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Una persona che si ricorda (Definizioni, 1; l’abate)

Ho deciso di raccogliere – forse un po’ tardivamente, va detto – le definizioni che i monaci e le monache di tutti i tempi hanno dato e danno di se stessi: chi è un monaco, una monaca? Chi è un abate, una badessa? Cos’è un monastero? Cos’è il monachesimo? «Definizioni», quindi, tratte dagli scritti di chi, prima ancora di definire, ha cercato e cerca di essere un determinato individuo, inserito in una determinata tradizione (e in una comunità), con un determinato obiettivo complessivo di vita. Definizioni, e conseguenze di, riflessioni su, problemi di tali definizioni. La radicalità insita in quella scelta, di senso così contrario al cosiddetto spirito del tempo (ammesso che esista), che può essere, da qualsiasi punto di vista la si riguardi, utile a un tentativo di chiarezza interiore.

Comincio con un passo del commento alla Regola del monaco benedettino belga Benoît Standaert, un passo dedicato alla figura dell’abate, come viene descritta nel capitolo 2 della Regola, in particolare a paragrafi 30-32: «L’abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato…»1

Dice dunque Standaert: «L’abate è una persona che si ricorda, sempre. Ha una memoria tutt’altro che corta e debole, si ricorda e sa bene dove tutto questo lo potrà condurre. Un uomo senza memoria è un uomo senza futuro. Chi si ricorda bene, conosce già ora qual è la meta cui giungere. L’esigenza cresce proporzionalmente alla quantità delle responsabilità che si ricevono. Non è dunque ammessa la leggerezza, ma piuttosto un senso acuto della resposabilità che qui viene inculcata. Il compito è ridefinito in quello di “dirigere le anime” e “porsi al servizio dei temperamenti di molti”. Sono espressioni forti che attraverseranno i secoli nella definizione dell’autorità abbaziale. Tocca all’abate sapersi adattare incessantemente a ciascuno»2.

Commentare un commento è imprudente, e tuttavia c’è forse un’indicazione preziosa in quella memoria e in quell’adattamento incessanti che sono rivolti non tanto a istanze generiche, a ideali sovrapersonali, globali, planetari, bensì a un gruppo circoscritto di persone, che può anche essere molto piccolo se non addirittura minimo, e alla sua storia. Persone la cui appartenenza a tale gruppo non è frutto del destino (Danger! Keep out!) o del caso, ma di una scelta, condivisa, e che viene prima delle differenze individuali.

E all’abate, viene da chiedersi, chi si adatterà? Chi si porrà al servizio del suo, di temperamento? Ma questo è lo spirito laico che domanda… perché san Benedetto invocherebbe un’altra pratica incessante: la reciprocità («I monaci… si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore», RB, 72, 4).

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  1. San Benedetto, Regola, 2: «30L’abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più. 31Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei temperamenti di molti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo: 32perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l’incremento del numero dei buoni».
  2. Benoît Standaert, Commentario alla Regola del nostro padre san Benedetto, a cura di fr. A. Oltolina, traduzione di M.M.E. Pedrone, vol. 1, Edizioni Monasterium 2021, pagg. 78-79.

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Una siepe (Dice il monaco, LXXIX)

Dice Benoît Standaert, osb, nel 2017, commentando il capitolo 37 della Regola di san Benedetto, dedicato ai vecchi e ai fanciulli:

L’ascesi monastica, senza la pia consideratio, perde l’essenziale: la carità e l’umanità. Sta al monaco diventare sempre più umano mediante la tradizione e la Regola. Non perdiamo di vista questo aspetto. Niente è sicuro su questo punto e a volte siamo testimoni in certi fratelli di una sorta di miopia, che conduce ad atteggiamenti meschini o addirittura a comportamenti davvero disumani, che si nascondono dietro l’autorità della regola monastica. La natura umana trova nella Regola un supporto, i rabbini direbbero che essa pone «una siepe» di protezione. A volte, infatti, la cosa più naturale, la più evidente per la natura umana, si oscura o svanisce dietro la routine degli usi monastici e allora è importante avere una misura di tutela, che è il documento di una regola periodicamente rivisitata, attualizzata e interiorizzata.

♦ Benoît Standaert, Commentario alla Regola del nostro padre san Benedetto, a cura di fr. A. Oltolina, traduzione di M.M.E. Pedrone, vol. 2, Edizioni Monasterium 2021, pagg. 90-91.

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Possibilità (Schedine: Baral e Corsani; Standaert)

Sabina Baral e Alberto Corsani, Credenti in bilico. La fede di fronte alle fratture dell’esistenza, Claudiana 2020. Non di interesse direttamente monastico, ma molto interessante, poiché forse con una punta di pervicacia penso che oggi la domanda sia: «Com’è possibile credere?», e non più: «Com’è possibile non credere?». Gli autori, di confessione protestante, hanno interrogato nove figure di intellettuali assai diverse (psicanalisti, teologi, pedagogisti, artisti, scrittori, poeti, pastori…) sull’argomento espresso con precisione dal sottotitolo. Non sono stato scosso, se così si può dire, nelle mie convinzioni, perché posso ascoltare l’uomo («Non crediamo in un’idea o in un concetto astratto, ma in una persona che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita”. Un uomo, non una citazione dotta», Bruno Forte), ma non posso credere che quest’uomo sia risorto; perché penso che la promozione e lo sviluppo della fraternità non abbiano bisogno di fondamenti trascendenti; perché non penso che la famigerata «domanda sul senso» sia proficua, e così via. Nondimeno ho letto con grande interesse i dubbi espressi senza tanti giri di parole da questa schiera di, a vario titolo, credenti. In particolare quelli che si trovano nel sofferto intervento del pastore Gianni Genre, che esordisce con queste parole sorprendenti: «A livello personale, ho sempre avvertito l’incredulità [da distinguere dall’ateismo] come una continua minaccia, ma anche come un lusso che non mi potevo permettere… Avrei voluto – e a volte ancora vorrei – arrendermi alla suggestione che Dio non abbia alcuna voce in capitolo in ciò che succede attorno a me». Ed ecco la sua risposta alla domanda di cui sopra: «Ciò che io posso provare a definire fede mi salva dall’assurdo. L’assurdo, per me è pensare di potere credere. Pensare che la fede sia qualcosa che posso. Insomma, non c’è nessuna scelta, nessuna mia libera volontà, nessun lontano frammento di libero arbitrio».

Benoît Standaert, Diario dell’umiltà, traduzione di G. Romagnoli, Queriniana 2020Monaco benedettino dell’abbazia di Saint-André a Zevenkerken, nelle Fiandre, d. Standaert è diarista di lunga esperienza e ha deciso di pubblicare qui uno dei suoi diari, esteso dall’agosto del 2007 (quando aveva 62 anni) al 2017, dedicato appunto alla teoria e alla pratica dell’umiltà, «senza dubbio il regalo più prezioso e segreto della tradizione cristiana rispetto a tutte le altre tradizioni». Riflessioni, ricordi, racconti, citazioni e appunti, talvolta anche sin troppo stringati, di una continua ricerca, prima ancora che della virtù «centrale della nostra ricerca monastica», della sua possibilità; di un reiterato tentativo di acquisire quello «svuotamento», che rappresenta uno dei concetti più imprescrutabili della fede cristiana – imprescrutabili se riferiti a Dio, poiché di esperienza quotidiana si tratta se riferito agli esseri umani: «Vivere “alla maniera di Dio” significa vivere nascosto. Sempre di più. Senza retorica, senza enfasi. Basta la sola kenosi. Quella di Dio in Cristo e di Cristo in noi. E di noi in tutto». Ciò nonostante, pure in questo nascondimento abbassamento svuotamento, d. Standaert ravvisa la possibilità, anzi la certezza di un’assoluta unicità dell’individuo: «Noi tutti abbiamo solo una frase da dire. Dopodiché, possiamo andare. L’oblio ricoprirà molte cose, talvolta in modo stranamente rapido. Non affliggerti troppo! Ma sii fedele alla tua prima chiamata, alla tua prima presa di coscienza, alla tua melodia di fondo».

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