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Non te la prendere

Una delle qualità della Regola di san Benedetto che mi ha sempre colpito è che non intimorisce chiunque le si avvicini, da qualsiasi prospettiva lo faccia e qualunque sia la preparazione teologica, storica, linguistica, ecc., di chi la legge. La sua perfetta, e al tempo stesso «semplice», dimensione atemporale rende inoltre molto interessante la questione della traduzione. Certo, la si può leggere abbastanza facilmente nell’originale latino, ma mi sono chiesto spesso come san Benedetto scriverebbe certe cose oggi (con ogni probabilità in italiano).

Sicché prendiamo, ad esempio, la radice trist*, che nella Regola compare dieci volte. Due nella forma di tristitia, che non presenta particolari problemi: la «tristezza» del fratello scomunicato (XXVII, 3), che può essere eccessiva e che non deve sommergerlo (Benedetto cita qui san Paolo), e la tristezza (il «malumore») di chi è gravato da un servizio di cucina che supera le sue forze (XXXV, 3) e che va anch’essa prevenuta.

Le altre otto volte compare nella forma del verbo contristare, tre delle quali in accezione transitiva: in due casi il cellerario (XXXI, 6, 7) non deve rattristare o irritare i confratelli con il suo comportamento (le sue scelte); nel terzo caso sono i malati (XXXVI, 4) che non devono affliggere chi si prende cura di loro con eccessive pretese.

La forma più frequente è dunque il verbo riflessivo contristari, con cinque occorrenze, una delle quali è riferita nientemeno che a Dio (Prol., 5), cui non dobbiamo dare motivo  di adirarsi con le nostre cattive azioni. In genere (il che significa: nelle traduzioni che ho potuto vedere) contristari viene reso con un ragionevole rattristarsi, oppure con dolersene, trarne motivo di malcontento, stare di malanimo e anche lamentarsi. Ma c’è una traduzione che secondo me restituisce alla perfezione sia il senso che il tono e penso che sarebbe la forma che oggi Benedetto userebbe. È la soluzione colloquiale, diretta, «parlata» adottata da Giovanni Bellardi nella sua traduzione pubblicata da Jaca Book nel 1975 (che mi è già capitato di citare), e cioè: prendersela.

«Chi ha minori esigenze [e quindi riceve di meno] ringrazi Dio e non se la prenda» (XXXIV, 3); «Se poi le particolari esigenze del luogo o della povertà costringeranno i fratelli a raccogliere personalmente i frutti della terra [cioè a lavorare con fatica], non se la prendano, perché allora sono davvero monaci se vivono del lavoro delle proprie mani» (XLVIII, 7). E anche là dove Bellardi opta per malcontento e dolersene, la soluzione colloquiale si prestava ugualmente bene: «La distribuzione e la richiesta di quanto è necessario siano fatte nelle ore prescritte, perché nella casa di Dio nessuno si turbi o se la prenda» (XXXI, 19); «Senza che per questo [che l’abate abbia destinato a un altro il dono ricevuto] il fratello, cui la cosa era stata inviata, se la prenda» (LIV, 4).

A me pare che questa sia una traduzione veramente «benedettina»: sia perché nel concetto di prendersela è implicita una sfumatura di auto-riferimento (di egoismo), che si scontra con l’umiltà; sia perché in esso sono presenti il risentimento e l’invidia (una punta), che credo fossero due veleni che san Benedetto volesse tenere assolutamente lontani dal monastero; e sia anche perché mi sembra di sentirlo, l’abate Benedetto, che a un confratello seccato perché il paio di calze di lana che ha ricevuto dai famigliari è stato poi dato a un altro, risponde pacato: «Non te la prendere, lo sai che ne aveva più bisogno di te».

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Fluttuanti

In uno dei passi più belli della sua Regola san Benedetto prescrive che l’abate si preoccupi dei fratelli che sono incorsi in mancanze gravi e che, pertanto, sono stati scomunicati, cioè separati dal resto della comunità, e che lo faccia mandando loro, quasi di nascosto, dei fratelli anziani per confortarli e indurli al pentimento che li riporterebbe in seno alla comunità (XXVII, 2-3). Lo scomunicato che non deve essere abbandonato a se stesso è il fratrem fluctuantem, espressione che la maggior parte delle traduzioni e dei commenti correnti della Regola rende con fratello agitato, o vacillante, rimandando alla condizione di costui, che sarà combattuto tra l’irritazione, provocata dalla punizione, e la tristezza, dovuta allo stretto isolamento1.

Nel suo ultimo libro, molto bello, pubblicato all’inizio dell’anno scorso, Mauro Giuseppe Lepori ha scelto, sin dal titolo, di rendere quell’espressione con fratello fluttuante, o anche galleggiante2. Secondo l’abate generale dell’Ordine cistercense Benedetto deriva l’espressione da san Paolo, dai parvuli fluctuantes, i «bambini sballottati dalle onde» della Lettera agli Efesini (4, 14), e ci offre una lettura dell’immagine legata strettamente all’attualità. Con una mossa che ho visto – e ammirato? – tante volte, il monaco del XXI secolo compie un salto di oltre millecinquecento anni, con l’«asta» della Regola, e affratella l’uomo contemporaneo, «instabile, vacillante, come un naufrago su una tavola», costantemente distratto e in superficie, surfante «sulle onde fugaci e virtuali della realtà», a quel monaco scomunicato e solo.

E non soltanto gli uomini e le donne di oggi, perché «anche nei monasteri mi capita di incontrare molti fratres e sorores fluctuantes, che hanno difficoltà a fermarsi, ad esempio per dedicarsi alla preghiera, alla lectio divina, alla meditazione». L’uomo contemporaneo, nella visione dell’abate, è sballottato dalle onde della superficialità, afflitto – per restare nell’ambito dell’immagine – da un mal di mare dilagante. Il passo successivo del ragionamento è prevedibile, e l’abate lo compie: «È come se le tragiche immagini delle migliaia di migranti che naufragano nel Mediterraneo fossero uno specchio che l’umanità più misera pone davanti alla cultura occidentale perché vi veda riflessa la propria condizione umana e spirituale».

Di fronte a ciò l’abate Lepori addita ai monaci e alle monache suoi compagni di viaggio, e forse un po’ a tutti, il vero carisma che si esprime nella Regola, e cioè l’osservazione e l’ascolto di Gesù, dei suoi gesti e delle sue parole, e l’appello a provarsi di seguirlo, avendo sempre davanti a sé il valore della relazione e dunque della comunità. Anche perché Gesù è colui che cammina sulle onde del mare in tempesta, e lo straordinario non è che non affondi, «lo farebbe anche un buon nuotatore», bensì il fatto che la superficie instabile diventi per lui un cammino, una direzione precisa: «Per Gesù la direzione vince sulla fluttuazione dello spazio».

Il libro dell’abate Lepori, che leggo sempre con grande interesse, non si riduce a questo, e una volta mi piacerebbe riflettere sulla questione delle dimensioni della comunità cui si riferisce anche qui l’autore, comunità che per il pensiero monastico è allo stesso tempo il piccolo coro di sei voci oranti e l’intero ecumene, ma giunto a questo punto sono un po’ sopraffatto dalle molte risonanze di questa meditazione, dalle mie molte mancanze a questo appello e dal rammarico per le difficoltà che il pensiero laico (e materialista) incontra nel rivendicare le medesime aspirazioni.

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  1. Al vertice della punizione sta, significativamente, l’obbligo di mangiare da solo, e di assumere cibo non benedetto, e il divieto fatto agli altri addirittura di salutarlo – praticamente un fantasma.
  2. Mauro Giuseppe Lepori, Pecore pesanti e fratelli fluttuanti. La via di san Benedetto alla cura dell’altro, San Paolo 2018.

 

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Missio impossibilis

Senza avventurarsi troppo per similitudini, si può pensare alla Regola di Benedetto anche come a un giardino, poiché spesso cambia quello su cui ci si sofferma a guardare a seconda del momento nel quale lo si visita, e naturalmente a seconda che si sia accompagnati nella visita o no. In questi giorni la mia guida è Enzo Bianchi, del quale è stata da poco pubblicata un’ampia scelta delle «ammonizioni» che ha offerto alla comunità di Bose, durante la liturgia della domenica sera, nei suoi lunghi anni di priorato1. Non si tratta di un vero commento, ma «nelle pagine seguenti», avvisa il priore, «è comunque racchiusa la mia lettura della Regola del padre dei monaci d’occidente, al quale la nostra Regola di Bose fa riferimento continuo e del quale anche noi a Bose ci sentiamo figli spirituali». Forse, da un certo punto di vista – quello del «teorizzare pratico» tipicamente monastico, oggi per me davvero prezioso –, il testo, con la sua forte impronta orale, è persino meglio di un commento, per la quantità di esperienza comunitaria che vi è condensata.

Il tono «ammonitorio», pacatamente assertivo, risulta ancor più stimolante, anche per chi ora ascolta da esterno, là dove nella maniera più semplice possibile viene da fermarsi e dire: «Aspetta un momento». Come nel caso della meditazione sul capitolo LV della Regola, quello dedicato all’abito e alle calzature dei monaci. Qui Enzo Bianchi, ricordando il famoso passo degli Atti («Veniva dato a ciascuno secondo i suoi bisogni»), sottolinea le difficoltà che l’abate incontra nel «dire dei sì e dei no ai fratelli»2, tenendosi distante sia dall’egualitarismo, sia dal favoritismo. «All’interno della comunità benedettina», afferma infatti il priore, «se c’è una differenza è quella tra i forti e i deboli: ai forti si può chiedere con rigore, mentre verso i deboli bisogna avere delle disposizioni di misericordia, di accoglienza.»3

Per quanto sia chiara l’intenzione del priore, è un po’ delicato usare un termine di nobile ascendenza come «egualitarismo» per indicare un pericolo cui fare attenzione: come non convocare su questo snodo, almeno idealmente e a mo’ d’esempio, il primo capoverso dell’Articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Tutti i cittadini […] sono eguali davanti alla legge»? È vero, al di là della Legge-Regola è l’abate che deve osservare, commisurare, valutare, discernere, invocando sempre l’aiuto del Signore, e Benedetto lo ribadisce in continuazione: ma come gli si può chiedere di distinguere i forti dai deboli? Non è un compito impossibile, oltre che pericolosissmo? Forse la risposta è che «all’atto pratico», «sul campo», no, prima ancora che impossibile è necessario, e quindi, come si può, lo si fa, ma mentre è facile ergersi contro il favoritismo, trovo difficile salvaguardare la sfumatura4 presente nel discorso di Enzo Bianchi sull’egualitarismo, soprattutto volendo allargarne la portata.

Come trovare un punto di equidistanza tra il «sono fatto così», per certi versi inaccettabile, e il rigore che mastica qualsiasi differenza? Quale livello di «soggettività» è ammesso in una «scuola» nella quale la prima «materia» è l’umiltà? In una «officina» in cui, come dice lo stesso Bianchi, «se non ci fossimo stati noi, ci sarebbe stato qualcun altro che avrebbe fatto o le stesse cose o altre cose, ma per lo stesso bene della comunità»?

«Ita ergo et abbas consideret infirmitates indigentium», infirmitas, -atis: debolezza, cagionevolezza, mancanza di stabilità, indisposizione, impotenza, incapacità, anche dappocaggine e mancanza d’ingegno…; indigens, -entis: povero, bisognoso, che manca di qualcosa… Che l’abate consideri dunque la condizione di tutti noi.

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  1. Enzo Bianchi, Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2017.
  2. «Chiunque presiede o ha un compito prova varie tentazioni a seconda del suo carattere e deve molto vigilare perché, se è vero che non deve risolvere il suo ministero in egualitarismo, non deve però neanche finire per fare dei favori o comprare affetto verso di sé, o semplicemente accontentare quelli che gli sono più vicini o più simpatici», p. 170. Sembra un’ammonizione utilizzabile non soltanto entro le mura di un monastero…
  3. Le parole di Benedetto in questione sono molto belle: «In questo [nel distribuire le cose ai confratelli], però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che “Si dava a ciascuno secondo le sue necessità”. Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi. Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio» (LV, 20-22).
  4. Se poi non colgo che in questa sfumatura sta una grossa parte del cristianesimo, la colpa è solo mia.

 

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Dell’acqua, un prato, un bel posto

Tra le varie qualità soprannaturali che Gregorio Magno attribuisce a Benedetto da Norcia nella sua Vita e miracoli del venerabile abate Benedetto, contenuta nel secondo libro dei Dialoghi, c’è quella di capire al volo se una persona tenuta al digiuno lo abbia invece rotto; qualità che, volendo, si potrebbe anche attribuire a quella spiccata capacità di osservazione che il padre del monachesimo dimostra ampiamente nella sua Regola.

Gregorio la esemplifica raccontando due episodi molto spiritosi1. Nel primo un gruppetto di confratelli si trova fuori del monastero «per una commissione» (ad responsum) e, avendo fatto tardi, nonostante il divieto della Regola2 «andarono da una pia donna che essi sapevano abitare là vicino, ed entrati da lei cenarono». E che sarà mai, no? Il guaio, però, è che, rientrati piuttosto tardi al monastero, a Benedetto che chiede loro dove abbiano mangiato, decidono di mentire: noi? da nessuna parte! L’abate li sbugiarda all’istante e scende persino nei dettagli: «Non siete stati in casa di quella tale donna? Non avete preso cibo da lei? Non avete bevuto tanti bicchieri?» Mortificati e anche spaventati, i monaci si gettano ai piedi di Benedetto e confessano tutto. E vengono perdonati.

Il secondo episodio vede protagonista il fratello, «laico, ma di sentimenti religiosi», di Valentiniano, uno dei discepoli più vicini all’abate. Costui ogni anno va a trovare il fratello al monastero, digiunando durante il viaggio in segno di penitenza per i suoi peccati. In uno di questi brevi ma sentiti pellegrinaggi viene avvicinato da «un altro viandante» (alter viator) che gli dice: «Vieni, fratello, mangiamo: se no, veniamo meno per la stanchezza». Il fratello di Valentiniano rifiuta, ricordando all’occasionale compagno di viaggio il suo voto. Dopo un po’ quello ci riprova, e ancora il buon uomo rifiuta. Infine, «dopo che ebbero percorso molto altro cammino», si trovano in un bel prato, con tanto di sorgente, e il tentatore torna all’attacco. Questa volta il fratello di Valentiniano cede e «acconsentì a mangiare».

Alla sera ha appena messo piede nel monastero e subito Benedetto lo apostrofa: «Che hai fatto, fratello? Il malvagio nemico, che ti ha parlato per tramite del tuo compagno di viaggio [conviator], non è riuscito a persuaderti né la prima né la seconda volta, ma c’è riuscito alla terza e ti ha imposto la sua volontà?» Finale obbligato: gettarsi ai piedi, vergognarsi, pentirsi – perdono.

Dunque era stato il demonio che, infilatosi nei panni di un passante qualsiasi, aveva indotto al peccato il fratello di Valentiniano, ma va detto che il modo in cui l’ha fatto, le parole che ha usato sono quanto di più umano si possa immaginare. Quando infatti erano arrivati nel luogo della tentazione il viandate aveva detto: «Ecco dell’accqua, ecco un prato, ecco un bel posto. Qui ci possiamo ristorare e riposare un po’, per avere la forza di terminare il viaggio in buone condizioni». Del tutto ragionevole.

E soprattutto: «Ecce aqua, ecce pratum, ecce amoenus locus», dell’acqua, un prato, un bel posto.

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), introduzione e commento di S. Pricoco, testo critico e traduzione di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2005; vol. I, pp. 147-51.
  2. «Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione [pro quovis responso] e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona, a meno che l’abate non gliene abbia dato il permesso», Regola, LI.

 

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«Senza recite e senza reticenze» (Maria Ignazia Angelini, «Niente è senza voce», pt. 4/4)

NienteSenzaVoce(la prima parte è qui, la seconda qui e la terza qui)

Il quarto gradino indicato da Benedetto – la pazienza e la sopportazione a oltranza – rappresenta per m. Angelini («per quello che capisco») il vertice del capitolo: l’umiltà di scegliere la contraddizione, la sfida di trasformare la violenza stessa in relazione fraterna. Qui la badessa si lascia andare a un accenno di profezia: «Forse da una monaco e da una comunità monastica che si lascino plasmare dalla dinamica pasquale [di morte e resurrezione] descritta dal testo della Regola, può sorgere quella buona notizia di cui ha sete l’umanità odierna, assediata da infinite forme di violenza e di potenza».

Ancora, nel gradino successivo, l’umiltà monastica pare lanciare «una splendida sfida alla cultura dell’individualismo, della manipolazione, dell’immagine fantasiosa di sé reclamizzata per autoaffermarsi». L’apertura del cuore all’altro, infatti, tramite la confessio, fonda la relazione interpersonale che è l’unico luogo di una possibile maturazione della verità. Laddove, tuttavia, verrebbe da domandarsi quale sia la necessità della fede nel trascendente per accedere alla realtà dell’altro, già così presente di per sé.

Tutta la parte conclusiva del capitolo, che completa l’analisi dei gradi, sembra peraltro concentrarsi contro l’autoreferenzialità e l’autogestione dell’individuo moderno, autentico spauracchio di queste pagine molto dense, ma spesso anche di riflessioni assai più superficiali… C’è un tono tragico, quasi da scontro titanico, che caratterizza l’evocazione del confronto tra l’antropologia monastica (e cristiana) e quella che per semplicità possiamo definire post-moderna. «Potremmo dire che questo è il lavoro fondamentale del monaco, l’unità della persona, senza recite e reticenze, maturata dallo stare semplicemente al proprio posto, l’ultimo, nel senso che è accanto al Signore e Maestro unico» – una frase di notevole peso, che andrebbe sezionata parola per parola.

Il monastero è un luogo «radicalmente alternativo», avverte ancora m. Angelini, non è un’azienda di produzione nella quale ci si regola da sé; non è luogo di self made men, bensì casa di individui che si trasmettono un sapere e un’esperienza tramite una Regola vissuta generazione dopo generazione. Il monastero è un luogo dove «si diventa se stessi ricevendosi attraverso la relazione con altri», dove nessuno si inventa la sua figura o parte da sé («per questo», aggiunge l’autrice, «ha potuto varcare i secoli e i millenni senza mummificarsi e mummificare essere umani»). Io, che pure non sono insensibile a un concetto come «unità della persona», non riesco tuttavia a individuare con certezza il contenuto del cosiddetto «diventare se stessi», e non tanto perché subisco l’incertezza che risulterebbe dalla perdita di un centro, ma perché trovo ragionevole oggi interrogarsi sull’effettiva utilità di questo «diventare se stessi». Non è ormai evidente la possibilità che possano esistere diversi «se stessi»? Allo stesso modo, per quanto faccia della stabilità una pratica quotidiana, come posso non ammettere l’evidenza dell’instabilità, e la possibilità di una sua differente fertilità? E ancora, non riesco a scorgere l’abisso nell’«inventarsi la propria figura»…

Sono partito per la tangente. Intanto la badessa ha passato in rassegna gli ultimi gradi (generalizzando ancora, ingenerosamente, sul silenzio benedettino che ascolta contrapposto alla logorrea chiusa in se stessa dei moderni) per giungere all’immagine finale del «monaco arrivato al compimento del suo itinerario di fede e di amore»: individuo semplicissimo, espropriato di sé e in costante dialogo con il Signore. «È un uomo libero, ma di una libertà “diversa” da quella “usa e getta”.»

Un’altra frase assai problematica, come suggeriscono quelle virgolette.

(4-fine)

Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.

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«Se si mette da parte il proprio sé, non si muore» (Maria Ignazia Angelini, «Niente è senza voce», pt. 3/4)

NienteSenzaVoce(la prima parte è qui, la seconda qui)

Riprendo dopo alcuni mesi gli appunti sul volume della badessa di Viboldone, Maria Ignazia Angelini, per affrontare il quarto capitolo: «L’umiltà nella “Regola di Benedetto”». È quello che ho trovato più impegnativo, dedicato d’altra parte a ciò che rappresenta per l’autrice il cuore del testo benedettino. L’umiltà benedettina ha infatti una specificità sua propria, di carattere teologale, e non è soltanto una virtù o l’emblema di un cammino ascetico. L’umiltà del monaco si rispecchia nel movimento di «abbassamento» divino, che culmina con Gesù, e si configura come il modo e il luogo del contatto possibile tra l’uomo e Dio (e tra uomo e uomo). Il corpo di Gesù «era l’unico modo perché la Sua voce fosse udibile, la Sua luce sopportabile, la Sua potenza percepibile nella Sua assoluta trascendenza e bontà» e, se così si può dire, il monaco si mette al seguito di Gesù, ne segue il corpo con il proprio corpo.

Non posso dire di essere a mio agio, né con questo lessico, né tantomeno con questi concetti, ma seguo ugualmente il commento della badessa dei dodici gradi dell’umiltà, quali Benedetto li espone nel capitolo 7 della sua Regola, sia per ovvi motivi di istruzione, sia perché qui e là m. Angelini chiama a contrasto il cosiddetto pensiero della modernità. Anzi, si potrebbe quasi dire che questa meditazione sull’umiltà benedettina sia anche una sfida lanciata alla cultura dominante, quella dell’autoreferenzialità. E qui, come altre volte, mi rattristo nel vedere come sul fronte opposto venga messa in maniera un po’ indistinta la truppa dell’autorealizzazione, della volontà propria, dell’affermazione dell’immagine (vuota), ecc., come se non vi fosse altra alternativa possibile.

La scala (di Giacobbe) dell’umiltà non è una scala per arrampicarsi, bensì la via che può portare «la persona umana all’accettazione di sé, a combaciare con la propria nuda verità», e nemmeno è cammino di spaventoso (e masochistico) ascetismo, bensì via di profonda umanizzazione. Percorrere la scala, nella concretezza della quotidianità, è destarsi, prestare attenzione, e difficilmente si può essere in disaccordo con la badessa quando dice che «per la maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, non ci accorgiamo di cosa accade». Più difficile è per me comprendere qui la convocazione dell’«ateismo pratico», il cui esito sarebbe l’inutilità dell’uomo, abbandonato all’autoreferenzialità poiché privato del timore di Dio (primo gradino). «Vivere alla presenza di Dio è un atteggiamento, una ricerca di fede, che dischiude occhi nuovi sulle radici dell’impulso del “mi piace”, svelando l’insidia di un principio di autodeterminazione che è in realtà asservimento».

Secondo me quell’«in realtà» è molto problematico. Il pensiero sul quale qui m. Angelini riflette con grande intensità – «un pensiero robustamente radicato nei paradossi evangelici» – mi pare talvolta sospeso a un eccesso di paradosso: perché l’autodeterminazione è «in realtà» asservimento? Lo è sempre e nonostante tutto? Lo è per via del peccato originale? Perché non si può dare una determinazione che non sia né autoetero? Perché il «mi piace» deve essere l’unico «impulso» alla radice dell’autodeterminazione?

E non chiamerei l’autodeterminazione un «terreno sicuro», come fa poco oltre l’autrice, quando, commentando il secondo, il terzo e il quarto gradino («che sono un po’ il cuore del capitolo»), evoca esplicitamente «lo scontro frontale tra due sapienze»: quella di Gesù, di colui che non è venuto a fare la propria volontà, e quella della volontà propria. Tale volontà o è correttamente indirizzata o è piegata a servire l’io, è pretesa orgogliosa di autogiustificarsi che preclude alla persona il modo della relazione e conduce a una solitudine mortifera. «Se si mette da parte il proprio sé, non si muore – questa è la scoperta che dilata il cuore e la vita – e nel contempo si apprende qualcosa riguardo a Dio». Un altro aut-aut senza mezzi termini, non si sfugge all’orgoglio, al suo tocco mortale.

«Il senso di esistere come mandato, che segna radicalmente la vita di Gesù, si trasmette come sigillo nella vita cristiana, e dunque anche nel monaco.» Svestito del «così mi piace», il monaco e con lui l’uomo può accedere a quella necessità, a un’esperienza almeno iniziale di quella necessità che fu di Gesù, a garanzia della gloria. «Siamo al cuore dell’antropologia dell’umiltà», dice m. Angelini, che pur senza capire ascolto in silenzio.

(3-continua)

Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.

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«Una ucella picciola e nera» (Dice il monaco, XXXIV)

Scrive fra’ Domenico Cavalca, o.p., traducendo all’inizio del Trecento il secondo libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, cioè la «Vita di San Benedetto»:

Or essendo [Benedetto] un giorno solo venne lo tentatore. Ed una ucella picciola e nera che comunemente si chiama merla, e cominciolli a volare intorno a la faccia, ed importunamente li veniva infino al volto, e sì presso che co mano l’avarebbe potuta prendare se avesse voluto. Per la qual cosa Benedetto maravigliandosi fecesi lo segno de la croce, e la merla si partitte. E partendosi la merla sentitte Benedetto tanta e sì forte tentazione quanta mai provata n’avea. Ché una volta avea Benedetto veduta nel secolo una bella femmina, la quale lo nemico li ridusse a la memoria. E formolli in tal modo ne la imaginazione la bellezza di questa femmina, e di tanto fuoco li accese l’animo, che la fiamma dell’amore appena li capeva nel petto, e quasi poco meno, vinto di disordinato amore, deliberava di lassare l’ermo. E subitamente soccorso da grazia di Dio, tornando a sé medesmo e vergognandosi, vedendo quinde presso un grande spineto ed orticheto, spogliossi ignudo e gittossi fra quelle spine ed ortiche.

Domenico Cavalca, Il «Dialogo» di S. Gregorio, II, in Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. Segre, UTET 1980, pp. 245-46; scrive, tra l’altro, il professor Segre: «La prima attività del Cavalca sembra essere stata quella di traduttore, con le Vite dei Santi Padri e il Dialogo (ma, secondo la Cenname, nell’ordine opposto), certo anteriori al 1333, e forse di molto; e più che di traduzioni, si deve parlare di garbati, e sostanzialmente abbastanza fedeli, rifacimenti».

 

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Il Maestro è un Sei, Benedetto un Nove

Sempre in attesa di affrontare la Regola del Maestro (RM), il precedente diretto della Regola di Benedetto, mi è capitato di leggere un bell’articolo, dello studioso benedettino Benoît Standaert, che mette a confronto i due autori sul piano della spiritualità e del temperamento, e vi ho appreso tra l’altro che esiste un filone di studi che ha esplorato la congettura che i due siano la stessa persona, essendo la RM opera giovanile di Benedetto.

Nell’isituire il raffronto, l’articolo curiosamente si avvale anche di categorie tratte dalla Caratteriologia e dall’Enneagramma: «Il Maestro è caratterialmente un grande emotivo, secondario e attivo, ciò lo annovera tra i passionali. La sua personalità è notevolmente angosciata, abitualmente sospettosa, con una tendenza che in certi momenti può divenire paranoica. […] Ai suoi occhi, perché tutto vada bene, basterà prevedere tutto e introdurre dappertutto le necessarie precauzioni» (cosa che mi piace assai). In base all’Enneagramma, «lo si può situare tra i Sei, il tipo proprio più angosciato dei nove, con un’ala in Sette… e un’ala in Cinque». Benedetto invece «è un flemmatico, un secondario, attivo, e un impressionante non-emotivo»; è un Nove, che «cerca di bilanciare e controbilanciare i punti di vista come le prese di posizione, per ottenere prima di tutto l’armonia».

Ma l’aspetto forse più interessante dell’articolo è la ricostruzione che lo studioso fa del rapporto tra i due. Anzitutto «niente impedisce di pensare che si siano conosciuti personalmente»; in secondo luogo bisogna ricordare che Benedetto non si limita a citare quando gli occorre il Maestro: «Egli lo riscrive, lo ripensa, lo adatta, lo corregge anche su molti punti, ne scarta osservanze, eccezioni e digressioni in gran numero». Questo comportamento spregiudicato, secondo Standaert, fa propendere per la tesi che Benedetto abbia scritto la sua Regola quando il Maestro era già morto. Come si può spiegare tutto ciò?

Ci sono un paio di indizi, nella RM e nella Vita di San Benedetto di Gregorio Magno, che permetterebbero una affascinante ricostruzione.

Le cose potrebbero essere andate così. In caso di morte improvvisa dell’abate, la RM prevede che si faccia venire nel monastero un «abate molto santo», che per un mese almeno osservi la comunità, abbranciandone e studiandone la Regola, e poi designi il successore. Gregorio Magno racconta che i monaci di una comunità a sud di Roma, presso Subiaco, a un certo punto si rivolsero a Benedetto, in occasione della morte del loro abate. Benedetto va, si ferma, studia e alla fine diventa lui stesso il nuovo abate, cercando anche di «raddrizzare la situazione che, da quanto ci dice il papa Gregorio, era fortemente degradata». È così che Benedetto conosce a fondo la Regola di quel monastero, ne conosce soprattutto i limiti, infatti «è nota la sconfitta che seguirà. Benedetto si rende conto che hanno deciso di avvelenarlo e con calma si ritira “tornando alla sua amata solitudine”». Quell’abate, cui Benedetto è succeduto, era il Maestro, e quella Regola era la RM.

Benedetto ha riflettuto a lungo su quel sorprendente fallimento: «Ha dovuto tener conto delle cose: non era tutta colpa dell’abate – eremita senza esperienza di vita comune –, né della Regola, né dei monaci del luogo che lo avevano scelto. Bisognava ripensare all’articolazione delle tre cose, partendo naturalmente dal testo normativo che sta al centro. Si doveva dunque emendare la Regola in vigore, completarla, raggiustarla in certi particolari. Così erano nati i principi di redazione della sua propria Regola». Benedetto avrebbe quindi studiato sul campo, e non soltanto su un manoscritto, la RM, prima di decidersi, visti gli esiti, a modificarla, a riscriverla con decisione e libertà: se hanno cercato di farmi fuori, ci dev’essere qualcosa che non funziona.

Il confronto tra i due testi, alla luce di questa ipotesi, «chiarisce molte abbreviazioni di Benedetto, rivela delle modifiche che sono a volte delle severe correzioni del Maestro e permette di stimare ancor meglio colui che, con discernimento, ha saputo redigere un tale modello del tutto eccezionale di equilibrio».

Benoît Standaert, San Benedetto e il Maestro: alla ricerca del rapporto spirituale tra i due (2011), in «Ora et Labora» LXVIII, 1 (gennaio-giugno 2013), pp. 45-58.

 

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Vivere insieme (pt. 2)

(la prima parte è qui)

La Regola, si diceva: «Essa è accolta da coloro che vivono in quel luogo e diventa la garanzia di una vita comunitaria di qualità». La Regola non è né subita né osservata, è scelta, questa volta sì, all’interno di un percorso che altri hanno già compiuto. Con una precisazione anche qui fondamentale: «La Regola di Benedetto non è stata scritta prima di essere stata vissuta», cioè è stata scritta dopo che ha dato i suoi frutti. Il punto della Regola è proprio nei frutti che ha dato e dà, oggi, ed è per questo che la lettera non deve prevalere, e non prevale, sull’esperienza. «La vita è sempre più forte… Per fare questo legame costante tra regola e vita è necessaria una parola autorevole, un responsabile: è l’abate» (qui Piovano cita B. Rollin).

L’abate, grazie a quel meccanismo – che talvolta mi sento di definire miracoloso – che è il discernimento, è la garanzia  della «circolazione e della crescita di questa vita», è al tempo stesso il custode della Regola e il primo servitore della vita di tutti i giorni, colui che «rende fecondo lo scarto tra regola e vita». Vale la pena citare qui per esteso un passo che contiene tra l’altro, con il consueto garbo che vige tra i monaci di oggi, uno spunto polemico interessante.

«E in un certo senso non esiste la regola di Benedetto come modello di vita stretto, ma comunità che vivono, nella loro specificità e nelle condizioni di vita che costituiscono il loro tessuto storico, la regola di san Benedetto. La pretesa di vivere la regola sine glossa è, in qualche modo, un fallimento, perché rischia di uccidere la vita e di fatto tende ad eliminare questa quarta coordinata proposta da Benedetto.» L’abate è il fulcro dell’equilibrio tra obbendienza «infantile» e contestazione in nome della libertà: «Chi rifiuta di dipendere da una legge e di accettare di ricevere la vita da un altro, non può essere monaco secondo la RB. È un test importante le cui conseguenze sono antropologiche e spirituali».

Quindi. Insieme, per scelta ma senza scegliere i compagni di strada, e non da soli come i pur stimati eremiti (che peraltro, secondo Piovano, nella lettura di Benedetto sono cenobiti maturati. Non c’è eremitismo senza prima, e verrebbe da dire anche dopo, vita in comune). Nello stesso posto, e non come i girovaghi, che sono sempre soltanto ospiti del mondo e degli altri. Secondo uno stile prefissato, e non seguendo il proprio, isolato volere, come fanno i sarabaiti che «considerano santo tutto ciò che corrisponde al loro modo di pensare e ai loro desideri, mentre ritengono illecito ciò che non è di loro gradimento». Accogliendo infine le decisioni di una guida, che, Piovano tralascia di ricordare, viene comunque eletta.

Le assonanze sono molte e, come dicevo prima, mi pare che alla fine un grande sforzo sia profuso per ottenere adesso un risultato. Certo, rimane la domanda, implicita anche nel concetto di «guida»: per andare dove? Ma se invece di «alla vita eterna», si rispondesse «da nessuna parte», cambierebbe poi molto?

(2-fine)

Adalberto Piovano, Vivere insieme, sotto una regola e un abate (RB 1), in «Ora et Labora, LXVII (2012), 1 (gennaio-giugno), pp. 13-23.

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Vivere insieme (pt. 1)

Con mia grande soddisfazione ho perfezionato finalmente l’abbonamento a «Ora et Labora», la rivista semestrale curata dalle Benedettine dell’adorazione perpetua del Monastero San Benedetto di Milano e giunta alla sessantasettesima annata. Soddisfazione per via dell’intestazione della rivista, «Quaderni di interesse monastico», che riassume perfettamente la mia modesta intenzione, e soprattutto perché mi pare rappresenti uno splendido laboratorio di riflessioni di monaci e monache di oggi su se stessi. Ho ricevuto i due numeri del 2012 e ad apertura vi ho trovato subito una conferma nel breve testo del p. Adalberto Piovano, del monastero di Dumenza, intitolato Vivere insieme, sotto una regola e un abate (RB 1). Una riflessione, appunto, che ha anzitutto quel sapore speciale di un «fatto» che, al di là delle vicende storiche, è sempre presente e al tempo stesso in rapporto a un esordio vecchio di più di mille anni.

C’è un capitolo della Regola, si domanda Piovano, in cui è racchiusa l’essenza della forma di vita monastica? Della sua struttura concreta prima ancora che del suo ideale? Sì, è il capitolo 1, e più esattamente il versetto 2: «Il primo [genere di monaci] è quello dei cenobiti, ossia di coloro che vivono in un monastero e obbediscono a una regola e a un abate».

«Credo», afferma Piovano, «che abbiamo qui le quattro coordinate della vita monastica proposta da Benedetto e quella che anche noi desideriamo vivere»: vivere insieme; un luogo preciso; uno stile di vita; una guida, un padre. Fin qui, posso dire, c’ero arrivato anch’io, ma è nel commento ai quattro punti che ho trovato nuove e interessanti indicazioni per una maggiore comprensione.

Anzitutto la sottolineatura della vita in comune, che va intesa come una realtà più concreta della stessa «comunità» (molto in voga, oggigiorno): «Qui si parla di… una vita in cui ognuno si affianca all’altro quotidianamente… in cui ogni cammino dell’altro diventa una storia comune». Con una precisazione fondamentale, la gratuità: «Non si è scelti e questo differenzia, in un certo senso, da un’altra forma di vita comune, che è una coppia o una famiglia». Non ci si sceglie, non si sceglie il monastero, vi si è chiamati, da e in vista di un bene superiore.

Osservo a margine di questa sottolineatura, tuttavia, una cosa che mi ha sempre colpito. Anche considerando questo bene superiore e «futuro», nondimeno un’immensa quantità di energia umana viene spesa per il «funzionamento» della comunità, oggi, sabato 15 dicembre 2012, e poi domani, e dopodomani, e posdomani l’altro, a riprova che tale «funzionamento» rappresenta un valore, adesso. E potrei aggiungere, sempre dalla mia prospettiva disassata, che ciò pare un bene sia che si tratti di un’attesa di qualcos’altro o no.

Questa vita in comune, poi, ha bisogno di un luogo delimitato, simbolico e concreto, dove si sta, dove si compiono i riti della propria fede, ma dove ci si preoccupa anche della pattumiera. E l’unione di riti e pattumiera, senza fratture, è permessa da uno stile di vita: la Regola.

(1-continua)

Adalberto Piovano, Vivere insieme, sotto una regola e un abate (RB 1), in «Ora et Labora, LXVII (2012), 1 (gennaio-giugno), pp. 13-23.

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