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Fantasilandia (Dalle lettere: Montini a Merton)

«Sono convinto che mi adatterei perfettamente alla vostra vita, specialmente se questa è come viene descritta tra le pagine del suo bel libro L’Eremo, del quale ho appena finito di leggere con grande interesse la parte dedicata alla vita eremitica.» Così scrive Thomas Merton, nel giorno di Natale del 1952, ad Anselmo Giabbani, allora priore generale di Camaldoli. L’attrazione di Merton, trappista, per la solitudine, per una scelta monastica di più intensa contemplazione, veniva da lontano e ha lasciato innumerevoli tracce nei suoi Diari (che non ho ancora letto). All’incirca nel quinquennio 1950-55 tale attrazione conobbe una fase particolarmente acuta, che si tradusse in alcuni gesti concreti, seppur senza esito, e in uno scambio epistolare con vari religiosi di cui il volume curato da Mario Zaninelli dà esauriente conto1. La vicenda, che vide un primo orientamento verso i Certosini e uno successivo, molto più deciso, verso i Camaldolesi, merita un più ampio approfondimento, qui mi preme per il momento evidenziare una lettera che Giovanni Battista Montini, da meno di un anno arcivescovo di Milano, indirizzò a Merton il 20 agosto 1955, e che non esiterei a definire un capolavoro.

Il futuro papa rispondeva a una lettera di qualche mese prima nella quale lo stesso Merton gli aveva espresso apertamente le sue «difficoltà vocazionali» e il suo desiderio di lasciare l’abbazia di Gethsemani e i cisterciensi e di approdare a Camaldoli. La lettera di Merton era stata preannunciata a Montini da d. James Fox, abate di Gethsemani, che si era manifestato più volte contrario al «trasferimento» e ne aveva anche ostacolato qualsiasi mossa preparatoria: «Padre Louis [nome di religione di Thomas Merton] pensa che io non dia al suo caso la sufficiente attenzione, Proprio oggi abbiamo parlato per oltre un’ora e un quarto, e questa non è la prima volta. Gli ho detto che necessito di più tempo per valutare tutto bene, ma al momento mi sembra che ci sia più personalismo che grazia, più autosoddisfazione che ricerca di Dio».

Montini esordisce riferendo di aver meditato a lungo sulla questione («La ricerca di un bene maggiore è sempre cosa che merita grande attenzione»), accennando anche a un certo «timore riverenziale» nel rivolgersi a una personalità quale quella del noto scrittore «Father Merton». Ci sono poi gli impegni diocesani che lo assorbono, le «occupazioni incessanti» che consumano il suo tempo, «ma oggi scrivo», grazie anche alla visione del paesaggio della «bella pianura padana» (Montini scrive da Gussago, negli ambienti che avevano ospitato proprio un monastero camaldolese). Dare consigli è un’impresa che spesso sopravanza le possibilità umane, e tuttavia… Anzitutto la vita contemplativa «non ha ancora, in Italia, una espressione piena», Camaldoli è un centro di luce, ma la strada da fare è ancora molta. In secondo luogo se si desse corso a un eventuale trasferimento «molte anime sarebbero sfavorevolmente impressionate» (era la preoccupazione primaria dell’abate Fox: se Merton se ne va, pessima pubblicità per Gethsemani e per i trappisti americani). Il bene che Merton ha prodotto con i suoi scritti sarebbe «rovinato».

Queste, tuttavia, sono motivazioni estrinseche, riconosce Montini, sui più profondi aspetti spirituali personali «io debbo tacere. Troppo poco io conosco per parlare, per consigliare.» Due suggerimenti, però, sente di poterli dare. Ed è qui che, se posso permettermi, Montini piazza un formidabile uno-due, che Merton apprezzerà e incasserà quasi con gratitudine. Un paragrafo conclusivo cesellato con una delicatezza che pure non lascia scampo, una lezione che forse valica i confini della questione monastica da cui trae spunto. Il primo suggerimento, scontato, è quello di rimettersi al discernimento del suo abate: l’umiltà è sempre un’ottima strada per conoscere la volontà di Dio (quella volontà per manifestare la quale «Dio non ci manda un telegramma», nelle parole dell’abate Fox).

«L’altro è quello che riguarda l’insoddisfazione che spesso accompagna le anime desiderose di perfezione circa i mezzi impiegati per ottenerla. Io dico soltanto che questa insoddisfazione non può essere criterio unico per il governo pratico della propria vita, specialmente quando questa ha già fissato uno stato già favorevole alla perfezione. Bisogna anche ricordare che la perfezione non consiste nelle circostanze che la favoriscono, ma piuttosto nella carità dell’anima che la cerca; e che la ricerca, ad un dato momento, non si rivolge alla modifica delle condizioni esteriori di vita, ma alle condizioni interiori di sentimento e di orientamento spirituale. Di solito nessuno gode della conquista di condizioni conformi ai propri sogni e ai propri piani; circostanze provvidenziali cambiano il programma pratico della nostra vita; e bisogna alla fine amare e servire quella forma di vita che le vicende provvidenziali del nostro pellegrinaggio ci impongono, lasciando desideri di cambiamento che allontanano il cuore dalla realtà morale presente per trasferirlo in un regno di fantasia.»

Insomma, rimani dove sei, Thomas, pregherò per te e tu ricordami nelle tue preghiere.

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  1. La solitudine dell’eremo. Thomas Merton e i camaldolesi, a cura di M. Zaninelli, Nerbini 2018.

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«Un genere di guerra che è pace» (Thomas Merton)

Ho finalmente colmato una delle mille lacune: Le acque di Siloe, di Thomas Merton, il più famoso trappista del Novecento. Un libro che ne contiene tanti, pur essendo compatto, e che mi ha portato verso molti altri, in una curiosa catena di cui vorrei in futuro dare conto. Un libro che accoglie in sé la storia avventurosa della Trappa, la descrizione, ad uso del mondo «esterno», della vita di un monaco trappista contemporaneo (il libro è del 1949) e delle sue motivazioni, la rivendicazione insistita della natura contemplativa del «carisma» cisterciense, il riassunto delle controversie che portarono alla divisione dell’Ordine, la considerazione non acritica di alcune figure centrali della sua vicenda, la nostalgia per le origini, la celebrazione di quel meccanismo particolare che è una comunità monastica e l’evocazione di quella macchina sociale che è un monastero trappista, e infine l’atmosfera del dopoguerra e dell’inizio della Guerra Fredda (con tanto di risonanze con il fenomeno imminente delle «comuni»).

Insomma, un sacco di roba; e in più tanti nomi, storie, fatti curiosi. È un concentrato di monasticità che dà corpo (oltre 400 pagine nell’edizione che ho letto) in maniera ammirevole a un paradosso centrale di questa forma di vita. Il monaco che ha scritto questo libro, infatti, come migliaia di suoi confratelli, ha scelto la «completa rinuncia, non solo al mondo, alle sue ambizioni e ai suoi numerosi interessi, ma anche ai propri giudizi individuali, ai propri gusti, alla propria volontà». È uno dei tanti che rispondono alla definizione – paradossale, appunto – esposta con nettezza in apertura: «Il monaco è un uomo che rinuncia a tutto per avere tutto. È colui che ha rinunciato al desiderio per avere il più alto adempimento di ogni desiderio. Ha rinunciato alla sua libertà per diventare libero. Va in guerra perché ha trovato un genere di guerra che è pace».

Tuttavia, proprio nella chiarezza dei giudizi, nella scrupolosità della ricostruzione, nella cura della forma, il monaco che ha scritto questo libro afferma implicitamente un’individualità precisa, come a loro modo avranno affermato molti dei suoi confratelli. È un’osservazione, la mia, di certo non un’eccezione, e tantomeno un’accusa, anche perché a differenza ad esempio del fondatore del suo Ordine, Rancé, Merton non ha mai toni graffianti o di disprezzo per il mondo che ha lasciato. Non gli «appartengono». Il suo atteggiamento prevalente si potrebbe riassumere con un «guardate che qui, nel chiostro, è bellissimo».

Pare quasi che ripercorrendo la storia dei trappisti per arrivare alla sua, di Trappa, Merton si sia per così dire lavato dalle asprezze, dai titanismi al contrario (che con discrezione non manca di rilevare), e abbia trovato la sua voce. Quello che voglio dire è che non è una voce anonima, e forse proprio per questo, necessariamente al di fuori del chiostro, la si ascolta volentieri.

Thomas Merton, Le acque di Siloe, traduzione di Bruno Tasso, Garzanti 1992.

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Se il mondo crolla (Dice il monaco, II)

Dice un certosino:

Per un Certosino pensare ai suoi confratelli è spesso un ostacolo o una tentazione. […] Se siamo puri e fedeli, pazienti e lieti, possiamo essere certi che questa Vita preziosa sarà comunicata a tutti i nostri fratelli presenti e assenti… Lascia i tuoi confratelli a se stessi e quanto a te, pensa solo a mantenere la tua anima pura e in Dio e non permettere alle riflessioni su questa o quella cosa di turbarti. Vivi nel monastero come se non ci vivesse nessuno, non inquietarti se il mondo crolla e mantieni la calma dell’anima.

Dice un cisterciense:

E un contemplativo può affezionarsi alla sua contemplazione. Può pensare che la contemplazione sia la sola cosa che importa. Appena può rimanere solo e può gustare la calda dolcezza interiore del riposo al centro di se stesso – che è forse un’ombra illusoria della vera contemplazione – per lui il mondo potrebbe anche crollare, e con esso il monastero. Egli sacrificherà ogni altra cosa a questo piacere. L’obbedienza diventerà una questione priva di importanza. La carità sembrerà un assurdo. E nel suo cuore l’amore si essiccherà al calore letale del suo desiderio di auto-soddisfazione. Ed egli sarà schiavo non meno di un milionario.

Un certosino (Jean-Baptiste Porion), Scuole di silenzio, Edizioni San Clemente-Parole et Silence, senza data, ma prima del 2000, pp. 131, 120; Thomas Merton, Le acque di Siloe (1949), Garzanti 1992, p. 398.

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Reperti, 7-8

7. Comparse monastiche. Ce ne sono due in Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti. Una più strana dell’altra, direi. La prima, nel capitolo 7, è un’immagine riferita a uno dei suoi protagonisti, Rino Zena, che odia un tizio «con la stessa devota intensità con cui un monaco cistercense ama il suo Signore» (non un monaco generico, no, un cisterciense). La seconda, nei capitoli 223 e 227, in cui un altro dei protagonisti del romanzo, Beppe Trecca, bloccato in una coda, vede nell’auto accanto alla sua un frate/monaco (peccato veniale) e, spinto dal suo rovello, decide di parlargli. Il frate, che guida un’Espace, e che ha due cani San Bernardo (nientemeno che Tristano e Isotta) sui sedili posteriori, ascolta le parole del Trecca e, alla fine di quella specie di confessione, lo invita a seguirlo senza indugio alla Casa Ospitaliera del Passo del Gran San Bernardo: «Devo farti incontrare i miei superiori. Ti rendi conto di quanto la tua storia può essere utile ai giovani? In questa società che ha perso la fede tu sei un faro che brilla nelle tenebre». Riavutosi da un breve smarrimento, il Trecca scappa.
Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda (2006), Mondadori 2009, p. 23 e pp. 441, 445-47.

8. Fratello Nostradamus. A pagina 103 dell’ultimo numero di Chi (n. 39 del 14/09/2011) spicca il titolo «L’uomo che predisse l’11 settembre». Si tratta di Thomas Merton, il monaco trappista più famoso di tutti, che nel 1947, ben prima che il World Trade Center fosse addirittura progettato, pubblicò una poesia intitolata Nelle rovine di New York, nella quale tra l’altro si può leggere: «Come sono abbattute, come sono crollate / quelle grandi e potenti torri di ghiaccio e acciaio! / E fuse da quale terrore e da quale miracolo? / Quali fuochi e lampi hanno distrutto, / con la rabbia livida del loro improvviso rimprovero, / quelle torri di argento e acciaio?» (in Figures for an Apocalypse). I versi di Merton, opportunamente ritagliati da un testo più lungo e pianamente simbolista, circolano già da un po’ in associazione con la distruzione delle Torri Gemelle – occasione troppo ghiotta –, e l’articolo gioca comprensibilmente con il tema: «sconcertante profezia»,  «sconcertante e sconosciuto richiamo ai fatti dell’11 settembre», «misteriosa previsione», «particolari inquietanti», per affidarsi poi alle risposte di Maurizio Renzini, presidente della Associazione Thomas Merton Italia, che si mantiene in equilibrio tra informazioni precise e curiosità. (Che l’occasione fosse molto ghiotta lo dimostrano pubblicazioni come questa, che però non ho letto.)

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Purgamenta mundi

L’annullamento, la volontà di scomparire, di essere dimenticati da tutti è un appello che si trova negli scritti di monaci e monache di ogni tempo e luogo. Vi sono sensibile, è inutile nasconderlo, così vi faccio sempre caso. Recentemente mi sono imbattuto in tre esempi a distanza ravvicinata.

Teresa di Lisieux: «Desidero essere dimenticata, e non soltanto dalle creature, ma anche da me stessa. Vorrei essere ridotta a nulla fino al punto da non avere più alcun desiderio» (ca. 1890).

Thomas Merton: «Ho bisogno di solitudine, perché ho bisogno di essere niente, di scomparire: tamquam purgamenta huius mundi [come la spazzatura di questo mondo]. Ho una spaventosa vergogna della stolta pubblicità ormai legata al nome di Thomas Merton» (1952).

Nazarena (Julia Crotta): «Infine, Padre, vorrei raccomandarle di non parlare di me né di serbare miei ricordi o cose fatte da me. Devo essere ignota a tutti, nascondermi dietro i lavori più ordinari» (1959).

È curioso. Perché quest’ansia di essere dimenticati? Non è forse quello che, di fatto, accade? Non è l’anonimato la condizione «di base»? Che bisogno c’è di scomparire quando già lo siamo, «scomparsi»? Il tema non si riduce a questo, ma a me pare che tale preoccupazione nasca dal pensiero, inconfessabile per un religioso, che la propria azione, la propria vicenda sia invece memorabile, per non dire unica. Un intollerabile peccato di vanagloria, quindi, che detta quegli accenti a volte disperati (una specie di excusatio non petita). E ci trovo un tratto di umanità che in qualche modo mi fa sorridere.

Lasciate fare al tempo, mi verrebbe da dir loro…

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