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Il sibilo della sofferenza (Isacco di Ninive)

DiscorsiAsceticiNel frattempo ho portato a termine la lettura dei Discorsi ascetici di Isacco di Ninive, della «Prima collezione» s’intende. Mi ha accompagnato per parecchi mesi, frammista ad altre letture, ovviamente, ed è diventata quasi un sottofondo, una discreta musica costante. Può far sorridere, considerando la «musica» non di sottofondo nella quale si è oggi avvolti, ma trovo sia difficile esagerare la «bellezza» di questi testi, soprattutto se affrontati con slancio non «specialistico», così come è altrettanto difficile lodare eccessivamente l’edizione (la sensibilissima traduzione) che li ha resi disponibili al lettore italiano1.

Isacco, nato nella regione corrispondente all’attuale Qatar, brevemente vescovo di Ninive intorno al 680, prima e dopo monaco solitario e cenobita, divenuto cieco forse per l’eccesso di letture, era, secondo una notizia biografica assai più tarda, «mite, dolce e umile, e la sua parola era piena di tenerezza. Non mangiava nulla se non tre pani alla settimana insieme a un po’ di verdure, e non gustava cibi cotti».

Mite, dolce, umile, cieco, pieno di tenerezza – ma non per questo osservatore meno acuto della natura umana e conoscitore dei suoi sentieri; ed è proprio tale combinazione di bontà e lucidità che me l’ha fatto ascoltare così a lungo – è il caso di dirlo – con «incanto» (i suoi scritti, va ricordato, sono trascrizioni da parte dei suoi discepoli di discorsi effettivamente pronunciati). Il perché di questo incanto lo spiega meglio di me il curatore del volume, Sabino Chialà, quando si chiede come è possibile che Isacco parli con tale facilità «all’uomo e alla donna del XXI secolo»: perché «forse la franchezza, la sincerità e dunque l’autenticità di un’esperienza che, essendo profondamente radicata, emerge con parole che attraversano i tempi e gli spazi senza farsene oscurare, giungendo a noi come acqua limpida, appena uscita da quell’unica fonte che è capace di dissetare ogni essere umano». Isacco risponde, illustra, spiega, racconta, mostra, ricorda, avverte, consola, ammonisce, consiglia, incoraggia; Isacco, cioè, capisce e «capisce», senza che la seconda mossa diventi sommaria assoluzione, ma rimanga umana comprensione.

Inutile dire che ho sottolineato molto, nella speranza di memorizzare, o almeno di ritrovare (una nota di merito, in questo senso, all’«Indice dei temi più ricorrenti»). Ad esempio la fine osservazione psicologica che apre il Discorso XXIII: «Ogni realtà sensibile, sia azione sia parola, se non avviene in modo accidentale ma si ripete nel tempo, manifesta un qualcosa che è nascosto dentro». La forza o la debolezza della volontà non va infatti misurata da quello che si compie occasionalmente, dal casuale inciampo, bensì da ciò cui si torna più e più volte, perché «la libertà [della volontà] la si valuta in base alla persistenza di qualcosa». Oppure questa immagine tratta dal Discorso LXII: «La condotta di questo mondo assomiglia alla copiatura dei libri quando la pagina è ancora bianca, e dunque si può aggiungere e togliere ciò che si vuole e quando lo si desidera, mutando così ciò che vi è scritto». Finché non vi si appone il sigillo finale, «il libro della vita» può ancora essere corretto, «il nostro libro è nelle nostre mani». O ancora questa istantanea un po’ cruda, tratta dal Discorso LXIX, che fotografa la persistenza delle passioni: «Esse sono infatti come dei cani presso un macellaio, abituati a leccare il sangue: quando è loro sottratto ciò cui erano abituati, se ne stanno sulla porta abbaiando, fino a che la forza della loro abitudine di un tempo svanisce». E ancora questa breve nota dal Discorso LXXIV: «Non chiunque sia calmo è umile, ma chiunque è umile è anche calmo. Non esiste un umile che non sia modesto, ma di modesti che non sono umili ne troverai molti».

E così via, per oltre settecento pagine. Se tuttavia dovessi scegliere una parola, una sola, a mo’ di stemma, tornerei al Discorso XXVII, nel quale Isacco, tra le altre cose, ragiona su quella che sarà la pena dei «dannati», e dove coglie con poche e semplici parole una verità che mi pare trascenda qualsiasi fede si professi o non si professi nell’al di là o nell’al di qua: «Io dico che anche quanti saranno castigati nella geenna, saranno tormentati dalle piaghe dell’amore. Le piaghe che provengono dall’amore, cioè quelle di quanti sentono di aver mancato nell’amore sono dure e amare! Più dei tormenti che vengono dal timore! La sofferenza che sibila nel cuore perché si è mancato all’amore è più acuta di tutti i tormenti che vi possano essere».

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  1. Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Prima collezione, a cura di S. Chialà, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2021.

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Promemoria (Schedine: Cariboni, Chryssavgis)

CariboniCistercensi Guido Cariboni, I cistercensi. Un ordine monastico nel Medioevo, Carocci 2023.

Un bel ripasso fa sempre bene. Si potrebbe dire della monografia che Guido Cariboni (professore di Storia medievale alla Cattolica di Milano) ha dedicato ai Cistercensi, in particolare alla loro storia dalle origini alla metà del XIII secolo. Non soltanto ripasso, in realtà, perché, oltre a uno sguardo dall’esterno (da non sottovalutare), il volume offre anche l’opportunità di conoscere i risultati della storiografia recente su alcune questioni centrali della storia dell’Ordine. Ad esempio sul rapporto, sulla tensione, tra ideali delle nuove comunità, come proclamati dai testi «ufficiali» (gli Exordia e la Carta caritatis, anzitutto), e la realtà testimoniata dai documenti (i resoconti dei Capitoli, le raccolte di consuetudini e gli atti notarili o disciplinari, tra gli altri); o sulle novità decisive, come il Capitolo degli abati (riusciamo a immaginare, nella seconda metà del XII secolo, un «congresso» anche di trecento abati?), le «visite» (con i viaggi, e gli scambi, che comportavano: nonostante il voto di stabilità, «il viaggio, per altro non proibito da Benedetto, fu forse una delle dimensioni più originali del monachesimo tardoantico e medievale, tanto in Oriente quanto in Occidente»), le relazioni con i vescovi; o ancora sulla gestione economica dei patrimoni fondiari, sull’istituzione e lo statuto dei fratelli conversi o sui rapporti con i laici. E sui rapporti con Roma, naturalmente. E quello di «novità» è un aspetto fondamentale di questa storia, rintracciabile sia nella consapevolezza dei protagonisti, sia nelle osservazioni, spesso critiche, dei testimoni esterni. Un atteggiamento che si tradusse in una sorta di ri-fondazione continua, di rinnovamento ininterrotto in cui «si provò, spesso con successo, ad adattare con forme sempre diverse l’ideale monastico delle origini alle nuove esigenze che l’enorme e progressivo sviluppo dell’ordine comportava». Una grandissima ambizione, quella cistercense, unita a un profondo senso di umiltà condivisa (la carta d’identità di san Bernardo?), un’impresa collettiva tale che «la moderna storiografia comparata sulla vita regolare ha individuato nei cistercensi il primo ordine religioso della storia». Una cosa che non sapevo e che mi ha colpito molto a tal proposito: «Durante il capitolo giornaliero, presso i cistercensi, prima che avvenissero le clamationes, cioè le autoaccuse dei singoli monaci che confessavano le loro colpe, l’abate pronunciava le parole: “Parliamo dell’ordine” (“Loquamur de ordine”)».

AlCuoreDelDeserto John Chryssavgis, Al cuore del deserto. La spiritualità dei padri e delle madri del deserto, traduzione di C. Frescura, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2004.

Una passeggiata nel deserto è sempre salutare. Si potrebbe dire, invece, di questo libro ben congegnato che ci invita ad avvicinarci ai famosi detti dei padri e delle madri del deserto (famosi perché una volta appreso della loro esistenza difficilmente ce ne si può dimenticare) «come a miti», non come stimoli all’imitazione bensì come a fonti di ispirazione. Miti fulminei, «lampi di luce» che attraversano i secoli, incredibilmente concentrati in poche parole, che, come ci ricorda l’autore, ebbero una prima diffusione orale e soltanto in seguito scritta. «Questi anziani del IV secolo», afferma p. Chryssavgis (studioso e professore di teologia australiano), «sono promemoria di verità fondamentali riguardo al nostro mondo e a noi stessi, che tendiamo a dimenticare e che essi traducono per tutte le generazioni attraverso le epoche.» Alcuni brevi profili delle personalità più definite, e delle quali si conservano il maggior numero di detti (Antonio, Arsenio, Poemen – «la quintessenza dei padri del deserto» –, Macario, Mosè, Sincletica), introducono a una serie di capitoli tematici che si sviluppano intorno ai concetti e alle esperienze fondamentali del «deserto», non soltanto inteso come luogo, ma anche come dimensione della vita spirituale, come «passaggio necessario» oggi come allora. E quindi lo spazio («luogo di protesta interiore»), la cella (grande maestra), il combattimento contro i (propri) demoni, il silenzio («un modo di morire, in noi stessi, in presenza degli altri») e il pianto (rivelazione dello «stato di frantumazione» e di vulnerabilità dell’anima), le passioni, il consiglio e il distacco, la solitudine, l’amore, il corpo, la preghiera. Grazie alle numerose citazioni il libro diventa anche un’antologia, formula non nuova ma qui eseguita con perizia e, se così si può dire, con grande sensibilità contemporanea. Lo scopo del deserto, secondo l’autore, al di là di tutte le stranezze, gli estremismi ascetici, le eccentricità, era uno soltanto: imparare ad amare. Come illustra questo splendido detto di Poemem: «Alcuni anziani vennero da abba Poemen e gli chiesero: “Quando vediamo dei fratelli che si addormentano durante gli uffici, dobbiamo svegliarli perché stiano attenti?” Egli disse loro in risposta: “Per parte mia, quando vedo un fratello che si addormenta, metto il suo capo sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».

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«Il sole nella notte», di Bernardo Olivera

SoleNellaNotte Considero salutare, per il mio modesto impegno di comprensione, misurarmi con testi come Il sole nella notte di Bernardo Olivera1. Un testo impegnativo e istruttivo, il cui argomento si estende molto oltre la mia capacità di riferirne (e in fondo anche di accoglierne le premesse). Come infatti recita il sottotitolo, il libro del monaco argentino, abate generale dei Trappisti dal 1990 al 2008, parla di «mistica cristiana ed esperienza monastica», con particolare riferimento alla tradizione di autori e autrici cisterciensi.

Cinque tappe. Anzitutto una ricognizione del «contesto culturale» moderno e post moderno – che si può condividere o no – nel quale si situa il «fatto mistico», poiché se la sua sorgente è eterna e fuori del tempo, la sua esperienza è attuale e costantemente presente, vissuta da persone che non sono estranee al proprio tempo («Tutti gli uomini – ed i monaci e le monache non fanno eccezione – vivono, decidono ed agiscono a partire da un determinato mondo culturale»). Un tempo, questo, caratterizzato dall’autonomia dell’individuo e dal razionalismo «in opposizione ad ogni forma di religione o di fede»; un tempo di relativismo, assolutismo scientifico, «deificazione» dell’io e rifiuto di Dio, che nondimeno manifesta una potente ricomparsa della sete di mistero.

A fronte di questa «sete», secondariamente, emerge in tutta la sua efficacia la lezione della tradizione monastica: «Se noi, dopo oltre nove secoli di storia, ancora ci siamo, è perché i nostri primi Padri e Madri avevano, in gradi diversi»: una capacità di trascendenza sperimentata pienamente; «un notevole dono di riflessione dell’esperienza vissuta»; «una grande abilità nel fissare l’esperienza per iscritto e dare vita a comunità e gruppi depositari dello stesso patrimonio trascendente, teologale e mistico».

In terzo luogo sono necessari alcuni «chiarimenti preliminari». Il mistero, cioè il disegno divino, è una dimensione ineludibile dell’esistenza («Lo stesso essere umano è mistero ed è stato creato per il mistero»). In realtà, da un punto di vista cristiano, è una circostanza multidimensionale, infatti è: eterno, libero, intelligente, amoroso, storico, personale, comunitario, attuale, liturgico, irrevocabile, trascendente, e si illumina nel Cristo. La mistica rappresenta «l’apice di incontro tra l’Essere assoluto e l’uomo». I grandi mistici e le grandi mistiche fanno esperienza del mistero in modo permanente, ma «in forma passeggera e in grado minore» le esperienze mistiche «sono assai più comuni di quanto si possa immaginare»: ogni battezzato vi accede, più o meno consapevolmente. Questa esperienza mistica è «un modo particolare di vivere la fede» e può declinarsi in molte forme: essenziale, sponsale, contemplativa, apostolica, cosmica, interpersonale, ordinaria, casuale.

La quarta tappa (dedicata a Gesù Cristo, «il mistico per eccellenza») e la quinta (che affronta nel dettaglio i vari aspetti dell’esperienza mistica come è stata tramandata dai monaci e dalle monache cisterciensi: Bernardo, Aelredo, Baldovino di Ford, Guglielmo di Saint-Thierry, Beatrice di Nazareth, Hadewijch di Anversa) sono le più lunghe e complesse: è saggio che non ne dica nulla.

Salutare, dicevo. Perché è qui che posso in qualche modo misurare l’efficacia della mia posizione, che sicuramente mi è già capitato di esporre. Io non credo, infatti, nel mistero, e questa affermazione renderebbe del tutto priva di senso la lettura delle pagine di Bernardo Olivera. Sì, d’altra parte questo non significa che io non creda a chi dice di credervi, o di farne esperienza. Cosa sono queste persone: illuse, suggestionate, paralizzate dall’idea del nulla, allucinate, folli? Tutte categorie da usare con estrema cautela, anzi, da non usare affatto (anche senza considerare la finezza di pensiero che si può facilmente rintracciare negli scritti citati).

È lo stesso p. Olivera che mi invita a riflettere, quando dice: «Sarà necessario anche ascoltare la voce degli uomini e delle donne del nostro mondo laico e secolarizzato. È un dato di fatto che molti, che si dichiarano atei o agnostici, cercano Dio, sia pure senza esserne coscienti, nelle esperienze umane più profonde. Ed è precisamente l’esperienza dell’amore [fra l’uomo e la donna] (le parentesi quadre a questa specificazione che l’autore fa dell’amore le ho messe io, che sono laico e secolarizzato) ad avvicinarli all’esperienza religiosa. […] Un’esperienza profondamente umana è potenzialmente un’esperienza religiosa». Mi perdonerà il p. Olivera se gli chiedo di non interpretare il mio rispettoso silenzio davanti a quel sia pure senza esserne coscienti e a quel potenzialmente come un silenzio-assenso.

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  1. Bernardo Olivera, Il sole nella notte. Mistica cristiana ed esperienza monastica, presentazione di S.F. Ordóñez, traduzione a cura delle Trappiste di Valserena, Àncora 2003 (ediz. orig. Sol en la noche, 2001).

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Una persona che sia una (Anselmo Giabbani, «Colloquio monastico», pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

ColloquioMonastico Dopo la prima parte dialogica, a domande e risposte, anche il resto del volume di Anselmo Giabbani1 è ricco di affermazioni decise e spunti molto interessanti, forse anche di più e di sicuro troppi per poter darne conto adeguatamente. Mi soffermo quindi su un brano scelto a mo’ di esempio, scelto tra quelli che più ho sottolineato: il paragrafo 9 del capitolo VI, La vita contemplativa, dedicato alle Attività del monaco.

Il p. camaldolese parte dalla considerazione, tratta dalla Regola di san Benedetto, che il monaco deve lavorare: ma di che «lavoro» si tratta? La storia mostra come nel tempo «i monaci hanno fatto di tutto», smarrendo però talvolta in questo «fare» il senso della propria identità, cioè allontanandosi da quello che è il suo modello unico e immodificabile, il Cristo, la sua vita. Il monaco deve rifarsi all’attività di Gesù («che guarda più all’essere che al fare») e all’«unità del suo esistere e del suo agire, del suo dire e del suo fare; l’unità della sua persona nella duplice natura umana e divina».

Unità è la parola chiave della riflessione del p. Giabbani, e non soltanto in questo paragrafo, unità che discende appunto da Gesù e si estende, all’individuo, all’umanità, alla Chiesa. Concetto difficile se lo si legge nella storia secolare, anche pericoloso; concetto che si può dire sia stato smontato dai fatti spaventosi della modernità, messo in crisi, tra l’altro, dalle scienze psicologiche e dalle arti. Ecco la prima indicazione precisa del p. camaldolese, uomo del XX secolo e consapevole dei pericoli: «Lavorare a questa unità è la prima attività del monaco cristiano: fare di se stesso molteplice e diviso una realtà unica, una persona che sia una, coerente, libera, responsabile, identica a sé in privato e in pubblico, davanti a sé e davanti a Dio».

Ma unità non è autonomia, e tantomeno isolamento, ed ecco la seconda indicazione precisa: «La seconda attività del monaco è formare una comunità. Gli uomini, esseri sociali per natura, traggono enormi vantaggi dall’essere in comunità, ma incontrano anche gravi difficoltà a costruirsi in comunione con gli altri». Questa attività è minacciata dallo sviluppo sociale contemporaneo, in particolare dal combinato industriale-tecnologico, che produce una «schizofrenia generale» ed è all’origine del «male più profondo che affligge l’umanità del nostro tempo: l’incapacità di vivere e lavorare insieme». Di fronte a tale disgregazione, che ognuno può verificare nelle varie forme di «comunità» cui tende, o che sceglie, o in cui si trova inserito (gruppi, classi, uffici, squadre, assemblee, associazioni, quartieri, ecc.), il p. Giabbani ritiene che «una comunità adunata, per nessun interesse umano, ma per il solo desiderio di vivere insieme, si presenta o dovrebbe presentarsi come antidoto di enorme valore sociale, oltre che evangelico».

Nell’adunata monastica, «la cui unica legge è l’amore di Cristo», occorre che il singolo monaco cerchi e trovi il suo posto per quello che è, e non per quello che pretende di essere; occorre che sia conosciuto e accolto per le sue capacità e debolezze. Il p. Giabbani chiama questo complesso di atteggiamenti «disposizione di umiltà eguale a verità», raggiunta la quale l’unica preoccupazione successiva rimane soltanto quella di «contribuire alla comunione fraterna».

L’unità. Non so se sia più raggiungibile, se mai lo è stata. Nella coscienza-bagagliaio ci entra di tutto, e mi pare che valigie, borse, sacchetti, confezioni vuote, ombrelli e vecchi stracci sporchi siano comunque tenuti insieme, praticamente, dal contenitore, in un modo o nell’altro. Quando si viaggia il bagagliaio di necessità, o di norma, è chiuso, lo si apre soltanto quando ci si ferma, in disparte, e ci si guarda dentro sempre da soli, o al massimo in due. L’unità mi pare un miraggio, ma non posso che ammirare chi vi crede e la persegue mettendosi in gioco integralmente, come fanno i monaci auspicati da Anselmo Giabbani.

(2-fine)

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  1. Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.

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Perché debbono esistere i monasteri? (Anselmo Giabbani, «Colloquio monastico», pt. 1/2)

ColloquioMonasticoIncuriosito dalla lettura del suo libro su «vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo» (L’eremo), ho cercato di leggere qualcos’altro della non estesa bibliografia del p. camaldolese Anselmo Giabbani. Così, ho recuperato Colloquio monastico1, pubblicato nel 1983, quasi quarant’anni dopo L’eremo. Il «colloquio» che compare nel titolo fa riferimento all’intenzione dell’autore di fare il punto sulle «questioni riguardanti la vita monastica» procedendo, almeno in un primo momento, seguendo il metodo delle domande e risposte, «al fine di ricavare il più possibile di chiarezza».

Senza dimenticare che nel frattempo sono passati altri quarant’anni, la lettura del piccolo volume è di grande interesse, e, pur nella concisione, o proprio grazie a essa, le «risposte» del p. Giabbani forse attingono a una dimensione diciamo così sovratemporale. Chi sono i monaci? Che cosa è proprio del monachesimo? E del monachesimo cristiano? Quali sono i cosiddetti valori monastici? Ma esiste una formazione monastica? Il dialogo è serrato, le risposte sono brevi e precise, ma palesemente non dogmatiche, piuttosto frutto del connubio di meditazione ed esperienza che è una delle «specialità» del monachesimo di tutti i tempi (nemmeno gli scienziati, mi pare, hanno riflettuto sulla propria «professione» mentre la esercitavano quanto i monaci; forse gli psicoanalisti, ma con molti meno… secoli di tradizione). Una prima fase del dialogo si conclude con questa domanda e con la relativa risposta: «Perché debbono esistere i monasteri? Non è che debbono esistere a priori; ma esistono perché all’interno della coscienza di alcuni credenti sboccia e s’impone un movimento interiore che richiede di essere sviluppato in un ambiente composto da altri fratelli, presi dallo stesso desiderio. Se questo desiderio non c’è, è giusto che gli ambienti servano ad altri scopi».

Il discorso non si limita, tuttavia, agli aspetti più generali, ma si addentra anche per così dire nell’attualità, e d’altra parte, se si considera l’attività del p. Giabbani tra le persone e le questioni del suo tempo, non poteva essere diversamente. E dunque, quali sono le «esigenze dell’uomo d’oggi» cui il monachesimo può rispondere direttamente o per le quali rappresentare indirettamente una via? Anzitutto il bisogno di unità della persona: l’esperienza di lacerazione, o anche soltanto, divisione interiore tra tentazioni, interessi, «divinità» terrene «è alla base del cammino monastico». In secondo luogo il bisogno di libertà, che dalle circostanze e dai modi della «civiltà moderna» è tanto proclamato quanto in realtà soffocato. L’aspirazione all’amore universale, come si può concretamente attuare «in persone libere che possono mediare senza interessi di alcun genere; in comunità accoglienti, capaci di trasformare la loro presenza in testimonianza evangelica». Infine, un po’ a sorpresa, nientemeno che l’amore di sé, inteso come crescita umana e cristiana: «Gli ostacoli che potrebbero venire contro una simile crescita, umile e disciplinata, non possono essere di origine evangelica», quindi non possono essere monastici.

La mia ammirazione di miscredente va, tra le altre cose, alla precisione delle formule, ad esempio a quell’inciso «umile e disciplinata». L’umiltà, infatti, aggiunge poco oltre il p. Giabbani, «è la verità ontologica, che porta a riconoscersi per quello che si è, e non per quello che pretendiamo di essere», è la verità morale, quindi di comportamento, ed è anche «la verità logica, che ci richiama all’oggettività dei fatti e del pensiero, a esprimere con sincerità quel che si pensa, evitando intrighi e doppiezza». Non oso, non sono in grado, di parlare di verità, ma come negare la sensazione di pulizia che provo davanti a queste parole (che soltanto parole, nel caso specifico, non sono)? Certo, il monachesimo è «verace ricerca di Dio»2, ma ignorerò per questo la bellezza del metodo?

(1-segue)

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  1. Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.
  2. «Cosa si può rispondere a un giovane che vuol farsi monaco? […] Si dichiari apertamente che l’impegno supremo del monaco è la verace ricerca di Dio non sulle vie del sentimento e neppure sulle vie della dialettica, anche se è bene e proficuo conoscere, ma sulle vie che Dio stesso ha percorso per venire verso l’uomo, per cercarlo, per farsi capire dall’uomo, fino a farsi uomo lui stesso.»

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Tre giorni, tre anni (Schedine: Diat; Buyse)

TroisJours Trois jours et trois nuits. Le grand voyage des écrivains à l’abbaye de Lagrasse, préface de N. Diat, postface du père Emmanuel-Marie Le Fébure du Bus, Librairie Arthème Fayard / Pluriel 2021. «Dopo le recenti esperienze di confinamento, negli anni a venire forse proprio il chiostro sarà il nostro destino globale, se i viaggi e la mobilità saranno sempre più limitati da nuove pandemie o dalla paura di un aggravamento ulteriore della crisi climatica. Le piccole società monastiche, sobrie e autosufficienti, sarebbero quindi una prefigurazione del nostro futuro: quanto di più arcaico diventerebbe quanto mai attuale.» Così Pascal Bruckner riassume le sue riflessioni nel testo che apre il libro. Libro raccoglie i testi che quindici narratori, giornalisti, intellettuali francesi, «orchestrati» da Nicolas Diat, hanno scritto dopo aver passato il breve soggiorno indicato dal titolo presso i canonici agostiniani dell’abbazia di Lagrasse, più o meno a metà strada tra Narbonne e Carcassonne («Un projet un peu fou», dice con un sorriso l’abate firmando la postfazione). Più che l’abbazia, di origini carolinge e riportata a nuova vita a partire dal 2004, e la sua comunità di oltre quaranta monaci, a riempire le pagine del volume sono le considerazioni degli scrittori invitati (che hanno offerto il loro compenso per il proseguimento dei lavori di restauro) sugli ambienti, gli orari, il tempo, la tavola, la magnifica liturgia gregoriana e così via. Personalità molto diverse, forse meno attente a osservare e ad ascoltare che a scrutare le proprie reazioni, che, va da sé, possono essere più interessanti o meno interessanti. Sorprende, forse, la sorpresa di quasi tutti di fronte al senso di straordinaria fraternità che la comunità trasmette, anche al passante frettoloso. Va anche detto che tre giorni e tre notti sono davvero pochini…

DioDiverso Raphaël Buyse, Un dio diverso, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2019 (trad. di Autrement, Dieu, 2019). L’autore, sacerdote, di questo piccolo libro ispirato («Ci sono libri che si divorano e altri che si assaporano lentamente. Un Dio diverso appartiene a entrambe le categorie», dice Enzo Bianchi) di giorni in un monastero (benedettino, belga) ne ha passati molti di più (tre anni) e così introduce il suo «resoconto»: «Quei pochi mesi passati al monastero di Clerlande mi hanno attirato in una strettoia. Hanno bruscamente interrotto il cammino che stavo facendo senza problemi da quasi sessant’anni. Più nulla è come prima. Né quello che sono, né quello che vorrei essere. E neanche quello che faccio. Quei pochi mesi di esperienza monastica hanno cambiato il corso della mia vita». Dopo anni di attività intensissima, la prolungata sosta presso una comunità di individui liberati da qualsiasi ambizione se non quella della ricerca di Dio («solidali, ma non intruppati») ha regalato a p. Buyse una prima scoperta: se interrogato direttamente, Dio tace («il suo silenzio mi ha mondato, purificato, disincrostato, strigliato, risciacquato, depurato. Mi ha cambiato, convertito, riformato e rifatto»). Prima scoperta sconvolgente e liberante, che lo ha portato a una seconda, altrettanto decisiva scoperta: «Senza tante chiacchiere, senza preconcetti ideologici e senza arroganza quei vecchi benedettini mi hanno rivelato quello che cercavano vivendo in quel luogo: l’unificazione profonda della persona». Ecco la vera scuola del monastero: l’essere umano, l’umanità («bisogna semplicemente credere nell’uomo. Nell’uomo amato da Dio»). E la comunità monastica diventa una specie di classe che accoglie scolari di tutte le età e provenienze, dove si studia, si mangia, si lavora, si prova in carne e ossa, insieme e con strumenti antichissimi, a contrastare la scissione che ci affligge, a inseguire giorno per giorno il desiderio di unità. Il Dio che parla, un Dio diverso appunto, non è altrove. «Ho compreso», scrive p. Buyse «che non c’è nulla da cercare altrove che nella profondità del quotidiano. […] Nella fragilità e nella grandezza del quotidiano si nasconde una profondità che ha il sapore dell’eternità: nell’uomo c’è qualcosa di più grande di lui. In questo io credo.» Eh, qualcosa

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Dove l’eccezione sia la regola («L’eremo» di Anselmo Giabbani, pt. 2/2)

Eremo Giabbani (la prima parte è qui)

È facile associare il concetto di discrezione a quello di eccezione, soprattutto quando si parla di regole, che vanno aggiornate, interpretate, riviste alla luce dei tempi che cambiano. A parte il fatto che la discrezione monastica, che viene esercitata dalle persone che mettono in atto la regola, va per così dire in entrambi i sensi, sia quello di un certo alleggerimento, sia quello di un maggior rigore, nelle pagine del p. Anselmo Giabbani1 la discrezione non ha a che fare con la fiacchezza, bensì essenzialmente con la libertà.

Se negli «ambienti di vita cenobitica» può circolare anche un vero e proprio preconcetto nei confronti dell’eccezione, e la «struttura» nel suo complesso («la regolarità, gli uffici, il pericolo di attirare l’attenzione altrui, ecc.») può in qualche misura trasformarsi in una limitazione della «perfetta libertà» che è il terreno dell’incontro con il Cristo, «nella patria dello spirito, l’eremo», scrive il monaco camaldolese, «questa libertà dev’essere assoluta, altrimenti la vita eremitica perderebbe la sua ragione d’essere. Dovunque ci si può santificare, specialmente nel monastero, ma avere la possibilità di seguire completamente e con tutta libertà le attrazioni dell’amor divino e darsi totalmente alla preghiera e alla mortificazione, questo si può nell’eremo soltanto. Perché la vita monastico-eremitica studia il rispetto dell’individuo, di cui vuole salvata e arricchita la personalità. L’“anima” infatti di questa concezione di vita è la “discrezione”, ossia la legge della diversità delle anime, riconosciuta qui e attuata pienamente nel campo spirituale.» (Il corsivo è dell’autore.)

Già, le anime sono tutte diverse, e pertanto gli individui: «Dio non copia. A lui si deve l’ineguaglianza delle anime». È singolare questo percorso che pare unire la solitudine estrema alla piena manifestazione della propria individualità; un concetto singolare, perché a lasciarlo risuonare emergono molte consonanze e altrettante disarmonie con altre «regioni» del pensiero monastico, in primis il contrasto tra l’annullamento di sé e lo sviluppo del proprio potenziale spirituale. D’altra parte non si può dire che il monachesimo sia mai stato, e sia, un blocco di granito senza differenze e particolarità.

Occorre anche ricordare che la vita dell’eremita, quello camaldolese nello specifico, era resa possibile nella sua sussistenza da una comunità «di sostegno», composta dunque da persone che rinunciavano a una piena libertà? Che perseguivano una libertà vicaria? O che seguivano un’altra strada di salvazione?

Non è difficile estendere per analogia tali domande e la questione al campo laico (è un mio difetto tipico, ma è anche il modo di dialogare con un po’ di vitalità). In tale campo non si darebbe quindi una «situazione» di piena manifestazione della propria individualità paragonabile a questa visione dell’eremo? Poiché quale discrezione si potrebbe applicare alle «regole» del vivere sociale? L’abuso dell’eccezione (ideologica e pratica: «Ma non si può fare un’eccezione?») non è forse una vera malattia della socialità? Ci si limiterà quindi a quei comportamenti che non rientrano nella sfera del diritto? Ma come distinguere? Ci si contenterà, per certi casi, di soddisfazioni vicarie? Si cercherà nel tempo di spostare i limiti di tale sfera, basandosi su quella manovra concettuale che è l’«io sono fatto così», tanto attraente in astratto quanto potenzialmente ambiguissima nella pratica? O confidando nel processo della razionalità collettiva? Io confido.

E non resisto alla tentazione di leggere la seguente conclusione del p. Giabbani cedendo ancora al demone dell’analogia (il corsivo è sempre suo): «In un ambiente strettamente cenobitico, dove la “regola comune” ha lo scopo di “formare”, l’eccezione non ci dev’essere, e se c’è, si chiama per l’appunto “eccezione”; ma gli uomini formano tutti un’eccezione l’uno in confronto all’altro quando hanno raggiunto una certa personalità spirituale, e dovranno allora avere un ambiente e una possibilità di movimento dove l’eccezione sia la regola, o rientri perfettamente nella regola.

«Nello stato monastico tale ambiente è l’eremo.»

(2-fine)

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Anselmo Giabbani o.s.b., monaco eremita camaldolese, L’eremo. Vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo, Morcelliana 1945.

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Le tendenze sregolate della nostra natura («L’eremo» di Anselmo Giabbani, pt. 1/2)

Eremo Giabbani La combinazione di libro vecchio e argomento monastico esercita su di me un’attrazione irresistibile, anche quando il testo porta inevitabilmente i segni del tempo in cui è stato scritto. È il caso in questi giorni del volume L’eremo del camaldolese Anselmo Giabbani1, che ho lungamente inseguito, infine trovato e quindi letto, con grande soddisfazione. Tra l’altro, avevo dimenticato di aver già incontrato la singolare figura del suo autore. Nato nel 1908 a Pratovecchio (provincia di Arezzo), che dista una ventina di chilometri da Camaldoli, e morto 96 anni dopo proprio a Camaldoli, dove era entrato come novizio a 15 anni; priore di Fonte Avellana dal 1938, quindi priore generale dei camaldolesi nel travagliato decennio dal 1951 al 1963; insieme con Benedetto Calati studioso delle fonti camaldolesi e attivo nell’opera di rinnovamento degli statuti e dei regolamenti dell’ordine, nonché padre conciliare durante la prima sessione del Vaticano II; il p. Giabbani è stato una figura di spicco della congregazione, e non solo: dal 1952 alla di lei morte nel 1990, è stato il direttore spirituale di Julia Crotta, cioè di suor Nazarena, ed è in questo ruolo che l’avevo incontrato nel libro che Emanuela Ghini ha dedicato alla ora assai nota reclusa camaldolese del monastero di Sant’Antonio sull’Aventino2.

Il libro andrebbe letto oggi nel contesto più ampio degli anni di guerra in cui è stato portato a termine, e in quello della storia della congregazione camaldolese, tutt’altro che impermeabile alle vicende che si svolgevano al suo esterno, cosa di cui non sono capace. L’ho letto per quello che dice, che è poi in fondo ciò che più o meno faccio sempre (e aggiungerei anche per come lo dice, poiché imbattersi negli imperocché, negli eppoi, nelle spalle indolite, nell’affarraggine, nei bercioni, nel girottolare e nello scapricciare fa parte di quell’attrazione di cui sopra).

E quello che dice, componendo un vasto insieme di citazioni dalle testimonianze della vita di san Romualdo, dalle Costituzioni di san Rodolfo e dalle opere fiammeggianti di san Pier Damiani («Pier Damiano» per l’autore), è che «al centro della concezione monastico-eremitica sta l’eremo», cui dopo l’esperienza cenobitica si deve tendere «come a un gradino superiore in linea della perfezione monastica e religiosa». L’eremo, come immaginato e vissuto da Romualdo e dai suoi primi successori, l’eremo camaldolese, dunque, che in un certo senso sgorga dal cenobio, «assicura la perfetta libertà dell’individuo» allo scopo di perseguire in terra, al massimo grado possibile, l’unione divina. «Nell’eremo non si strascica il giogo del Signore, non ci si rammollisce nelle posizioni acquisite, ma o si corre con esultanza o si scappa. La delizia e l’entusiasmo sono condizioni indispensabili in questa vita che richiede spesso una forza sovrumana e lo sforzo reiterato di ogni giorno.»

Dalle parole del p. Giabbani, che oggi nessuno forse si sentirebbe di far sue, traspare la considerazione della posizione preminente dell’eremo nel cammino verso la più alta contemplazione («A questa condizione [della sua finalità] l’uno e l’altro – l’eremita e l’eremo – trovano il loro posto di superiorità assoluta nel quadro del Monachismo e della società cristiana»). E traspare anche una visione penitenziale che oggi mi pare squalificata, nei testi se non, come si spera, anche nei fatti. Nell’eremo si distrugge, letteralmente, per ricostruire, e lo si fa tramite la mortificazione: «Il desiderio della libertà e della vita gli fa [all’eremita] prendere di mira il mezzo indispensabile all’espandersi di queste nell’anima cristiana: la rinunzia, la morte. La morte di ogni atto peccaminoso, la morte alle tendenze sregolate della nostra natura, la morte ai germi del peccato». Così, ascesi, nel vitto, nel riposo, nell’abbigliamento («Nelle celle non si fa uso di scarpe né di calze»), nella preghiera, nell’autoflagellazione, nel desiderio di patire: «Penitenza, dunque, vuole l’eremo e l’eremita. Non per un principio stoicizzante o per tendenze patologiche lontanissime dallo spirito eremitico; ma solo e unicamente per la fede nella parola di Gesù e la partecipazione unitaria alle sofferenze».

Un terreno estremamente accidentato e impraticabile, oggi, del quale si direbbe che anche il p. Giabbani fosse già allora consapevole, tanto da fare seguire alle pagine sulla mortificazione un vero e proprio inno alla discrezione, «idea madre della concezione monastico-eremitica»: «Se l’austero eremita Pier Damiano credé opportuno accondiscendere tanto all’umana debolezza, nessuna meraviglia che oggi, dopo nove secoli di osservanza eremitica, si trovino nell’eremo maggiori indulgenze introdotte dalla legittima autorità. Il necessario è che siano salvi i principi del vivere eremitico, senza dei quali l’eremo avrebbe un valore puramente archeologico; mentre con la “discrezione” è possibile conservare il carattere della vita eremitica e venire incontro alla fiacchezza umana».

(1-segue)

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  1. Anselmo Giabbani o.s.b., monaco eremita camaldolese, L’eremo. Vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo, Morcelliana 1945. Degna di menzione la «Nota del tipografo», a p. XVIII, in cui si ricorda che «per ben 18 mesi, dal novembre 1943 all’aprile 1945, il lavoro di P. Giabbani è rimasto nella nostra tipografia: e vi abbiamo lavorato anche durante i bombardamenti con interruzioni continue e corse alle cantine di rifugio. All’arrivo del fronte di guerra a Fabriano, i tedeschi irruppero anche nella tipografia Gentile, distrussero i macchinari in vista, buttarono tutto sossopra, rovesciarono per le scale e i magazzini i quadri di composizione in cui era buona parte di questo volume. All’impazzimento di ricerca dei singoli caratteri rimasti decimati si aggiunse la mancanza di energia elettrica e la difficoltà di inviare le bozze all’Autore dovute all’interruzione delle strade ecc., cosicché qualche sedicesimo lo passammo alla stampa senza accurata revisione».
  2. Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Piemme 1993; ora Itaca 2019.

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Ciò da cui tutto il resto dipende (Schiacciare l’anima, pt. 5/5)

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(la quarta parte è qui)

«Resta da affrontare una questione dolorosa e difficile.» È lo stesso dom Dysmas de Lassus a introdurre così gli ultimi capitoli del suo libro1, quelli che affrontano le questioni più spinose dell’accompagnamento spirituale e delle sue distorsioni in abuso spirituale e sessuale. Com’è possibile, si chiede il priore, che proprio all’interno di comunità votate alla libertà, alla gioia di una scelta e all’amore sorgano situazioni di tale violenza da produrre danni psicologici quasi irreparabili, se non da mettere in pericolo la vita stessa di alcuni loro membri?

Nella mia posizione, nemmeno di osservatore, bensì di mero lettore di tali situazioni («È molto difficile per una persona esterna a una comunità capire cosa avviene all’interno») sono tentato di limitarmi a una serie di citazioni e di rimandare alla lettura diretta delle parole di d. Dysmas, alla sua sofferta ma non per questo meno lucida riflessione sul dramma delle vittime di questi abusi. Perché sono le vittime che devono essere messe al centro: «È necessario un vero cammino di conversione e bisogna aspettarsi che sia impervio. Conversione vuol dire capovolgimento, un capovolgimento del modo di considerare le vittime, viste non più come una minaccia, ma come persone che hanno sofferto per colpa di membri dell’istituto o dell’istituto stesso».

Alcuni punti trattati dal priore possono essere tuttavia riassunti, anche per mettere in prospettiva circostanze e testi famosi della tradizione monastica. Ad esempio il problema dell’affidabilità della guida spirituale, che d. Dysmas definisce «questione terribile» (una forma di rapporto, l’accompagnamento spirituale, pressoché scomparsa al di fuori di situazioni assai ristrette e di cui, forse, anche certi laici sentono la mancanza). Quante pagine ho letto sulla necessità di affidarsi senza remore né reticenze al proprio padre o madre spirituale, quante sull’annullamento della propria volontà, quante sulla totale apertura del cuore e della coscienza, sulla cieca obbedienza, e così via. Il punto qui è l’importanza di spostare l’accento, di estenderlo, dall’accompagnato all’accompagnatore: chi è costui o costei? È capace di reale discernimento? È capace di essere «attento, privo di curiosità indiscreta, disponibile senza pressione»? È capace di rispettare la libertà di chi gli si affida? «Il punto di partenza di una vocazione, ciò da cui tutto il resto dipende, è una relazione intima tra Cristo e il candidato, una relazione nella quale nessuno può intervenire, perché la libertà deve essere totale.»

E ancora, l’importanza di rispettare, e favorire, la dimensione umana dell’esperienza monastica. Il Verbo si è fatto carne e non angelo, ricorda il priore, e la sequela di Cristo si basa sull’incarnazione, quindi il disprezzo dell’umano non può essere al centro della vita del monaco: «Parlare di vita angelica in relazione alla vita religiosa sembra dunque come minimo inappropriato» («Tanto più che noi non conosciamo nulla della vita angelica»). I monaci, i futuri monaci, sono quindi uomini e donne che non devono distruggere la propria natura, che non devono essere invitati a farlo, anche e soprattutto in nome dell’obbedienza, che non può riguardare mai la vita spirituale: «Questo permette di stabilire un principio fondamentale che non ammette eccezioni: nessuna persona ha autorità sulla coscienza di un’altra, perché se la pretendesse entrerebbe in concorrenza con Dio». E ciò conduce a un’altra delicatissima questione (sulla quale, come materialista intenzionato a capire, mi accanisco senza successo), quella della volontà di Dio. Un concetto su cui, avverte d. Dysmas, non bisogna insistere troppo, pena la «confusione pressoché certa tra la volontà del superiore e la volontà di Dio». Oltre a rendere pericolosamente infantili, il richiamo costante e puntiglioso alla volontà di Dio uccide la libertà e la responsabilità: «Il cuore dell’abuso è situato qui: la volontà di Dio su di te ti viene dall’esterno e tu devi sottometterti a tutto ciò che ti è chiesto, come un bambino».

Come dicevo, la tentazione di moltiplicare le citazioni è forte. Mi fermo qui, consapevole che ci sarebbe ancora molto da dire. In conclusione? La conclusione, per quello che posso dire io, è questo stesso libro, la sua esistenza. E trovo di grande rilievo il fatto che lo abbia scritto il priore generale dei Certosini, di quella istituzione che di sé dice «nunquam reformata quia nunquam deformata», cioè «mai riformata poiché mai deformata», affrontando della forma di vita religiosa tutte le possibili deformazioni. Senza esitazioni.

(5-fine)

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  1. Dysmas de Lassus, Risques et dérives de la vie religieuse, préface di Mgr José Rodriguez Carballo, Les Editions du Cerf 2020; trad. ital. di G. Lamieri, E. Antoniazzi e T. Testoni, Schiacciare l’anima. Gli abusi spirituali nella vita religiosa, EDB 2021.

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Un camion di mele (Schiacciare l’anima, pt. 4/5)

F4_le lassus_mini 2av.indd(la terza parte è qui)

«La vita religiosa, se è fervente, assomiglia molto a un sentiero di montagna. Molti errori vengono da un eccesso di zelo, insieme a una mancanza di discernimento. Per far procedere più in fretta i novizi talvolta ci si spinge nelle pratiche tradizionali al di là di quanto sia ragionevole, come se si volesse aiutare una pianta a crescere tirandola su per le foglie.» Con queste parole d. Dysmas de Lassus introduce il capitolo dedicato all’ascesi e alla rinuncia e alle loro pericolose deformazioni, pratiche e concettuali. È un capitolo, ai miei occhi, di grande rilievo e di grande equilibrio: l’equilibrio, anzi, gli equilibri di cui è fatta secondo il priore certosino la vita spirituale cristiana, sospesa com’è «tra due abissi, il nostro essere creature tolte dal nulla e l’infinito di Dio che ci attira a lui».

Stante lo scopo della sua ricerca, il priore si concentra maggiormente sul primo orlo dell’abisso, ribadendo anzitutto che non si può parlare di amore se non ci si considera capaci e anche degni di amore. L’umiltà è virtù centrale della vita monastica, ma non va spinta imprudentemente verso il totale annientamento di sé. «Noi non siamo nel vuoto», dice il priore, e aggiunge: «La creatura è stata tirata fuori dal nulla, esiste e quindi non appartiene al nulla». Una sana stima di sé, temperata quanto si vuole dalla consapevolezza della propria imperfezione (e qui si ci si può anche trattenere in ambito soltanto «umano»), è necessaria per un cammino di amore, di offerta, di rinuncia, e così via: «Se non sono nulla, la mia vita non ha senso». La precisazione del priore è fondamentale e mette in prospettiva pagine e pagine (di sottile fascino nichilista) spese sul totale oblio di sé: «Dire che noi non siamo nulla da noi stessi non vuol dire che non siamo nulla punto e basta. Un’insistenza unilaterale su quest’ultima espressione porta inevitabilmente a delle catastrofi, sia psicologiche che spirituali». (Catastrofi, come le si possa affrontare senza l’«appiglio» trascendente è forse il punto cruciale del «sentimento tragico della vita», la radice del «nostro bisogno di consolazione»?)

È importante tenere separata l’umiliazione dal risentimento, dall’amarezza, dal disprezzo patologico di sé, senza contare che, per essere chiari, «la vita ci offre sufficienti occasioni di essere umiliati, per cui è inutile e piuttosto pericoloso volerle provocare». D. de Lassus cita un anziano monaco di Montserrat che diceva a un novizio: «Non vale la pena di cercare le croci, il Signore le porta a domicilio», e, aggiornando, aggiunge: «Non è nemmeno necessario ordinarle!»

Anche la rinuncia va affrontata con attenzione e senza estremismi («Le penitenze di un eremita non sono di esempio per una comunità»), e ricordando sempre che si rinuncia a qualcosa per qualcos’altro, a un bene per un bene più grande. La spogliazione di sé, cercata o imposta, senza «un io ben stabile e solido», può portare alla totale aridità, all’angoscia del vuoto, a quello che il priore arriva a definire un «assassinio psichico».

La rinuncia consiste essenzialmente nell’eliminare l’inutile per fare posto al veramente utile – come quando si vuota un armadio di ciò che si è accumulato senza pensarci –, o ancora, più esattamente per il monaco, dire no «all’io più superficiale», dire sì alle piccole cose che si presentano ogni giorno per dimostrare a Dio il proprio indiviso amore.

«La vita offre costanti occasioni di rinuncia», conclude il priore, «inutile fabbricarne di nuove.» E, pensando ai novizi, a quelli di oggi in particolare, aggiunge che «la vera formazione consisterà nell’insegnare a sopportare con amore tutte le piccole rinunce della vita quotidiana: il vicino che canta male, il lavoro che mi dispiace, la levata del mattino, una parola non troppo gradevole, il tempo uggioso da una settimana, le mele che si mangiano da sei mesi perché ce ne hanno regalato un camion…»

(4-segue)

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