Archivi tag: Giorgio Agamben

L’abbazia delle libertà (Reperti, 11)

Devo al libro importante di Giorgio Agamben anche un’altra interessante scoperta (per me), quella dell’Abbazia di Thélème, grande invenzione di Rabelais che occupa gli ultimi capitoli del Gargantua (1534). Come osserva A., «la comprensione perfetta di un fenomeno è la sua parodia».

Alla fine delle sue avventure, Gargantua vuole gratificare il monaco che lo ha accompagnato nelle sue imprese facendogli dono di un’abbazia e del relativo abbaziato. Il monaco però rifiuta: «Come potrei governare gli altri, io, che non saprei governare me stesso? Se vi sembra che io vi abbia reso o vi possa rendere in avvenire qualche buon servigio, concedetemi di fondare un’abbazia come piace a me». Così nasce Thélème, che porta nel nome il suo significato, dal greco «volontà», e che si concreta in «un’inversione puntuale del cursus monastico»: se nel monastero cristiano vige anzitutto l’annullamento della volontà individuale, Thélème sarà il regno della libertà e tutto vi andrà al contrario delle «regole» tradizionali.

Anzitutto niente recinti, «perché dove c’è mura davanti e di dietro, c’è un gran murmurio, invidia e complotti scambievoli». Che non vi siano orari né orologi, e «che tutte le opere vi siano distribuite secondo occasione e opportunità». Vi saranno accolte solo donne «belle, ben formate e di buon carattere» e uomini «belli, ben formati e di buona indole», soprattutto insieme. I tre voti fondamentali saranno «che ognuno possa onoratamente maritarsi, essere ricco e vivere liberamente».

E ancora: Thélème avrà una buona dotazione di denaro e di animali («ventisette centinaia di migliaia e ottocentotrentuno montoni di gran lana»); edifici ricchi e arredamenti di qualità; una splendida biblioteca su più piani (con opere «distribuite ai diversi piani secondo la lingua») e gallerie «di pitture raffiguranti antiche gesta, storici eventi e descrizioni della terra».

Poi, inciso su una porta, un avviso sciolto in versi eleganti che comincia così: «Qui non entrate, ipocriti e bigotti, / vecchie bertucce, tangheri, marpioni, / bachechi, collitorti, mangiamoccoli; / qui non entrate, puttanieri in zoccoli, / straccioni incappucciati, schiodacristi, / bindoli, gabbasanti, spigolistri, / picchiapetti, scrocconi, / cattabrighe e stonfioni: / le vostre ragne andate altrove a tendere, / non vi son merli qui per voi da prendere» e continua elencando tutta la marmaglia falsa che si deve tenere lontana, perché «qui si sta in letizia, / qui non c’è malizia, / qui non vi sono eccessi / onde imbastir processi».

E infine la regola vera e propria, illuminata da un’unica stella, il libero arbitrio, e «racchiusa in un solo articolo: FA’ CIÒ CHE VUOI».

L’aspetto interessante è che nell’«antimonastero» di Thélème questa inversione non porta al disordine e all’assenza di regola, infatti, come sottolinea A., «il fine che essa si propone è, malgrado la puntuale dimissione di ogni obbligo e l’incondizionata libertà di ciascuno, perfettamente omogeneo a quello delle regole monastiche: … la perfezione di una vita in tutto e per tutto in comune». La parodia di Rabelais (antitetica alla cupa rievocazione della «regola» che farà Sade duecentocinquant’anni dopo nelle 120 giornate di Sodoma) non è soltanto un divertimento, anzi, «è così seria che si è potuto comparare l’episodio di Thélème alla fondazione francescana di un ordine di nuovo genere (Etienne Gilson): la vita comune, identificandosi senza residui con la regola, la abolisce e la cancella».

Perché gli uomini liberi tendono per via di un istinto naturale («ed è ciò che i Telemiti chiamavano onore») alla virtù, e grazie alla libertà che li nutre per emulazione sono spinti «tutti a fare ciò che apparisse gradito a un solo. Se qualcuno o qualcuna diceva “beviamo”, tutti bevevano; se diceva “giochiamo”, tutti giocavano; se diceva “andiamo a spasso per la campagna”, tutti vi andavano». E se per caso un Telemita (o una Telemita) doveva lasciare l’abbazia, si portava dietro colei (o colui) che lo aveva accettato e si sposavano, «e come bene avevano vissuto a Thélème in armonia e reciproca devozione, così e ancor meglio continuavano a vivere da sposi e si amavano l’un l’altro fino alla fine dei loro giorni come nel primo giorno delle nozze».

(Le citazioni dal Gargantua sono tratte da François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, traduzione di Augusto Frassineti, Sansoni 1993. Nella traduzione di Gildo Passini, Formiggini 1925, lo si può trovare qui.)

3 commenti

Archiviato in Reperti

Giorgio Agamben, Altissima povertà (pt. 3)

(la prima parte è qui, la seconda parte qui)

Nel lungo processo di definizione dello status giuridico della regola il caso francescano, e sarebbe più corretto dire di Francesco, si situa per così dire in un punto estremo di radicalità, e a esso è dedicata la terza, densissima parte del volume di Agamben.

Non è un caso che la radicalità francescana emerga all’inizio del XIII secolo, in un momento di forte effervescenza di movimenti religiosi, ed ereticali, in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche, o più esattamente visti da esse come una minaccia mortale, non tanto sul piano dottrinale quanto su quello della vita stessa, del modo di vivere. Proprio su questo aspetto, da un punto di vista monastico, il concetto che per eccellenza è legato al modo di vivere, cioè la regola, diventa terreno di scontri e contraddizioni. La particolare tensione che si era creata tra i due estremi di regola e vita, in direzione di una sostanziale identificazione, si fa massima in Francesco, le cui poche parole sembrano indicare una «terza via», la forma-di-vita.

Come nell’incipit della «Regola non bollata» del 1221 (cioè confermata senza bolla), in quello che si ritiene il residuo della prima regola presentata a Innocenzo III nel 1210, il Prologo e il Capitolo I, laddove (I, 1) si legge «La regola e vita dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e l’esempio del Signore Nostro Gesù Cristo». Regola e vita, che quindi non sono la stessa cosa, e che si uniscono a formare una terza cosa, una forma-di-vita, appunto, che altro non è che l’imitazione della vita di Gesù raccontata dal Vangelo: «Come avversari e seguaci intesero immediatamente, la “forma del Santo Vangelo” non è in alcun modo riconducibile a un codice normativo», e ancora: «È chiaro che Francesco ha qui [R.n.b., II] in mente qualcosa che non può semplicemente chiamare “vita”, ma che nemmeno si lascia classificare come “regola”». Non è una legge che possa essere infranta (non per niente Francesco rifiuta di impegnarsi personalmente nell’esercizio della disciplina verso chi non rispetta la regola), è una zona extragiuridica, è il tentativo immane di «realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto». Un tentativo che, ricorda A., ovviamente infiammerà la reazione della curia e che per la sua spinta rivoluzionaria non potrà che fallire.

È alla luce di questo tentativo che, ad esempio, bisogna leggere il nome che Francesco ha dato ai suoi frati: minori, anche cioè minorenni, soggetti privi di potestas, sottomessi alla potestà di un paterfamilias (Dio padre e, in subordine, il papa). E la chiave di questo tentativo, il fondamento di questa «neutralizzazione del diritto rispetto alla vita», è la rinuncia alla proprietà, la povertà (l’altissima paupertas, il «senza nulla di proprio»), sulle orme di Gesù (Figlio minorenne del Padre?). I francescani sono bambini che rinunciano al possesso delle cose senza però rinunciare all’uso di esse, all’uso di fatto: «L’abdicatio iuris (con il ritorno che essa implica allo stato di natura precedente alla caduta) e la separazione della proprietà dall’uso costituiscono il dispositivo essenziale di cui i francescani si servono per definire tecnicamente al peculiare condizione che essi chiamano “povertà”». Non rinunciano all’uso perché si trovano in uno stato di necessità che precede qualsiasi legge (mangiare per sopravvivere, ad esempio, come gli animali che tanto rilievo hanno nella predicazione di Francesco): «L’uso e lo stato di necessità sono i due estremi che definiscono la forma di vita francescana».

Sul concetto di «uso» si scatena la guerra, uno scontro durissimo che si concluderà con la vittoria del papato, nella persona di Giovanni XXII (e della sua bolla Ad conditorem canonum), a riprova del potenziale eversivo del messaggio francescano. Le questioni si faranno sottilissime e coinvolgeranno alcuni dei cervelli più fini del tempo (nel campo campo francescano, che ben presto si dividerà tra spirituali e conventuali, per esempio Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Bonagrazia, Bonaventura, Olivi, ecc.): uso contro proprietà, come nel caso dei «beni di consumo» – un pezzo di pane? – che nel momento in cui vengono usati – cioè mangiato – diventano «proprietà» di chi li usa; o ancora uso di fatto e uso di diritto, cioè da un lato il «puro esercizio fattuale di una prassi umana» [mangiare] e dall’altro il «diritto di usare» una cosa fondato su un diritto positivo di origine umana.

Il mite e preveggente Francesco, suggerisce A., si era saggiamente tenuto fuori queste complicazioni «rifiutando di articolare in una concettualità giuridica e lasciando affatto indeterminato il suo vivere sine proprio», affidando il suo messaggio a una forma di vita che poté manifestarsi in tutta la sua potenza soltanto nell’esperienza di un solo individuo e dei suoi primi, pochissimi seguaci, anche per via del suo profondo significato escatologico: «La forma di vita francescana è la fine di tutte le vite…, l’ultimo modus, dopo il quale non è più possibile la molteplice dispensazione di modi vivendi. L'”altissima povertà”, col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica».

Con Francesco, sembra di capire, si sarebbe salvata la vita stessa, e non soltanto le persone.

(3- fine)

Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Homo sacer IV, 1), Neri Pozza 2011.

4 commenti

Archiviato in Francescani, Libri, Regole

Giorgio Agamben, Altissima povertà (pt. 2)

(la prima parte è qui)

A fronte della novità e dell’ambiguità della regola, diventa importante definirne la natura giuridica, e l’«imbarazzo» dei giuristi, puntualmente registrato da Agamben, dimostra la difficoltà di questa definizione, per lo meno sulla base della tradizione del diritto romano. Ripercorrendo la messa a punto delle regole cenobitiche – Pacomio, Basilio, il Maestro, ecc. – emerge che il loro carattere, anche in presenza di un sistema di pene per le mancanze (non certo reati) commesse, «ha un significato essenzialmente morale ed emendativo, paragonabile alla terapia prescritta da un medico», o, ancora, rimanda alla dimensione di un’ars o di una tecnica. Quanto è significativo, ad esempio, che la Regola del Maestro, precedente diretto della Regola di san Benedetto, sia appunto di un maestro e non di un sovrano? («Tutta la terminologia della regola è in questo registro tecnico, che ricorda il vocabolario  delle scuole e delle botteghe tardoantiche e medievali»). Il monastero è una scuola dove s’impara un mestiere, per quanto molto particolare, e se si sbaglia, ci si corregge e si riprova («In questo senso, il monastero è forse il primo luogo in cui la vita stessa – e non soltanto le tecniche ascetiche che la formano e la regolano – è stata presentata come un’arte»).

Ci troviamo di fronte quindi a qualcosa che è più di un consiglio, ma non è una legge in senso stretto (secondo la formula di Cándido Mazon). La regola è fondata sui tre cardini dell’obbedienza, della castità e dell’umiltà (i tria substantialia), tenuti insieme, per così dire, dalla carità, ma non si traduce in precetti inderogabili pena la dannazione: i tre voti (altro termine problematico per i giuristi) sono precetti, «tutte le altre cose che sono contenute nella regola non riteniamo che siano nel precetto, altrimenti a stento un monaco su quattro potrebbe salvarsi» (come annota un commentatore del XVI sec. citato sempre da Mazon).

La divaricazione tra regola e legge era ben presente, secondo Agamben, ai padri come Pacomio e Basilio, che vi si attenevano sulla base delle indicazioni di san Paolo (il Vangelo è altro rispetto alla legge, «ed è probabile che la scelta stessa del termine regula implicasse una contrapposizione alla sfera del comandamento legale»), e tuttavia si assiste a una «giuridizzazione tendenziale» della professione monastica, anche e soprattutto per ragioni di controllo delle comunità: canonisti e commentatori si accaniscono sull’eccentricità della regola, spaccano parole e concetti in quattro, e il dibattito non si arresta più. Secondo studiosi moderni, ad esempio, la regola è un contratto «modellato sul paradigma della stipulatio romana – senza dimenticare che la promessa (in corsivo perché è un altro termine problematico) del novizio benedettino è accompagnata da un documento scritto, una petitio che il postulante deposita sull’altare…

E a questo proposito, a costo di dilungarsi, forse vale la pena di rileggere il capitolo 58 della Regola di san Benedetto, che trasuda questa ambiguità giuridica di cui parla Agamben: «Il novizio, dunque, all’atto della professione, faccia solenne promessa nell’oratorio, alla presenza di tutti, davanti a Dio e ai suoi santi, di vivere per tutta la vita in monastero, di perfezionare continuamente nel bene i propri costumi e di obbedire: così, se un giorno violerà i suoi voti, sappia che ineluttabile sarà la condanna di Colui del quale si prende gioco. In ordine a questa promessa, egli rediga una domanda, contenente la formula di professione, nel nome dei santi di cui lì si conservano le reliquie e dell’abate in carica: una domanda scritta di suo pugno, o almeno, nel caso che sia analfabeta, scritta da un altro e da lui contrassegnata e deposta sull’altare».

Su questa linea, ai primi del ‘900 uno studioso ha scovato un esempio di petitio, databile intorno al 670 e per la verità già trasformatasi, appunto, in un contratto. È il Pactum che si trova in fondo alla regola di San Fruttuoso di Braga ed è un vero e proprio accordo tra un insieme di monaci e un abate, con tanto di obbligazioni reciproche («forse il primo e unico esempio di un contratto sociale, in cui un gruppo di uomini si sottopone incondizionatamente all’autorità di un dominus attribuendogli il potere di dirigere in tutti i suoi aspetti la vita della comunità che viene così fondata»).

Ecco, comunità, altro aspetto chiave della questione. Al di là delle sottigliezze giuridiche, resta che la regola rappresenta una messa in discussione della «forma della propria vita», senza identificarsi con la somma delle azioni che la compongono, e ciò avviene, e non può essere diversamente, all’interno di una comunità, poiché – scrive A. rifacendosi a Wittgenstein – «non è possibile seguire una regola in modo privato… riferirsi a una regola implica necessariamente una comunità e un’abitudine». Comunità che non è la conseguenza della regola, bensì la radice. «Se l’ideale di una “vita comune” ha ovviamente un carattere politico», conclude A. la prima parte del volume, «il cenobio è forse il luogo in cui la comunità di vita come tale è rivendicata senza riserve come l’elemento in ogni senso costitutivo.» È il «canone stesso della prassi umana» a essere trasformato nell’esperienza cenobitica, con conseguenze che ancora oggi forse non cogliamo pienamente e che trovano nei francescani – o nel solo Francesco? – piena consapevolezza.

(2-continua)

Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Homo sacer IV, 1), Neri Pozza 2011.

Lascia un commento

Archiviato in Libri, Regole

Giorgio Agamben, Altissima povertà (pt. 1)

La prima cosa da dire è che il saggio di Agamben rappresenta davvero uno sguardo laico sul monachesimo e in particolare sul suo aspetto cruciale, cioè la regola e la comunità che la adotta. Per la ricchezza di fonti e la loro interpretazione, per la cura speciale nella scelta delle citazioni, per l’intenzione e la densità dell’argomentazione è stata una lettura di estremo interesse.

La domanda di partenza è quella che, con mezzi ben più modesti, mi pongo da tanto tempo: che cos’è una regola? È una legge, una norma, un precetto? E che cosa promette chi vi si sottomette, a cosa s’impegna? E ancora: come vi si sottomette? Come in un contratto? La prima parte del volume conduce a districarsi nelle questioni complesse relative alla natura della regola, al suo status giuridico, evidenziando in essa sia una radicale novità rispetto al pensiero normativo precedente, sia una forte ambiguità, che esploderà in tutta la sua potenza nelle controversie medievali.

La novità fondamentale della regola è posta dal ripensamento – pratico e operativo – del rapporto tra azione e norma all’interno di una comunità liberamente formata che si oppone all’anarchia e all’assenza di regole. Quasi fosse una nuova polis, o emergesse dallo «stato di natura», il monastero è il luogo dove la regola – che, per quanto ispirata, è comunque scritta dagli esseri umani – sgorga da una «forma di vita» (quella apostolica) prima ancora che da un principio; il monastero è un luogo dove si sta insieme e dove si vive in un certo modo. Un indizio interessante, ad esempio, si trova nella terminologia dell’habitatio, da cui discende l’abitare, inteso come residenza e stabilità, l’abito come veste uniforme e l’abito come abitudine, modo di vita regolare. (Tra l’altro, nota Agamben, «è solo dopo che il monachesimo ebbe trasformato la veste in un habitus, rendendola indiscernibile da un modo di vita, che la Chiesa (a partire dal concilio di Macon, 581) dà inizio al processo che porterà alla chiara differenziazione tra abito clericale e abito secolare».)

A questo insieme di aspetti, la regola aggiunge la dimensione del tempo. Prima degli uffici, delle fabbriche, del «tempo del mercante» e della rivoluzione industriale, «di rado è stato notato che, quasi quindici secoli prima, il monachesimo aveva realizzato nei suoi cenobi, a fini esclusivamente morali e religiosi, una scansione temporale dell’esistenza dei monaci, il cui rigore non soltanto non aveva precedenti nel mondo classico, ma, nella sua intransigente assolutezza, non è stato forse uguagliato in alcuna istituzione della modernità, nemmeno dalla fabbrica taylorista». Già, perché il tempo del monastero non prevede spazi vuoti e senza nome, intervalli di «tempo libero»; non ci sono interruzioni nella vita del monaco, quale che sia la sua occupazione del momento: la liturgia, la meditazione, il lavoro manuale, la refezione, tutta la sua vita è «santificata» attraverso il tempo (è qui che si può ravvisare la «pretesa totalitaria dell’istituzione monacale»). Oggi siamo abituati – e sfiancati, aggiungo – a considerare la nostra vita come una successione di tempi e orari, ma «non dobbiamo tuttavia dimenticare che è nello horologium vitae cenobitico che tempo e vita sono stati per la prima volta intimamente sovrapposti fino a quasi coincidere». (Da ricordare che l’orologio, l’horolegium, secondo l’etimologia medievale alla connessione delle ore, all’horas legare.)

L’ambiguità deriva allora proprio da questa sovrapposizione integrale: cosa sto facendo in questo momento, vivo o sto seguendo la regola? Seguo la regola o sto semplicemente vivendo? «Una norma che non si riferisce a singoli atti ed eventi, ma all’intera esistenza di un individuo, alla sua forma vivendi, non è più facilmente riconoscibile come diritto, così come una vita che si istituisce nella sua integralità nella forma di una regola non è più veramente vita.» E a riprova di ciò Agamben scova un bella espressione di Stefano di Tournay (canonista del sec. XII) che, parlando dei Granmontani, scrive che il libretto contenente le loro costituzioni «non regula appellatur ab eis, sed vita», non è chiamato da essi regola, bensì vita.

(1-continua)

Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Homo sacer IV, 1), Neri Pozza 2011.

3 commenti

Archiviato in Libri, Regole