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Assetati e dissetati (un sermone di Guerrico d’Igny)

Guerrico IgnySi prenda un sermone abbaziale del XII secolo, uno dei tanti, su un argomento particolarmente ostico per un «non credente», la discesa dello Spirito Santo, di un un autore non di primissimo piano, Guerrico d’Igny, che pure è stato inserito tra «i quattro evangelisti di Cîteaux, al fianco dei sommi Bernardo di Chiaravalle, Guglielmo di Saint-Thierry e Aelredo di Rievaulx. Si prenda e si legga, come se fosse pronunciato oggi1.

Va detto anzitutto che mi è impossibile cogliere la fittissima rete di citazioni bibliche (evangeliche, paoline, ma anche dai Salmi, dai Profeti e dai libri sapienziali) se non con l’aiuto delle note. Scorro in ogni caso le non nuove (anche per me) affermazioni sull’infinita misericordia di Dio e sulla profusione della Sua grazia, anche sui peccatori: grazia come luce che splende su tutti, senza distinzione di condizione o merito. «Né Dio ha tralasciato di dare testimonianza di sé nella coscienza degli uomini», precisa Guerrico; guai, quindi, a coloro che sono «ribelli alla luce» (apparentemente impossibile, no?), perché per loro la luce diventa il calore che secca il fango, lo indurisce e lo crepa.

«Ma cosa ci importa», prosegue Guerrico, «di coloro che sono al di fuori», il sermone è per chi accetta e riconosce lo Spirito. Eccomi quindi «al di fuori», e tuttavia oggetto di speranza da parte di chi è dentro, il quale comunque è bene che non stia tranquillo («Come infatti è crudele perdere ogni speranza nei loro confronti, così è temerario essere troppo sicuri di noi»). A nessuno infatti è lecito giudicare prima del Giudice, e chi è dentro non deve dimenticare che anche lui una volta era fuori: «Siamo dunque, noi per loro, un esempio di speranza per la penitenza, essi per noi di timore per la perseveranza».

Il timore è una disposizione cruciale, perché «mette ordine» e affranca dalla frivolezza e dalla falsa gioia. Chi è dentro può accedere alla vera gioia, come l’assetato all’acqua, e questa è l’unica condizione: «Voglia venire solo chi sa di avere sete». I (falsamente) dissetati dalle cose terrene, i sazi di mondo saranno respinti.

Il punto è delicato. La sazietà, da qualsiasi cosa sia provocata, è male, perché spinge a disprezzare il «dono del cielo» (cioè la luce): «Quale peste infatti è tanto perniciosa, quale morbo tanto letale da far così avvicinare l’uomo dimentico della sua salvezza, ridente e senza preoccupazioni, fino alle porte della morte?» Mah… chi è che si avvicina alla fine ridente e senza preoccupazioni? Assai pochi. E perché colpevolizzare il ridente e senza preoccupazioni, se non nuoce al prossimo? E ancora: le sazietà sono tutte uguali?

È san Paolo che parla per bocca di Guerrico, il quale tuttavia pare ora rivolgersi più direttamente ai suoi confratelli: perché non perseverate, avete dimenticato la promessa di Dio? Prima cantavano inni al Signore, «ora invece partecipano alle lodi divine e continuano a dormire o indugiano con la mente in pensieri oziosi e anche dannosi; siedono davanti a un libro e sbadigliano, ascoltano la parola di esortazione e perfino nell’ascoltarla si affaticano; passano di pascolo in pascolo e provano fastidio sia di questi sia di quelli, di continuo si trovano fra gli alimenti che danno vita e muoiono di fame».

Non si facciano ingannare dai demoni, è un attimo farsi trascinare dalla libidine, dall’ira, anche dalla semplice impazienza, che inebriano e non dissetano. E per carità non parlino contro i fratelli, è «commensale» dei demoni chi lo fa e anche colui che, «anche se non sparla, ascolta volentieri chi lo fa [o] che con la scurrilità del suo parlare finisce per ridurre al nulla coloro che ne ridono a crepapelle» (qui etiamsi non detrahit, detrahentem libenter audit; qui scurilitate stultiloquii cachinnantes dissolvit).

Ma no, conclude l’abate Guerrico, con un piccolo colpo di scena finale, non sto parlando di voi, «non voglia il cielo che io, facendo queste considerazioni, accusi voi che invece, essendo innocenti, mi date una grandissima gioia», no, lo dico soltanto per mettervi in guardia.

E noi, che intanto siamo rimasti fuori, qualche barzellettina possiamo dirla?

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  1. Guerrico d’Igny, Sermone I per la Pentecoste, in: Bianca Betto, Guerrico d’Igny e i suoi sermoni, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1988, pp. 309-16.

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Monks, monks everywhere (Reperti «speciali» 61-62: Cantimori, Tolkien)

Uno degli «effetti collaterali» di tutte queste letture monastiche è che, in poche parole… vedo monaci dappertutto, anche quando e dove non sono formalmente presenti. Parole-spia, frasi, situazioni, immagini che mi fanno dire: uhm, ma qui si parla di monaci. Anche questi sono «reperti», in fondo, ma di un tipo speciale, legati a una mia deformazione e non alla realtà, e così vanno presi. Ecco un paio di esempi recenti.

61. Concludendo la sua introduzione alla Crisi della civiltà di Johan Huizinga, Delio Cantimori mette in guardia contro gli «umanesimi» d’accatto che vengono indossati nelle «ore di distrazione» da coloro che non sono impegnati nella vita politica o sociale. «Sogni» li definisce, di fronte alla necessità di prendere atto della portata dei problemi e di individuare concrete prospettive di cambiamento, perché «arrivati a un certo punto, non sarebbe più possibile, mai più, parlare di libertà – neppur dello spirito –, neppur mediante ascesi, semplicità, rinuncia, elementarità di vita»1.

Ma cosa rappresenta quest’ultima sequenza se non la forma di vita monastica, mi son detto. Che nonostante tutto, però, non credo sia giusto sospingere nella dimensione del «sogno». La vita monastica non è un sogno per chi la vive, mentre forse lo è proprio per chi, nelle sue «ore di distrazione», la legge, la visita, la osserva, la sfiora (per me, ad esempio).

62. Nel primo dei Racconti perduti, La casetta del gioco perduto, Tolkien racconta di Eriol, «un viaggiatore venuto da terre lontane», che, giunto all’Isola Solitaria, una sera bussa alla porta di una casa minuscola che ha attirato la sua attenzione. È appunto la Casetta del Gioco Perduto di Lindo e Vairë, ed è abitata da una folta schiera di persone. Eriol si stupisce che così in tanti possano abitarvi, ma il suo ospite gli risponde: «Piccola è la casa, ma più piccoli ancora sono coloro che vi abitano – perché tutti quelli che entrano devono essere molto piccoli, o di loro spontaneo desiderio devono diventarlo proprio mentre stanno sulla soglia»2.

Il pensiero è andato immediatatamente all’umiltà, alla scelta di «piccolezza», che deve accompagnare chi desidera entrare in monastero: una piccola casa per chi vuole essere piccolo. Senza dimenticare le parole di Benedetto circa l’ammissione di nuovi fratelli, che devono sostare all’ingresso, praticamente sulla soglia, anche a lungo prima di poter varcare la porta del chiostro e cominciare il loro percorso («Se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria», RB, 58).

Sia che l’umiltà sia già stata conquistata (o ricevuta per grazia), o che sia un desiderio irresistibile, non si può entrare in un monastero «a testa alta», perché la sua porta, come quella del Regno, è piccola, bassa. Come ricorda anche Guerrico d’Igny, che casualmente ho sottomano: «Se gli uomini di alta statura non si curvano, questa bassa porta non li lascerà passare, anzi certamente farà cadere a terra il capo a molti e coloro che si avvicinano a testa alta, respinti, cadranno all’indietro con il capo troncato»3.

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  1. Delio Cantimori, Nelle ombre del domani, introduzione a J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi 1962, p. XXXII.
  2. J.R.R. Tolkien, Il libro dei racconti perduti, prima parte, a cura di C. Tolkien, traduzione di C. Pieruccini, Bompiani 2022, p. 25.
  3. Guerrico d’Igny, Sermone I per il Natale, in: Bianca Betto, Guerrico d’Igny e i suoi sermoni, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1988, p. 201.

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Nel campo del corpo umano (Dice il monaco, XC)

Dice Guerrico d’Igny, monaco e abate cisterciense, intorno al 1140:

Vorrei che tu scavassi dentro di te; infatti i tesori preziosi si trovano di solito nascosti nelle viscere della terra. In un campo era nascosto quel tesoro che spinse un uomo a vendere tutto il suo per il desiderio di averlo; in un campo i dieci uomini israeliti dicevano di aver nascosto i loro tesori e per questo scamparono alla morte. Quanti tesori di opere buone, quante ricchezze in frutti di pietà giacciono nascosti nel campo del corpo umano, e quanto di più nel segreto del cuore, purché vi sia chi lavori senza posa e scavi. Non ripropongo la famosa teoria platonica – per cui l’anima prima di essere unita al corpo aveva imparato le scienze che, oppresse dall’oblio e dal peso corporeo, devono essere ricuperate con disciplinato impegno –, ma ritengo che la ragione umana e le qualità naturali siano, con l’aiuto della grazia, il fondamento di tutte le virtù. Se dunque rientri nel tuo cuore ed eserciti il corpo, non dubitare che troverai tesori desiderabili e, se non d’oro subito dall’inizio, o d’incenso, certamente di mirra, che non è inutile.

♦ Guerrico d’Igny, Sermone I per l’Epifania, in: Bianca Betto, Guerrico d’Igny e i suoi sermoni, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1988, p. 215.

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