli venne da considerare il colore del cielo d’occidente dopo il tramonto del sole, tutto sereno, senza alcuna una nuvola».

(3-fine)

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  1. Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, a cura di R. Sala, o.s.a., note di S. Nessi, Città Nuova 20093.
  2. Battista Piergilii, Vita della B. Chiara detta della Croce di Montefalco, Foligno 16632.

 

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«Tutte le cose ardono» (la Vita di Chiara da Montefalco pt. 2/3)

(la prima parte è qui)

Quando diventa badessa Chiara è già molto avanti su diverse «strade».

Senz’altro lungo quella della distruzione del proprio corpo: la sua anima, riporta Berengario1, «sosteneva il corpo come fosse non suo, quasi fosse una veste o il corpo di altri non unito alla sua anima: a malapena lo sentiva come proprio». Continua ad andare scalza, dorme seduta o «appoggiata a una pertica che era piantata nella sua piccola cella», si copre un po’ solo quando è malata, mangia malissimo (vegana e crudista). Cede quando il corpo si arrende, e allora dirà alle novizie: «Se io avessi un corpo come avete voi, non mi coricherei mai nel letto».

È avanti lungo la strada dell’umiltà. Oppostasi inutilmente all’elezione, mantiene il suo atteggiamento di servizio e di costante autosvalutazione: «Io sono convinta di essere la donna peggiore del mondo e non vedo nessuna persona peggiore di me»2. Mantiene anche, bisogna dire, la volontà d’acciaio che ha manifestato sin da piccola. Se il più delle volte è esercitata per mortificarsi, altre è in aperto contrasto con lo spirito di obbedienza. Berengario riporta a questo proposito un piccolo episodio molto bello. Chiara ha sempre interpretato la castità in maniera ultra radicale, anche quella dello sguardo: occhi a terra, mantello e cappuccio chiusi, tenda alla grata. Non vedere né essere vista, figuriamoci poi toccare o essere toccata. Un giorno le viene richiesto di accettare un oblato posandogli le mani sul capo: «Bisogna che tu lo riceva con le mani scoperte, come fanno le altre abbadesse», le dice un canonico. «Ma Chiara rispose: “Io non farò così”».

Chiara è senza dubbio avanti, inoltre, sulla strada della scienza. Non è «donna istruita» ma, come i padri delle origini, possiede la piena comprensione delle Scritture e, mentre prima non parlava quasi mai, dopo la morte della sorella e l’elezione è un fiume di insegnamenti per le consorelle. Non solo, e questo è un tratto insolito, è infusa anche di scienza mondana: «Era pure consapevole che di qualsiasi cosa si trattasse – per fare un esempio, anche di un ramoscello di quercia – avrebbe saputo dare con diversi procedimenti tante spiegazioni e cavar fuori tante cognizioni, che se ne sarebbero potuti scrivere molti libri». Il suo sapere brilla in particolar modo nel confronto assai noto con il francescano Bentivenga da Gubbio che, accompagnato da Giacomo da Coccorano, si trattiene a lungo (Berengario parla di due giorni interi) alla grata del monastero della Santa Croce, cercando di convincere Chiara della giustezza dei suoi argomenti a favore dello «spirito di libertà» e dandole della «grossa di cervello». Chiara non si scompone, ribatte punto su punto, ci pensa su e infine denuncia ai superiori dell’Ordine l’eterodossia del frate (che sarà poi inquisito, condannato, su iniziativa di Ubertino da Casale3, e infine incarcerato).

Ancora, Chiara è molto avanti sulla strada della «visione» e della «profezia». Lo spirito profetico si manifesta soprattutto nella forma della comprensione delle «cose occulte delle menti»: intuisce i rimorsi delle consorelle, scorge le colpe nascoste di chi parla con lei, prevede i segreti di chi le chiede consiglio. Le visioni invece si presentano durante «rapimenti» che possono essere molto intensi e spesso sono accompagnati da tremiti anche violenti o improvvise rigidità. Le consorelle si spaventano (la testa ciondolava «come fosse di una morta»), anche perché le visioni lasciano Chiara prostrata e vieppiù indebolita, e giungono al punto di non «parlare di Dio» in sua presenza per non innescare altri episodi. Di cosa Chiara veda e senta «non si può sapere nulla con certezza, nemmeno quanto essa riferiva con grande difficoltà, raramente e in modo incompleto». Qualcosa tuttavia, ogni tanto, trapela, soprattutto quando parla mentre è estatica, come quella volta che:

«Levò le braccia al cielo e si alzò a sedere con ammirazione delle monache, appunto perché per molto tempo non si era potuta muovere. E disse: “Tutte le cose ardono, tutte le cose ardono, e voi che fate?”»

(2-continua)

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  1. Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, a cura di R. Sala, o.s.a., note di S. Nessi, Città Nuova 20093.
  2. Berengario ci mostra spesso Chiara assorta nella considerazione dei propri peccati e difetti, e della propria nullità nell’immensità divina: «Si vedeva come una catinella in mezzo al mare, immersa nell’acqua e da essa sostenuta».
  3. Si ricorderà, a questo proposito, la scena del Nome della rosa di Umberto Eco, nella quale i legati pontifici si accapigliano con i francescani, tra i quali c’è Ubertino: «“È colpa mia se Ludovico legge i miei scritti? Certo non può leggere i tuoi che sei un illetterato!” “Io un illetterato? Era letterato il vostro Francesco, che parlava con le oche?” “Hai bestemmiato!” “Sei tu che bestemmi, fraticello da barilotto!” “Io non ho mai fatto il barilotto, e tu lo sai!!!” “Sì che lo facevi coi tuoi fraticelli, quando ti infilavi nel letto di Chiara da Montefalco!” “Che Dio ti fulmini! Io ero inquisitore a quel tempo, e Chiara era già spirata in odore di santità!” “Chiara spirava odor di santità, ma tu aspiravi un altro odore quando cantavi il mattutino alle monache!”» (Quinto giorno, Prima).

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«Una mela e un pezzettino di pane» (la Vita di Chiara da Montefalco, pt. 1/3)

«A sei anni Chiara entrò con grande entusiasmo nel reclusorio della sorella Giovanna. Ne sentì tanta gioia che per una settimana, perso l’appetito, non mangiò che una mela e un pezzettino di pane.» Come dicevo, la Vita di Chiara da Montefalco di Berengario di Donadio1 è piena di notizie di prima mano su un esempio di bizzocaggio, un «reclusorio», appunto, o «carcere» tipico di quegli anni (1274) nell’Italia centrale. A Montefalco, tra l’altro, nel momento in cui Chiara manifesta l’intenzione di seguire le tracce della sorella, di reclusori ce n’erano quattro, e tutti si sarebbero trasformati (o uniti) in monasteri. È interessante anche osservare che in questo caso la famiglia non era affatto contraria alle aspirazioni religiose dei figli e delle figlie, anzi, il padre Damiano si era occupato personalmente della costruzione del reclusorio, mentre la madre Iacopa, alla morte del marito, si unirà alle figlie.

BerengarioDonadioOrientato alle stelle di penitenza e povertà («vivevano poverissime di offerte spontanee e non cercate»), il reclusorio non ha una dimensione istituzionale definita e non prevede l’emissione di voti, infatti Chiara «benché non avesse fatto professione di obbedienza, dato che il reclusorio non era ancora un monastero con una regola, tuttavia obbediva totalmente alla sorella Giovanna e osservava come fossero di Dio i suoi consigli e ordini». Quell’«ancora» che ho evidenziato è interessante, e forse è tipico più del punto di vista di chi scrive, Berengario, un vescovo vicario, di chi, per così dire, viene scritto, cioè le compagne di Giovanna. L’uomo di Chiesa sembra dire, implicitamente, che quella forma di vita non poteva che essere preludio a una forma più stabile, quando forse le donne penitenti non ne vedevano invece la necessità. Anche i «consigli e ordini» sono interessanti, perché ci dicono del ruolo di Giovanna, la «rettrice», che, pur senza lo status di badessa, incarna quella che non è, formalmente, una vera e propria regola. Nel reclusorio, ad esempio, si osserva il silenzio da compieta all’ora terza del giorno dopo, e questo avviene «per abitudine e comando della rettrice»; Giovanna distribuisce i compiti, e infatti Chiara «accoglieva con riverente umiltà il comando della rettrice riguardo ai servizi» (lei poi doveva far di più – «volendo obbedire più all’intenzione che alla voce» –, ma questo è un altro discorso); Giovanna assegna le penitenze (e ha un bel da fare a contenere gli eccessi della sorellina).

Passano gli anni, non pochi, a riprova forse che le penitenti non trovavano nulla di sbagliato nella loro forma di vita. Giovanna, infine, intorno al 1289 stabilisce che la comunità2 abbandoni il reclusorio e trovi un posto dove fondare un monastero (l’autore sottolinea con compiacimento che ciò avviene per ispirazione divina). Il luogo viene individuato, e con fatica rivendicato; e quella che è ancora una «casa» viene ordinata «a modo di monastero». Gli inizi sono difficili e la rettrice decide che le sorelle escano per elemosinare («si dovette affidare ad alcune l’incarico di mendicare il pane di porta in porta»), cosa che non avrebbe più potuto fare di lì a poco. Circa un anno dopo, infatti, «ordinato un poco il luogo che era stato costruito per essere monastero, Giovanna e le altre religiose chiesero al vescovo diocesano una delle regole approvate».

Il vescovo concede, nel giugno del 1290; la regola assegnata è quella «più moderata, cioè quella del beato Agostino»; fine del bizzocaggio, il Monastero di Santa Croce è eretto; Giovanna ne è la prima badessa, ma, «afflitta secondo la natura umana», muore quasi subito; nel 1291, a 22 anni, nonostante se ne ritenesse del tutto indegna, Chiara viene eletta badessa.

(1-segue)

 

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  1. Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, a cura di R. Sala, o.s.a., note di S. Nessi, Città Nuova 20093.
  2. «Già le Rinchiuse arrivavano al numero d’otto, ed erano le infrascritte Giovanna di Damiano, Chiara di Damiano, Andriola, Tomasa d’Angelo, Marina di Giacomo, Paola di Gualtario, Illuminata di Giovannello, Agnese di Tadione, tutte da Montefalco. Queste otto Vergini per la piccolezza del Reclusorio, parevano più tosto sepolte, che rinchiuse», dalla Vita della B. Chiara detta della Croce da Montefalco di Battista Piergili, 16632.

 

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Chiara e Francesco (non quelli, altri due)

Una delle letture che i due grossi volumi di Mario Sensi mi hanno spinto a fare è la Vita di Chiara da Montefalco di Berengario di Donadio (Berengario di Sant’Africano, Béranger Donadieu de Saint-Afrique), molto interessante per esemplificare alcuni tratti dei bizzocaggi dell’Italia centrale della fine del XIII secolo, e per la figura della santa. Ma di questo un’altra volta, poiché il testo dell’allora vicario del vescovo di Spoleto è ricco anche di piccole notazioni curiose e, si direbbe oggi, sottotrame. Una mi ha colpito in modo particolare.

BerengarioDonadio

Chiara muore intorno alle nove del mattino di sabato 17 agosto 1308. La sera prima ha mandato «a chiamare suo fratello Francesco, allora superiore dei frati Minori nella valle di Spoleto». Cosa fa il fratello? Accorre? No, fa chiedere «se potesse attendere fino al giorno dopo», al che Chiara risponde: «Se domani non verrà molto presto, non occorrerà più che venga per me». Uno scambio singolare, e non posso fare a meno di immaginare la notte di fratello e sorella, i loro pensieri – dovevo andare?; be’, poteva venire…

Al mattino presto Chiara viene visitata dal medico, che, uscendo, incontra Francesco, che invece sta arrivando. Alla domanda su come stia la sorella, il medico risponde: «Credo che sia del tutto guarita. A parte il timore per i rapimenti che ha frequentemente, non può esserci alcun pericolo imminente». Il frate, sorprendentemente, esita di nuovo: «Allora voglio tornare perché, da quanto mi pare [in questo inciso c’è un mondo], non occorre che entri»; sembra proprio che si appigli a qualsiasi parola pur di rimandare l’incontro con la sorella. Chiara però, infusa di spirito profetico, percepisce il dialogo che si sta svolgendo alla porta del monastero, chiama una conversa e le dice: «Va’ e di’ a Francesco che entri, altrimenti non mi vedrà più». Francesco non ha più scuse ed è costretto a entrare. Avrà uno scambio di battute un po’ surreale con la sorella e, insieme alla comunità, assisterà al santo trapasso.

Un indizio sul motivo della riluttanza di Francesco si può trovare, forse, nelle ultime parole che Chiara gli rivolge: «Ti raccomando in modo speciale questo monastero e tu comportati bene e sii buono». Per un istante si può indulgere all’immagine di un fratello schiacciato dalla presenza di una sorella già santa sin da bambina (senza dimenticare che un’altra sorella, Giovanna, è la rettrice del reclusorio nel quale si ritira la piccola Chiara) e da anni di raccomandazioni e ammonimenti. Di questi si trova una piccola traccia nei pochi «detti» della santa, riportati in appendice alla Vita e tratti dalle testimonianze rese al primo processo di canonizzazione. «Al fratello Francesco ancora fanciullo» Chiara dice di recitare l’Ave Maria e fare molte «genuflessioni e prostrazioni»; «quand’era studente ad Assisi» gli ricorda che lei sa benissimo quando, invece di studiare, si dà «ai giochi e ai divertimenti, a mangiare e a bere in modo disordinato»; infine al fratello «divenuto lettore di teologia» ricorda la castità, la preghiera, la pietà e che non è il caso di esaltarsi per i libri letti: «Anzi, ti dico che da parte mia avrei maggiore consolazione se tu fossi un laico e cuoco dei tuoi fratelli con buono spirito e con devoto fervore che se fossi uno dei maggiori teologi». Niente, non va mai bene niente.

Sicché, non siamo troppo severi con il Francesco adulto, fermo sulla porta del monastero, che ascolta le parole del medico, spera disperatamente che siano vere, si sente straziare dentro e alla fine non riesce a trattenersi: mi sembra di capire che posso venire più tardi

Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, a cura di R. Sala, o.s.a., note di S. Nessi, Città Nuova 20093.

 

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«Il candido coro degli angeli» (pt. 2)

Talmelli(la prima parte è qui)

Non mi sembra il caso di riportare qui alcuni dei nomi delle monache di Santa Giustina, è più giusto che sia un libro così affettuoso (corredato di tante foto e anche di un cd, perché le agostiniane ferraresi avevano una lunghissima tradizione musicale di alto livello), a portare ampia e precisa testimonianza della loro esistenza. Un libro che riesce anche a unire in un solo filo narrativo abissi e leggerezze, tormenti e ironia.

L’ex ballerina che «si presentò al monastero con i suoi abiti più eleganti: un boa di piume e un cappellino esso pure con piuma» (che saranno conservati in un apposito armadio e riutilizzati anni dopo, un po’ appassiti, per una festa); la badessa che diceva di sé: «Sicuramente ho fatto qualcosa di male anche se non me ne sono accorta» e che per una diagnosi errata fu sottoposta persino all’elettroshock e accusata di «essersi scandalosamente ammalata con la “malattia della vanità femminile”»; la suora quasi completamente sorda che in parlatorio le consorelle tiravano per la manica della tonaca per farle abbassare il tono di voce; la rotara che un giorno preparò un impacco di sterco bollito di mucca (la loro mucca, la «Grigia»), asfissiando tutte quante; la suora che scriveva: «La mia grande ambizione è questa: riuscire con il divino aiuto a far rivivere in me proprio solo Gesù, e piano piano tutto ciò che può essere frutto di natura se ne vada al diavolo»; la reclusa «che si ritirò definitivamente nella sua cella all’inizio degli anni Cinquanta»; la monaca che, «come peraltro buona parte delle consorelle, se la cavava male con il latino della liturgia» e una sera esplose in un potentissimo «Furfum corda»; la suora che non voleva portare gli occhiali e «quando si muoveva era molto decisa, aveva una notevole energia e, non vedendo bene, rischiava di travolgere chi fosse lungo il suo tragitto»; la monaca che «coi conti era rimasta al 1918» e un giorno chiese al muratore: quant’è? «Il brav’uomo non volle dire una cifra e, confidando nel buon cuore delle monache, proferì un generico: “Faccia lei”» e si vide depositare sulla ruota 120 lire; la suora che s’incolpava di tutto e «non poteva permettersi di avere “zone di non amore”»; l’anziana sorella che non vedeva il proprio volto da più di sessant’anni e quando casualmente si specchiò, pensò di avere un’allucinazione: «Ma quella brutta vecchia?! Sono io!!!» E così via.

«Viste in prospettiva», conclude l’autore, «quello che più colpisce è proprio il loro rapporto con “sorella morte corporale”, come avrebbe detto san Francesco. Trascorsero la loro esistenza preparandosi senza cedimenti all’incontro finale con quel Dio che avevano tanto pregato e amato per tutta la vita.» Io non so cosa pensare, in realtà non penso niente, o quasi. Come in tanti altri casi durante le letture di questi anni, resto lì, veramente, in silenzio. Non scuoto la testa, non irrido, ma nemmeno ammiro, né tantomeno provo vaghe forme di invidia o nostalgia. Osservo e ascolto, con una scintilla di comprensione e con il pensiero, che mi è difficile reprimere, che alla base della loro scelta ci fosse anche un disagio potente nei confronti di questo mondo, una difficoltà verso i suoi modi che si stemperò in una soluzione depurata da aggressività e rivendicazione.

(2-fine)

Raffaele Talmelli, Il candido coro degli angeli. Ricordo delle monache agostiniane del monastero di Santa Giustina in Ferrara, Cantagalli 2005.

 

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«Il candido coro degli angeli» (pt. 1)

TalmelliIn questa esplorazione libresca del monachesimo capita talvolta che m’imbatta nella citazione di un libro, lo ordini in un modo o nell’altro e poi, quando tempo dopo mi arriva, non abbia più memoria del perché mi avesse attirato. Parla di qualche monaco, certo, sarà per quello, mi dico. Mi è accaduto qualche giorno fa con Il candido coro degli angeli di Raffaele Talmelli, che reca come sottotitolo Ricordo delle monache agostiniane del monastero di Santa Giustina in Ferrara e ha in copertina una foto in bianco e nero raffigurante un plotoncino di monache, perlopiù anziane e perlopiù sorridenti, che mi ha colpito all’istante.

Be’, l’ho letto di volata, preso pagina dopo pagina neanche fosse un romanzo d’azione, ed è singolare che un miscredente quale sono sia stato in un certo senso conquistato dalle vite di queste suore illetterate, nascostissime e tribolate. Si sa che la polvere della storia ha spesso un buon sapore: è tutto lontano, concluso, in pace, anche quando le vicende narrate sono state tutt’altro che pacifiche. In realtà, lontano fino a un certo punto, giacché queste monache sono in una certa misura mie contemporanee: scorrendo infatti le loro date di morte, si va dal 1976 al 2003 (ho letto la prima edizione, del 2005, ma so che ne esiste una seconda, ampliata e corretta). La comunità agostiniana ferrarese, proveniente attraverso vicissitudini clamorose dal monastero di San Vito, si installa a Santa Giustina nel 1916 e vi rimane, salvo l’intervallo della seconda guerra mondiale, durante la quale il complesso viene bombardato, fino al 2001 «quando, per la mancanza di vocazioni, le ultime due monache si trasferiscono all’Eremo di Lecceto in provincia di Siena».

L’autore le ha frequentate a lungo, le ha assistite, come medico e come sacerdote – lo chiamavano al nôstar putìn (il nostro bambino) – e le ha raccontate con bravura e con minime reticenze, facendo emergere dalla pagina figure vive, intere e non ingessate nel codice pur aggiornato dell’agiografia: «Erano donne schiette e oneste, di cultura assai modesta (nessuna di loro era andata oltre le scuole elementari), parlavano perlopiù in dialetto, ma erano ricche di vita interiore e di quella sapientia cordis che solo Dio può dare».

Donne semplici ma non comuni, e non soltanto in senso religioso, come suggerisce discretamente l’autore stesso parlando di una di esse: «Probabilmente, come tutte le altre donne che fanno questo tipo di scelta, non era una donna ordinaria. C’è sempre qualcosa di particolare che le caratterizza (a volte colorando un po’ meglio le loro virtù e altre volte lasciando intendere che, se il Signore non le avesse chiamate ad un cammino di conversione così particolare, sarebbero potute essere anche persone molto difficili)». Spesso provenienti da famiglie numerose e povere, per le quali la «perdita» di una figlia destinata ad aiutare in casa poteva rappresentare un guaio; alcune ostacolate, altre no; tutte determinate; alcune più riottose alla disciplina monastica, altre pronte da subito – da prima – a qualsiasi sacrificio; alcune robuste e indistruttibili, molte travagliate da disturbi di ogni tipo, aggravati dalle difficoltà volute o subite della laica medicina applicata a monache di clausura.

È un’epica minima, che suscita sentimenti contrastanti. La tentazione di leggere tra le righe è sempre lì, lo dice a suo modo anche l’arcivescovo Bonicelli nella sua Presentazione: «Non si tratta di essere illusi, quasi che dentro le sacre mura di un convento non ci siano fragilità e debolezze», nondimeno non vi è motivo di mettere in dubbio la fede di queste donne, anche se non la si conosce, né si comprende il senso ultimo dell’imitazione di Cristo o della preghiera continua a nome e per conto di un’umanità scivolata o progredita altrove.

(1-continua)

Raffaele Talmelli, Il candido coro degli angeli. Ricordo delle monache agostiniane del monastero di Santa Giustina in Ferrara, Cantagalli 2005.

 

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