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Le cose di lassù (Teofane il Recluso)

Ogni tanto do un’occhiata a Oriente, disordinatamente. Tale è la mia ignoranza della spiritualità ortodossa che è come se andassi in gita in un luogo di cui non conosco nemmeno la lingua, senza aspettative, magari mi resta attaccato qualcosa. E qualcosa dell’antologia di scritti di Teofane il Recluso, Lo spirito e il cuore, mi è rimasto attaccato, a partire dal nome del suo autore. Il quale nome venne a Grigorij Govorov (Černavsk, 1815 – Vjšen, 1894) per il periodo che, dopo lunghi anni di insegnamento e attività pastorale, trascorse in reclusione nella sua cella del monastero di Vjšen: circa dodici anni, dal 1872 («Vorrei chiudere volentieri tutte le finestre e le porte, per non vedere e sentire alcunché di quanto succede fuori»).

Autore molto prolifico, tra i principali artefici del cosiddetto «ritorno ai Padri», Teofane viene spesso riassunto nella formula della «spiritualità del cuore», una pratica di purificazione dei sentimenti, di sobrietà dei pensieri, di discernimento e orientamento degli spiriti e di abbandono alla preghiera, che mira a una «disposizione stabile», a un’intima integrità.

Tra i troppi spunti che ho intravisto mi hanno colpito alcuni estratti dallo sterminato epistolario di Teofane, che, anche in reclusione, rispose sempre alle richieste di consiglio spirituale. Ecco, ad esempio, la risposta che Teofane dà quando proprio a lui qualcuno chiede se sia bene o no entrare in monastero: «Non è bene cercare di risolvere la questione tentando di indovinare, se nel monastero se fuori del monastero; la forza non è in questa circostanza». E aggiunge: «Quando il monastero è nel cuore, non importa se vi sia o meno l’istituzione monastica. Ecco il monastero nel cuore: Dio e l’anima». I monasteri sono necessari, ma non tutti vi sono chiamati, né tutti hanno voglia di entrarvi, e non bisogna dimenticare che «non sono stati stabiliti dal Salvatore». «Il monaco è colui la cui vita interiore è disposta in modo tale che esiste solo Dio con lui, e lui si perde in Dio.» La vita di famiglia, la vita nelle città, può rappresentare un ostacolo per questa intimità, e così alcuni scelgono di ritirarsi dal mondo, ma altri no. Tutti concordano che esista un talento per la scienza, o per un’arte, perché non accettare, chiede Teofane, che esista un «talento» per Dio? «Il monachesimo non proviene dall’esterno», è anzitutto un evento interiore.

A questo punto è scattata inevitabile l’associazione con un’altra lettura recente, un piccolo volume di Francesco Comandini, che passa in rassegna alcune esperienze monastiche contemporanee extraistituzionali e che si spinge addirittura a individuare un «archetipo monastico» della cosiddetta natura umana. «Attualmente il carisma monastico sembra espandersi al di fuori delle mura dei monasteri e influenza la vita spirituale di molte persone. Uomini e donne, cristiani e non cristiani, stanno scoprendo in se stessi una dimensione monastico-contemplativa che si esprime spesso con modalità nuove e originali».

Teofane in proposito, citando Paolo, è molto chiaro: «Pensate alle cose di lassù… In questo consiste il monachesimo. Non è monachesimo la tunica nera, la berretta, e neppure la vita in monastero. Anche se tutto questo cambierà, il monachesimo rimarrà finché esisterà l’uomo-cristiano».

Teofane il Recluso, Lo spirito e il cuore. Pagine scelte, a cura di T. Špidlík S.I., Paoline 2003; Francesco Comandini, Come monaci nel mondo. Piccola guida al monachesimo interiore, Il leone verde 2002.

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Per eremi silenziosi

Nel 1904 Vasilij Rozanov pubblica, su rivista, il resoconto di un viaggio compiuto presso tre monasteri dedicati al culto del beato Serafim di Sarov, il grande ieromonaco eremita russo vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento. Le motivazioni personali del pellegrinaggio (la preoccupazione per la salute della figlia Tanja) sono escluse dalla breve trattazione, che affronta invece temi più generali legati al monachesimo e al suo significato in seno al cristianesimo.

A parte il non trascurabile interesse per la spiritualità ortodossa, di cui non so praticamente nulla, e sorvolando sulle sue peculiarità, il testo di Rozanov rappresenta per me uno splendido esempio di riflessione laica (o quanto meno semi-laica, considerando la personale religiosità del grande critico letterario) sul monachesimo. Più precisamente è una testimonianza incredibilmente onesta e vivida delle impressioni provate al cospetto di alcuni monasteri, nello specifico femminili. Da queste pagine infatti emerge quel senso di attenta sorpresa che genera la visione di una comunità unita e armoniosa. Quel senso di «realtà alternativa» che riconosco anche nelle mie impressioni: «In fondo, espressioni come la “società cristiana” o la “famiglia cristiana” [cioè la Chiesa] indicano piuttosto delle problematiche e non dei fatti, mentre il monastero è una realtà, che per di più ha preso corpo già in tempi remoti». Costruiti da anime «che avvertirono dentro di sé una primigenia repulsione per la molteplicità e la varietà», che pronunciarono «il voto spaventoso ed eterno di sottrarsi alle esigenze dello sviluppo», i monasteri sono il fatto della fede.

Sono luoghi, umani, terreni e tangibili, in cui la bellezza si è trasformata in consuetudine, in cui la cordialità è diventata respiro, in cui la «reciproca sollecitudine» mostra il potere che una regola può avere su un individuo. Nei monasteri «non vi sono culture diverse e incompatibili su uno stesso fazzoletto di terra. Per questo [premono] sull’anima, affascinandola per il semplice fatto di essere un luogo di unità e integrità». Sono comunità di uomini e di donne che espongono un’alternativa possibile. Una possibilità che non perde il suo valore anche quando, come nel mio caso, non se ne segue il presupposto: resta la dimostrazione che si può convivere diversamente.

Questa estrema concretezza dell’esperienza monastica fa dire a Rozanov una cosa di rara portata: «Non fu la Chiesa a generare i monasteri, bensì questi ultimi a dare vita alla Chiesa, a decretarne l’ordinamento e lo spirito, l’abito e i propositi. I monasteri sono quelle piccole isole primordiali che, immerse nell’antico oceano del paganesimo, iniziarono a saldarsi tra loro fino a formare il continente della Chiesa».

Il pensiero, e il testo di Rozanov, non si esaurisce certo qui, ma questa è la prima lezione che ne ho tratto. A me della Chiesa non importa, diciamo così, importano invece le persone, ed è per questo che guardo ai monasteri. Perché, come commenta Rozanov, «qualcuno può anche non amare Dio, ma come non amare questo amore per Dio?» Sintesi che proverei a remixare così: qualcuno può anche non credere in Dio, ma come non credere a chi vi crede?

E più esattamente: io non credo in dio, devo credere a coloro che vi credono?

Vasilij Rozanov, Per eremi silenziosi, Lindau 2010.

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