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«E allora io dove sarei?» (Who’s Who, XV; Augustine Roberts pt. 2)

Si diceva di Augustine Roberts, che così esordisce nella sua autobiografia1, in forma di lettere indirizzate al confratello Edward, dell’abbazia di Saint Joseph a Spencer, in Massachussetts: «La mia non è la storia di un tipico monaco trappista», a conferma di quanto appena espresso dalla presentazione del volume, e cioè che la sua vita di «monaco globale» rappresenta il «paradosso di un monaco che, radicato nel voto al suo monastero, diventa tuttavia un giramondo proprio in virtù di una totale obbedienza», e incarna «in modo del tutto inatteso la definizione di monaco preferita da Thomas Merton: un individuo che appartiene a chiunque e a qualsiasi luogo proprio perché non appartiene, nel senso comune del termine, a nessun posto o a nessuno in particolare».

Bruce (poi John, infine Augustine) Roberts nasce a Nanjing nel 1932, da William e Dorothy, due missionari della Protestant Episcopal Church, il ramo americano dell’Anglican Communion of Churches, che si erano conosciuti a Shanghai nel 1913, si erano osservati, fidanzati, sposati e quindi stabiliti a Nanjing, dove lui avrebbe svolto l’incarico di pastore per quindici anni, prima di diventare vescovo, nel 1936, della diocesi episcopale di Jiangsu (comprensiva di Shanghai e Nanjing). Quando il piccolo Bruce torna per la prima volta negli Stati Uniti si lamenta perché Lao nai-nai bu shuo zhong guo hua!, «la nonna non parla cinese!»

Gli anni della seconda guerra mondiale li passa nei pressi di Boston, con la madre (i quattro fratelli – Edith, Helen, Bill e John – sono già «rientrati» negli Stati Uniti, dove completeranno i loro studi), mentre il padre, rimasto in Cina, è internato in un campo di prigionia giapponese. I tre si riuniscono a Shanghai nel 1946. La prima «avvisaglia trappista» è il passaggio al cattolicesimo del fratello maggiore Bill, che nel 1947 si fa monaco. Il padre è spesso in viaggio e madre e figlio nel 1948 si spostano a Bejing. È in questo torno di tempo che Bruce Roberts ha i primi contatti con il mondo monastico (i resti di una comunità trappista, un monastero buddista): «Se ci ripenso, molti anni dopo, è chiaro che Dio aveva piantato nel mio cuore un seme monastico già nella prima adolescenza, un seme che si è espresso per la prima volta facendomi sentire a casa con queste persone speciali che mi è capitato di incontrare in quel periodo». L’imminenza dell’ascesa al potere dei comunisti è la causa del ritorno negli Stati Uniti di Bruce, insieme a molti altri connazionali. Quando lo accompagna alla nave, la madre, che ha deciso di restare in Cina a fianco del marito, gli consegna un piccolo libro, «magari gli dai un’occhiata, parla della Chiesa cattolica, che è veramente meravigliosa».

Il sedicenne non è sorpreso, in famiglia si è sempre parlato apertamente della fede, leggendo e commentando i Vangeli e, ripensandoci, il vecchio monaco ringrazia Dio «di essere nato in una famiglia protestante, perché se i miei genitori fossero stati cattolici, mio padre probabilmente sarebbe stato un prete, e mia madre quasi sicuramente sarebbe stata una suora, e allora io dove sarei?»

Ripresi gli studi alla Mount Hermon School e poi a Yale, la sua strada, per così dire, si chiarisce a poco a poco in una specie di esaltante scivolata, fino al battesimo e al passaggio al cattolicesimo nel giugno del 1951, e al suo ingresso nell’abbazia di Spencer due anni dopo come novizio di coro, ricordato con una di quelle tipiche osservazioni che forse solo un monaco «americano» potrebbe fare: «La mia luna di miele è durata circa dieci giorni, il tempo che mi ci è voluto per diventare davvero consapevole, a livello viscerale, che quella scelta sarebbe stata per sempre, che ci si aspettava che sarei rimasto lì per il resto della mia vita. […] Niente più viaggi, niente più surf sulle onde dell’oceano, tennis, golf, pianificazione della mia giornata, incontri con le persone che conoscevo, la famiglia o i miei amici, in altre parole, fare quello che volevo. D’ora in poi la mia vita sarebbe stata solo quel gruppo di edifici, persone e attività di routine, punto!»

Be’, non è andata affatto così, perlomeno per i viaggi e gli incontri. Se, un passo dopo l’altro, il giovane trappista (professo nel 1958) ha imparato a conoscere e ad amare, in tutta la sua profondità, la realtà del monastero – quella che con bella espressione lui chiama «la terra della piena fiducia» (the land of total trust) –, allo stesso tempo è cominciato un viaggio quasi infinito, che dapprima l’ha portato al monastero di Azul (1962), in Argentina, di cui è stato uno dei fondatori e successivamente priore, e poi di nuovo a Spencer (1983), come abate, a Scourmont (luglio 1996), e poi a Roma (settembre 1996), come segretario dell’abate generale Bernardo Olivera (che era stato suo novizio ad Azul) e procuratore dell’Ordine, e quindi in giro per il mondo impegnato in visite, conferenze e riunioni (grazie anche alla sua estesa conoscenza delle lingue e perché «il centro dell’Ordine Trappista – come della Chiesa cattolica nel suo insieme – non è più l’Europa, tanto meno l’America, o qualsiasi singolo paese o continente; l’Ordine è sempre più multicentrico, o decentralizzato, ma questo rende ancora più importante che ci sia qualche punto di riferimento, di aiuto e di sostegno concreto e unificante al servizio di tale rete mondiale di comunione»), e ancora di nuovo ad Azul (2002), eletto di nuovo abate dai suoi vecchi confratelli e infine maestro dei novizi, in un cerchio che si chiude nel 2008, a 75 anni.

A questa grande «avventura pratica» si è accompagnata, come si può immaginare, una altrettanto estesa «avventura spirituale», di cui l’autobiografia di p. Roberts dà ampiamente conto e che d’altra parte si è riversata nella sua opera fondamentale, quel Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, cominciata a scrivere negli anni del Concilio Vaticano II, sulla scorta dei testi di Columba Marmion e Thomas Merton: «Dapprima pensavo di tradurre alcuni brani del libretto di Merton [sui voti monastici] poiché non c’era nulla che trattasse specificamente della professione monastica», ma le indicazioni del Concilio lo dissuasero. «Così ho iniziato quello che fino ad oggi è stato il mio unico libro, Hacia Cristo, il cui titolo inglese è Centered on Christ. Ha subito diverse revisioni in questi ultimi quarant’anni anni, tutte per migliorare la comunicazione di cosa significa dare la propria vita a Cristo come monaco o monaca nel nostro mondo in rapido cambiamento.»

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  1. Augustine Roberts, Finding the Treasure: Letters from a Global Monk, Cistercian Publications 2011.

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Inemarginabile (Augustine Roberts pt. 1)

LibroDellaTrappa Come nella migliore tradizione la vicenda è cominciata con un libro adocchiato su una bancarella. Figuriamoci: Il libro della trappa, di un tale Agustín Roberts1, comprato all’istante, anche con lo stupore che esistesse un libro con un titolo del genere – che infatti si rivelerà essere un «titolo editoriale» di un originale ben diverso, Hacia Cristo. Apertolo all’impiedi davanti alla bancarella medesima, si è presentato con un’avvertenza dal tono e soprattutto dal contenuto assai singolari, che hanno acceso immediatamente il mio interesse. Nella «Nota di edizione» a pagina 9 ho letto infatti che le suore trappiste di Vitorchiano avevano contattato l’editore circa la possibilità di pubblicare in italiano il libretto, assai utile per le postulanti, che loro lo «avrebbero anche semplicemente ciclostilato in un numero limitato di copie»; l’editore aveva letto e valutato, e scoperto che il testo «forse più di ogni altro poteva far conoscere in cosa consiste lo svolgersi quotidiano della vita contemplativa».

E qui la nota prendeva una piega inattesa. L’editore infatti riteneva che il testo potesse essere di grande utilità a «tutti coloro che con onestà vogliono fare un passo nella comprensione di un avvenimento che questa società vorrebbe emarginare, ma che di fatto è inemarginabile. L’inemarginabile dall’ideologia di questo mondo è in fondo il contenuto di questo libro». Perbacco! Anche se penso che oggi, passati altri cinquant’anni da quelle parole, «questo mondo» (ammesso che esista una concreta entità corrispondente a tale concetto) in realtà non voglia «emarginare» il monachesimo, ma sia in sostanza indifferente al suo destino (a patto che si possano visitare i monasteri e i relativi gift shop abbiano un orario decente), l’affermazione non poteva non colpirmi.

La prefazione dell’autore, che seguiva la nota dell’editore, affermava che si trattava di «uno studio sul significato dei voti monastici, precisamente come espressione della dinamica benedettino-cistercense. Poiché questa dinamica contemplativa è nel cuore di ogni uomo, speriamo che esse siano di profitto generale». La prefazione era datata «Azul, 1970», cioè, come ho appreso in seguito, dal monastero trappista di Nuestra Señora de Los Ángeles di Azul, a circa 300 chilometri a sud di Buenos Aires, del quale p. Roberts era stato abate dal 2000 al 2008, dopo essere stato per quattro anni procuratore generale dei cistercensi della stretta osservanza presso la Santa Sede.

Insomma, Agustín Roberts, nato Bruce nel 1932, quindi John nel 1953, novizio presso l’abbazia di Spencer, nel Massachussetts, e infine Augustine (poiché c’era un altro John nel monastero) monaco professo nel 1958 «è stato una delle figure più significative e influenti del monachesimo cistercense della seconda metà del XX secolo, quasi sconosciuto al di fuori del suo Ordine». E qualche mese dopo avevo in mano Configurati a Cristo, il corposo volume di 450 pagine2 che rappresenta il punto di arrivo di numerose edizioni e revisioni di quel primo testo, nato in forma di appunti nel 1967, e la cui lettura è stata di estremo interesse e utilità per cogliere dall’interno gli aspetti più importanti di quella che ancora e sempre pare una scelta di difficile comprensione.

Ma a questo punto è lecito domandarsi: Augustine Roberts, chi era costui?

(1-segue)

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  1. Agustín Roberts, Il libro della trappa. Orientamenti pratico-dottrinali sulla professione monastica, traduzione di F. Mazzariol, Jaca Book 1976.
  2. Augustine Roberts, Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, Nerbini, «Quaderni di Valserena», 2018.

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I doveri di un camionista (Dice il monaco, XCV)

Dice Augustine Roberts, monaco trappista, nel 1970:

In realtà, gli obblighi derivanti dai voti non possono essere imposti dall’esterno, come leggi che restringano la libertà di una crescita spirituale, ma devono germogliare spontaneamente dal cuore della vita monastica. Essi sono di fatto espressioni e doveri di uno stato di vita speciale, come lo sono, ad esempio, i doveri di un camionista, di un medico o di un astronauta. Un camionista non può ubriacarsi o addormentarsi quando guida di notte. Tale attenzione è obbligo intrinseco alla sua condizione. Allo stesso modo, l’adempiere i voti della professione è dovere intrinseco alla condizione monastica. Non perché l’Ordine o la Regola li impongano, quanto piuttosto perché il monaco sceglie liberamente uno stato di vita in cui tutto si orienta verso l’amore di Cristo.

♦ Augustine Roberts, Il libro della trappa. Orientamenti pratico-dottrinali sulla professione monastica, traduzione di F. Mazzariol, Jaca Book 19762, p. 18. (Un primo assaggio di un testo di estremo interesse, nato alla fine degli anni ’60 come appunti ciclostilati, passato attraverso decenni di revisioni e di vita monastica [Hacia Cristo, 1970, che cito qui, poi 1978 e 1994], numerose traduzioni [Centered on Christ, 1979, 20053; Tendre vers le Christ, 2007, tra le altre] e approdato infine a Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, Nerbini, «Quaderni di Valserena», 2018. Senza contare l’estremo interesse della figura del suo autore, nato a Nanchino nel 1932 da genitori statunitensi episcopaliani…)

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