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Gli «Accorgimenti per curare le malattie dell’anima» di Claudio Acquaviva

Con un titolo del genere non potevo assolutamente sottrarmi: questi «accorgimenti» (industriae nell’originale latino del 1600) sembrano proprio ciò di cui c’è più che mai bisogno oggi1. Al di là di questo, è la caratteristica di «piccola opera maestra di psicologia religiosa», come la definisce l’introduttore Daniele Libanori, ad avermi attirato in modo particolare, per quel concetto che ho della letteratura monastica come culla della psicologia moderna. E all’obiezione che si tratta dell’opera di un gesuita, per l’esattezza del quinto Generale della Società (dal 1580 al 1615, anno della sua morte), si può rispondere, sempre con p. Libanori, che l’opera è «basata ampiamente sulla tradizione monastica (Basilio, Cassiano, Gregorio Magno, Bernardo…)». E che un certo spirito di attualità sia rintracciabile dietro la ripubblicazione del «rarissimo e prezioso» libretto, emerge anche dalle parole del prefatore, il Direttore spirituale del Pontificio seminario romano maggiore Giuseppe Forlai, che sottolinea come «uno sguardo teologico sulla vita delle comunità religiose sia quanto mai necessario oggigiorno, in un tempo in cui sembra purtroppo prevalere la lettura funzionalista o meramente psicologica delle relazioni comunitarie». È opportuno che il concetto, e soprattutto la pratica, della «cura spirituale» torni al centro della vita delle comunità di fratelli, che non possono reggersi «senza padri»2.

Gli «accorgimenti», suggeriti ai Superiori e presentati «nel modo più succinto e chiaro possibile, quasi in forma di precetti medici», sono suddivisi in sedici capitoli intestati a problemi via via più specifici e circostanziati, dalla «distrazione nella preghiera» all’«effusione dell’animo verso le realtà esterne», dalla «chiusura e mancanza di chiarezza» all’«antipatia verso i fratelli» alle «fissazioni di malattie». Tutto è affrontato con molta concretezza e con quell’assenza di vaghezza e di fronzoli propria di chi scrive al riparo di una lunga esperienza (all’epoca della stesura, l’Acquaviva aveva sulle spalle già vent’anni di generalato) e mosso dal puro desiderio di essere utile agli altri.

Due sono i principi che ispirano l’ampia rassegna di consigli. In primo luogo la necessità di non confondere la benevolenza e la misericordia con la rilassatezza e il permissivismo: a differenza di chi ha una malattia del corpo, che ha immediata consapevolezza del bisogno di cure, chi cova una malattia dell’anima non riconosce il suo male, perciò l’onere ricade sul Superiore, che deve riconoscere e intervenire senza «sgomentarsi se i rimedi da applicare sembrano all’infermo troppo amari». Bisogna inoltre che il padre spirituale ricordi che potrebbe lui stesso essere affetto dal male che si accinge a curare. Come dice Gregorio Magno: «Consideriamo che noi siamo come alcuni di quelli che correggiamo, o che lo siamo stati un tempo, anche se ora per l’azione della grazia divina non lo siamo più».

Muovendo da qui, il Superiore affini il discernimento, confidi nell’ispirazione divina, si appoggi alla costante osservazione dei comportamenti, si armi di pazienza, consideri sempre il fine, non dimentichi mai la mitezza, ricorra agli esperti e sappia distinguere ciò che oggetto di fede, nel qual caso intervenga con decisione, da ciò che riguarda le «questioni materiali»; qui il consiglio propone un argomento che trovo molto fine (forse perché mi tocca sul vivo…?): se appunto si tratta di «questioni materiali, il Superiore ammonisca il religioso che il suo comportamento è il frutto di orgoglio, volendo apparire più dotto e importante, e non essendo disposto a cedere, oppure di scarso giudizio, non avendo imparato che nelle cose pratiche non c’è un’evidenza così forte, che non si debba pure tener conto del giudizio degli altri».

Eh sì, l’orgoglio, quello che può benissimo celarsi anche dietro una sobria taciturnità: «Se non altro, il motivo stesso per cui si tace è malizioso e sospetto. O si è impediti dall’orgoglio, temendo di essere stimati meno se si manifesta un difetto, o si trascura di manifestarlo, pensando che basti la propria prudenza senza bisogno di alcuna guida; e questo è segno di presunzione e di superbia; oppure, avendo di mira un fine materiale, si teme che manifestando un difetto non sia possibile realizzarlo».

Sono molto numerosi i passi nei quali mi sono riconosciuto nella figura del malato, anche se non risiedo in una Casa gesuitica del 1617, o del 2017. Fa sempre bene vedersi descritti, aiuta a liberarsi dall’illusione dell’«unicità» – anche nei difetti, se non nei peccati – e a ricordarsi «com’è facile ingannarsi nel giudicare le proprie cose e se stesso!»

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  1. Claudio Acquaviva S.I., Accorgimenti per curare le malattie dell’anima, presentazione di G. Forlai IGS, introduzione di D. Libanori S.I., traduzione di G. Raffo S.I., Edizioni San Paolo 2016.
  2. Segnalerei anche la strepitosa fascetta editoriale firmata da papa Francesco, che recita: «Un’edizione molto buona, la traduzione è bellissima, ben fatta, e credo possa aiutare».

 

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