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Il mortologio (Reperti 56: d’Annunzio)

56. Dal 6 al 9 novembre 1898 Gabriele d’Annunzio è a Ferrara, dicono in compagnia della Duse, e si dedica a una serie di visite molto accurate, «taccuino alla mano», dei principali tesori artistici della città. Sono quattro giorni in cui il poeta si trasforma in una spugna dalla capacità assorbente pressoché illimitata, come dimostrano i relativi Taccuini, il XIX, il XX e il XXI, che riportano una serie di appunti che verranno fusi, rifusi e sviluppati, fino all’ultima parola, in scritti successivi di varia natura1. Tra i luoghi frequentati, addirittura per due giorni consecutivi, non sorprende la presenza del monastero delle clarisse del Corpus Domini, dove d’Annunzio visita le sepolture estensi, con particolare riguardo per quella di Lucrezia Borgia, ma rimane poi colpito dall’atmosfera che vi regna. Le pagine che ne sono testimonianza (piccole, circa 7 cm x 11, e scritte a matita) sono molto belle e mostrano già i segni della trasformazione delle cose in letteratura – una trasformazione ancora incompleta e quindi molto interessante. La morte è il tema, e il disfacimento prodotto dal tempo, l’abbandono, il passato remoto ne sono le variazioni.

Ad accoglierlo la prima volta ci sono quattro monache, curve e anzianissime:

La porta grigia si apre con stridore, entro. Mi attendono quattro clarisse con il volto coperto dal panno bruno. Odo le loro voci senili, sento la mancanza dei denti nelle loro bocche disfatte. Sembrano incappati che sieno per trasportare una bara.

La seconda volta a fargli da guida è un «custode», che «precede sonando il campanello, per avvertire le monache affinché si ritraggano o si velino», ma le quattro clarisse del giorno prima ci sono ancora – «ci seguono balbettando puerilmente» – e conducono il poeta al forno di santa Caterina Vegri. Già, perché prima di fondare e guidare il monastero del Corpus Domini di Bologna (dove il suo corpo incorrotto è visibile ancora oggi), Caterina Vegri è monaca a Ferrara, dal 1431, anno della sua vestizione, e in cui si insediano le clarisse, al 1456. Davanti ai mattoni anneriti, le monache raccontano che la santa

un giorno attendeva colà a cuocere il pane, quando fu chiamata alla preghiera. Ella lasciò il pane nel forno, raccomandandolo al Signore, e si partì per l’ufficio, ove restò circa quattro ore. Quando tornò al forno, essa e le compagne credevano di trovare il pane incenerito. Lo trovarono invece del color delle rose e odorifero e di sapore paradisiaco. Il Miracolo!2

Il drappello si avvia verso il refettorio e

la badessa afferma che si sente nel Monastero di tratto in tratto l’odore della Santa. Si sente specialmente quando qualcuna deve morire: è l’avvertimento della morte, è l’annunzio funebre. Allora in qualche luogo del Convento aleggia l’odore di Santa Caterina, e la Morte elegge la sua beata.

Il refettorio è molto più ampio di quanto servirebbe alla piccola comunità rimasta, che si raccoglie intorno a un solo tavolo sul fondo della sala. Uomo di parole, d’Annunzio è ovviamente attirato da un particolare:

Durante i pasti una di loro fa la lettura. V’è un leggio, e sul leggio un libro ove è tenuta nota delle suore che muoiono: il loro nome, la loro età, il giorno della loro morte. È il Mortologio. Lo leggono durante i pasti. È una commemorazione delle clarisse defunte.

Si può quasi sentire l’eco di quella debole voce in quello stanzone semivuoto. E forse non solo, come dimostra la trasformazione letteraria completa, in cui il Vate riscrive da par suo la scena, e vi aggiunge un particolare a effetto, ma nondimeno commovente:

La mano esangue e sgualcita della ottuagenaria apre il Mortologio, sopra un leggìo sperduto nel refettorio vastissimo dove le quattro superstiti occupano nelle ore dei pasti una menserella al fondo; e là tre nutricano la morte, e una legge il libro ove il trapasso d’ogni suora si registra; e le defunte clarisse così rimemorate vengono a risedersi su le panche e a rimasticare nella cenere il pane non incenerito3.

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  1. Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella, Mondadori 1965, pp. 251-282; gli episodi qui annotati confluiranno ad esempio in alcune parti del romanzo Il secondo amante di Lucrezia Buti e di lì nella raccolta delle Faville del maglio (cfr. Le clarisse al limitare della morte e La tabella del lebbroso). Le citazioni sono prese da entrambe le fonti.
  2. È interessante vedere come il brano si trasforma nella pagina pubblicata: «Caterina Vegri attendeva a cuocere il pane della comunità, quando fu chiamata dalla campanella. Abbandonò il pane alla fiamma e l’accomandò al Signore, partendosi per l’ufizio. Divotamente al suo ufizio attese quattr’ore. Credette ella, tornando al forno, trovare il pane incenerito; e il medesimo credettero le compagne. Ma nella bocca ancor tiepida, e non più fosca ma rosea, lo videro d’un color dorato più dolce che l’oro delle aureole; e inebriate furono dall’odore, imparadisate furono dal sapore. O miracolo del celestiale frumento!» (da Le clarisse al limitare della morte).
  3. Sempre da Le clarisse al limitare della morte.

 

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«Una sua scatoleta con sue medicine» (Monache e medicina, pt. 2; Caterina Vegri)

(la prima parte è qui)

«Oltre alla preparazione e vendita di medicamenti, pratiche terapeutiche ben più portentose avvenivano nei monasteri femminili, che sono per tutto il corso del Seicento fervidi centri di “medicina sacra”.» Il secondo fronte infatti è quello delle guarigioni miracolose, della cura mediante le reliquie, un ambito che, se può suscitare più di un sorriso nel lettore contemporaneo, è anche molto interessante se si guarda al rapporto che aveva con la nascente medicina moderna.

Dal momento che l’osservatorio del saggio dal quale ho appreso queste cose è quello bolognese, una figura spicca su tutte le altre, quella di Caterina Vegri (o Vigri), che già ho incontrato per altre strade. Conosciuta per le sue doti intellettuali, «la Santa» era una taumaturga, qualità emersa in seguito al consolidarsi del culto del suo corpo e al processo di canonizzazione e alle relative testimonianze. Da viva era nota più che altro per la sua sollecitudine verso le malate, «et havea una sua scatoleta con sue medicine e tute recorevano a lei, e mai quella benedecta li rincresceva, né temeva puça né inmunditia alcuna». Sollecitudine che si spingeva a gesti estremi che esitavano in guarigioni: «Famulava le sorelle in sanctitate et ne la egrotatione, cum carità tale che fin li lechava le puzulentepiaghe per accidente a lor venute; et ad una più volte lechò la tigna per sanarla» (Sabadino degli Arienti).

La svolta avviene con la sua morte (1463) e con il fenomeno eccezionale della incorruzione del suo cadavere (ancora oggi esposto nel suo monastero bolognese del Corpus Domini) e del «liquore» che ne essudava. Il potere terapeutico del corpo incorrotto della santa diventa in breve un fatto che esula dalle mura del convento, coinvolge tutta la città e sollecita pellegrinaggi e visite importanti.

L’aspetto più interessante è il coinvolgimento dei medici durante il processo di canonizzazione, più volte interrotto e ripreso, chiamati in causa per approfondire e stabilire l’incorruzione, che diventa il cardine della causa. I miracoli operati dalla santa – in sogno e più spesso attraverso l’applicazione di oggetti venuti a contatto con il suo cadavere – saranno da riternersi autentici soltanto se il miracolo dell’incorruzione è effettivamente tale.

Arriviamo così al 1671, oltre duecento anni dopo la morte di Caterina, quando due gruppi distinti sono incaricati di una nuova ispezione. Il primo è composto da medici, ovviamente maschi (tra i quali c’è Marcello Malpighi, quello dei glomeruli, membro della Royal Society di Londra), che pertanto possono vedere il corpo vestito e toccarne solo alcune parti; il secondo è formato da gentildonne bolognesi, che lo vedono nudo e ne possono toccare anche le cosce e il seno, due zone decisive per stabilire l’incorruzione, cioè la perdurante mollities  delle parti carnose. La relazione dei medici non è concorde e molto cauta (la «medicina sacra» conviveva con quella sperimentale, sia perché raramente in concorrenza, sia in virtù dello straordinario che ancora eccedeva i limiti naturali): in prevalenza dicono che il corpo non è incorrotto, bensì essiccato, avanzando anche la possibilità di un’imbalsamazione. Le gentildonne invece non hanno dubbi: escludono l’imbalsamazione (non ci sono segni) e confermano la mollities. Per i sostenitori della causa è proprio quello che ci voleva.

Va considerato che l’incorruttibilità era soprattutto una questione di grado e che il miracolo consisteva nel fatto che «dopo un così lungo lasso di tempo il corpo della Beata non si fosse dissolto in elementi». L’assoluta incorruttibilità poteva essere attributo solo del corpo risorto, ma in ogni caso «il corpo perfettamente integro [di Caterina] rappresentava ad occhi secenteschi, con meravigliosa approssimazione, la condizione del corpo risorto, e quindi la promessa e speranza della resurrezione».

«Il “prodigioso cadavere” era un oggetto straordinario, di complessa e doppia valenza: da una parte cadavere, emblema della mortalità umana, ma anche, dall’altra, il veicolo di un potente messaggio di immortalità», e anche il medico e scienziato Malpighi, dopo pagine e pagine di precisazioni, non estingueva l’ombra di un dubbio: «Tutto questo aggregato conservandosi pare che dia qualche segno di cause superiori alla natura ordinaria».

(2-fine)

(Gianna Pomata, Medicina delle monache. Pratiche terapeutiche nei monasteri femminili di Bologna in età moderna, in I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata e G. Zarri, Edizioni di Storia e Letteratura 2005, pp. 331-363.)

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L’inferno sono io (Caterina Vegri)

Dopo averle «assaggiate» nell’eccellente antologia delle Scrittrici mistiche italiane, sono andato a leggere per intero Le sette armi spirituali di Caterina Vegri, «tra le opere più significative ed orginali della letteratura della pietà della prima metà del Quattrocento», come scrive la curatrice Cecilia Foletti, responsabile di un apparato molto dotto ed esauriente. Mi aveva colpito la figura di Caterina Vegri, cioè santa Caterina da Bologna, e più ancora, non essendo studioso del periodo (di alcun periodo, in realtà), mi aveva colpito la sua lingua spigolosa e corrusca.

L’opera, che viene datata al 1438, venne scoperta soltanto nel 1463, alla morte dell’autrice, che l’aveva tenuta nascosta nella sua cella del monastero clarissiano del Corpus Domini di Bologna, e incontrò subito una notevole fortuna, come testimoniato dai molti manoscritti e dalle precoci edizioni a stampa (il primo incunabolo è del 1475).

Il tema del combattimento spirituale è al centro del testo, cosa che ne fa, si può dire, uno dei precedenti diretti del famoso trattato di Lorenzo Scupoli, di un secolo e mezzo più tardo, ma divide lo spazio con l’analisi capillare delle tentazioni che può subire chi desidera avvicinarsi alla vita religiosa (a questo proposito va ricordato che il «trattatello» è concepito pur sempre come un aiuto per le novizie) e soprattutto con il formidabile resoconto delle esperienze mistiche di Caterina, le sue visioni e i dubbi e gli insegnamenti che ne traeva.

L’ultima visione che la santa racconta è quella del giudizio universale e le fornisce lo spunto per una delle confessioni più feroci che mi sia mai capitato di leggere. «Ma orra, tornando al core mio», scrive Caterina, passando dalle considerazioni generali al proprio esame, «e considerando che in talle dì de l’ultimo iuditio serà a tuti manifesto le humane colpe, non voglio al prexente ocultare le mie, anci manifestarle, sapiando che le colpe confessate è in parte purgate e meglio perdonate.» L’accusa di se stessi, l’autodenuncia dei propri difetti e peccati, della propria nullità, è un classico che mi ha sempre attirato, con motivazioni ambivalenti, ma qui i toni mi paiono raggiungere livelli di tale violenza da non poter essere registrati come semplice osservanza dei dettami di un genere.

Qui Caterina non dice di essere una peccatrice impenitente, qui dice proprio di essere la peggiore di tutte, di tutte quelle mai esistite e che mai esisteranno. La sua colpa maggiore, la sua «falsitade» è stata quella di non aver desiderato che tutti la conoscessero per quello che realmente è: «cioè superba, arogante, presuntuosa, maldicente, sensuale, goloxa e commo immondo animalle privata de ogno lume de raxone e principale caxone e acatatrice de ogno ruina e scandalo e manchamento de bene che per l’universo mondo sia stato e sia nel presente e deba esser per l’avenire» (X, 9). Caterina confessa peraltro di non aver avuto che una conoscenza parziale della sua «vilissima nichilitade», per la quale dovrebbe essere «tenuta e nominata la mazore pecatrice», che se l’avesse avuta non avrebbe osato alzare gli occhi al cielo. Nonostante sia stata chiamata al servizio di Cristo, non è stata capace di imitarlo, cioè di cercare la croce, «amando chi me avesse odiata, e honorrare suavemente qualuncha persona m’avesse desprexiata… e cordialmente dire bene de chi male avese dicto de mi, sapiando che iustamente meritava che più tosto me foxe sputato nella faza, che mostrato benivolentia» (X, 13).

Caterina arriva a dire che l’inferno stesso, che forse ha appena visto, non è un luogo abbastanza infimo per accogliere la sua «pestifera carogna». Ce ne vorrebbe un altro peggiore, e con una mossa singolarissima Caterina lo individua, questo luogo ancora più orrendo, in se stessa: «E pertanto, non trovando in mi alcuna iustitia seguita che forra de mi nonn è locho sì abominabile né oribile che a mi se convegna, se no mi medesma. E perzò romanerò purre in mi commo in più calizenoxo e ffetente locho che trovare se possa».

Condannata a restare in se stessa, cosa che a Caterina accadrà per altri venticinque anni rispetto a quando scrisse queste parole. Leggendole oggi, mi pare che ci sia qualcosa di profetico in senso più generale, qualcosa che mi tocca al di là dei secoli e delle sempre necessarie contestualizzazioni. È sempre una sconfitta, per lo meno lessicale, quando si supplisce alla mancanza di chiarezza con la parola «qualcosa», ma non so come altro dire. Dunque il vero inferno, più che gli altri, siamo noi, anzi sono io.

Caterina Vegri, Le sette armi spirituali, a cura di C. Foletti, Editrice Antenore 1985.

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Caterina Vegri (Who’s Who, IX)

«Caterina poverella bolognesa, cioè in Bologna acquistata nata e allivata e in Ferrara da Cristo sposata e quel che segue ne le precedente due cartette scritte di mia mano.» La «poverella bolognesa» è Caterina Vegri (o Vigri, o de’ Vigri, 1416-1463, o.s.c.), nota e venerata come santa Caterina da Bologna, e le «due cartette» sono l’Epilogo dell’autografo delle Sette armi spirituali, opera tormentata e dettata soprattutto dall’esperienza di maestra delle novizie, ma «esplosa» strada facendo in racconto autobiografico.

Grande mistica clarissa, Caterina «fu donna colta, allevata alla corte di Niccolo III d’Este a Ferrara… istruita nelle arti della letteratura, della musica e della miniatura.» A tredici anni lascia la corte ed entra nella comunità laica del Corpus Domini di Ferrara. Professa i voti nel 1432, quando la comunità viene trasformata in convento di clarisse. Dal 1456 è a Bologna, badessa del monastero del Corpus Domini, dove muore («santa viva»)  e dove tutt’oggi (per alcuni la «santa nera») veglia sulla sua comunità: il suo corpo incorrotto è infatti esposto, in posizione seduta in una teca, nella cappella a lei dedicata.

La sua vicenda, che intreccia temi femminili, francescani e politici, è molto interessante ed ampiamente trattata. Oltre agli autografi, si sono conservate la sua giga (una specie di viola) e alcune sue opere pittoriche, miniature, tele e forse affreschi, oggetto di vari studi di attribuzione. L’opera indiscussa è il suo Breviario personale, che «appare come un “sito interattivo”, dove gli elementi del testo e le immagini stesse operano insieme per stimolare la preghiera. Caterina deve perciò essere considerata una vera artista clarissa, che attinge alle fonti letterarie della spiritualità del suo ordine, inventando nel contempo un nuovo linguaggio formale, volto a rappresentare i voti di umiltà e povertà, creando in tal modo un'”arte povera” per le clarisse» (Kathleen G. Arthur).

Ma è stata la sua lingua che mi ha colpito molto, un bolognese incisivo e potentemente jacoponico, come direbbero gli studiosi, cioè influenzato da Jacopone da Todi, autore amatissimo dalla santa. A cominciare dall’incipit e dal modo indimenticabile con il quale Caterina si definisce: «Con reverenzia prego per lo dolce e suave amore Cristo Iesù qualunca persona alla quale vegnerà notizia de questa picoleta opera facta con lo divino aiuto per mi, minema cagnola latrante soto la mensa delle excelente e dilicatissime serve e spose de lo immaculato agnello Cristo Iesù, sore del monasterio del Corpo de Cristo in Ferrara, guardise dal difecto de la infidelità, e anche non reputi a vizio de presonzione né piglie alcuno errore de questo presente liberzolo, lo quale io sopradicta cagnola de mia propria mano scrivo solo per timore de la divina reprensione, se io tacesse quello che ad altri porria zoare».

(Ho letto un assaggio delle Sette armi nelle Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi, Marietti 1820 2004; mentre notizie sul breviario le ho trovate in Kathleen G. Arthur, Il breviario di santa Caterina da Bologna e l’«arte povera» clarissa, in I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata e G. Zarri, Edizioni di storia e letteratura 2005. Qui alcune immagini della santa.)

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