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I giudici, maschi, del mondo (Dice il monaco, LXX)

Dice Teresa d’Avila, santa, dottoressa della Chiesa e monaca carmelitana scalza, nel 1566:

Signore dell’anima mia, quando eravate su questa terra, non avete disprezzato le donne, anzi le avete sempre favorite con molta benevolenza ed avete trovato in esse tanto amore e più fede che negli uomini. Infatti, vi era fra loro la vostra santissima Madre, grazie ai cui meriti e per poter portare il suo abito meritiamo ciò che abbiamo demeritato per le nostre colpe… [Signore], nel mondo avete onorato le donne… Vi sembra impossibile che non facciamo qualcosa di valido per voi in pubblico, che non osiamo parlare di alcune verità che piangiamo in segreto e che una nostra così giusta richiesta non venga esaudita da voi? Io non lo credo, Signore, e mi affido alla vostra bontà e giustizia. Voi siete il giudice giusto e non fate come i giudici del mondo – i quali come figli di Adamo sono tutti maschi – che ritengono sospetta la virtù praticata dalla donna. O mio Re, dovrà venire il giorno in cui tutti si conoscono. Non parlo per me. Il mondo conosce già la mia miseria e mi sono rallegrata di ciò in pubblico. Vedo, però, profilarsi dei tempi in cui non esiste più motivo per disprezzare anime virtuose e forti per il fatto che sono donne.

♦ Teresa d’Avila, Cammino di perfezione (codice dell’Escorial), 4, 1, in Opere complete, a cura di L. Borriello e G. della Croce, traduzione di L. Falcone, Paoline 1998, pp. 497-98. «Tutto questo brano è stato cancellato dal censore.»

 

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Un posto certamente molto adatto

Ero lì che leggevo bello tranquillo e interessato le Istruzioni delle novizie di Maria di San Giuseppe – cioè di María de San José, al secolo María de Salazar Torres, carmelitana scalza e discepola assai considerata di Teresa d’Avila –, ho voltato una pagina1 e, esperienza non frequente durante le letture monastiche, ho fatto un salto sulla sedia.

Premessa: le Istruzioni, scritte nel 1602 (un momento prima della morte di suor Maria, avvenuta nel 1603), sono redatte nella forma di un dialogo tra due consorelle, Grazia e Giusta, la prima delle quali nasconde a malapena l’autrice, e sono dedicate in particolare all’«orazione e la mortificazione con cui si devono formare le novizie»: la madre Teresa è scomparsa da poco e la preoccupazione è quella di trasmettere il suo insegnamento, il suo stile, la sua fine conoscenza di ciò che può accadere dentro un carmelo. Dopo aver delineato i tre tipi di novizie che ci si trova a dover istruire e giudicare, in vista del definitivo accoglimento in comunità, Grazia invita Giusta ad andare a chiamare tre giovani sorelle che incarnano quei tre tipi: «E ora, sorella», dice Grazia, «va a cercare le tue novizie». E…

«Grazia, frattanto, se ne sta a guardare dalla porta del suo devoto eremo le navi che entrano e escono dal porto della famosa e cristianissima città di Lisbona, dove è stato fondato il suo monastero e dove vivono sotto il titolo e la protezione del glorioso Sant’Alberto.»

Dalla porta del suo devoto eremo!? Le navi!? Lisbona!!?? Il mio soprassalto non è dovuto – se non per una minima parte che è giusto confessare – al pregiudizio che vuole gli eremi bui, freddi e punitivi, bensì proprio alla vista che all’istante si è formata ai miei occhi, agevolata da come prosegue il testo: «Il Monastero  è situato sulla riva del gran Tago, dalla parte in cui sfocia nell’Oceano, su un’altura a picco; entro le sue mura, in clausura, vi sono diversi eremi, dove le religiose conformemente al loro genere di vita, vivono in solitudine e continua orazione. Da qui, senza essere viste dall’esterno, possono godersi la vista del mare» (e quanta consapevolezza della numinosità del luogo c’è in quel gran Tago, dalla parte in cui sfocia nell’Oceano…).

Certo! Il convento di Sant’Alberto, il primo convento di carmelitane scalze in Portogallo, fu fondato proprio da Maria di San Giuseppe, insieme con altre tre consorelle, nel 1584, e costruito sulla strada per Belém, incorporando alcune «case affacciate sul Tago, che non erano grandi [ma] avevano un cortile dove il convento poteva in qualche modo essere esteso». Suor Maria ne fu anche la prima priora. Il convento soffrì anch’esso grande distruzione in seguito al terremoto del 1755 e venne dichiarato estinto con la morte, l’8 aprile 1890, dell’ultima monaca. Dopo varie vicissitudini e utilizzi civili, l’edificio cadde in rovina, per rinascere infine, in parte, come «annesso» del Museu Nacional de Belas Artes, poi Museu Nacional de Arte Antiga. Il giardino, il miradouro, la vista sono ancora lì.

Frattanto Grazia/Maria guarda le barche, le «fragili barche» (l’epoca dei grandi navigatori portoghesi non è tramontata poi da molto) che «appaiono una viva rappresentazione di quanto soffriamo nell’inquieto mare delle nostre vite, e legge nel mare stesso l’impronta di Nostro Signore, nelle sue onde che si accavallano, si abbattono sulla riva: «si affrettano impetuose fino al limite imposto da Dio». «Oh, grande Dio e somma sapienza», prorompe Grazia, «che in tutte le creature hai posto un richiamo per il nostro bene».

L’intervallo è finito, «Giusta e le sue novizie trovano Grazia mentre ripete queste parole; anch’esse, strada facendo avevano ricreato l’animo con la vista del cielo, del mare e della terra che da lì si gode. È un posto certamente molto adatto alle sue abitanti».

Il cielo e il mare, le navi che scorrono sul Tago, verso l’Oceano, un posto certamente molto adatto.

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  1. Per la precisione la pagina 42 della bella edizione che è stata da poco pubblicata: Maria di San Giuseppe, Istruzione delle novizie con Consigli e Trattato, introduzione di S. Cannistrà, Edizioni OCD 2019.

 

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«Per votare ci vuole la dispensa» (Reperti, 50: Franco Buffoni)

50. C’è un’aria di immediata e pressante concretezza nel «racconto in versi» che Franco Buffoni ha dedicato alla zia suora e che dà il titolo alla sua quinta raccolta poetica, apparsa la prima volta nel 1997 e di recente ripubblicata1. Suora carmelitana si apre infatti con una serie di dati perfettamente lisci e scorrevoli: indirizzo del convento («via Marcantonio Colonna»: al n° 30, per la precisione, a Milano), data di fondazione («è del trenta»: la consacrazione, celebrata dal cardinale Schuster, è dell’ottobre 1929), data di ingresso della monaca («è lì dal quarantasei»2), occasioni delle rarissime uscite (le elezioni del 1948 e i due referendum sul divorzio e sull’aborto, due ricoveri in ospedale: «Per votare ci vuole la dispensa. / E anche per l’ospedale»). Nulla di simbolico, dunque; mentre lo è, o comunque è significativo, quello che il poeta decide di evocare di una vicenda allungata nel tempo e scandita dal suo passaggio dall’infanzia all’età adulta: «Da bambino», «fino a undici anni», «da studente», «quando ero militare», «oggi».

Il tempo trascorre anche sul volto della religiosa, ma è come se al di là della grata fosse sospeso e il flusso inarrestabile della vita di chi sta «fuori», nel mondo, si confrontasse con l’immobile attesa di chi è «dentro» (e per il mondo prega), trovando nel parlatorio il luogo, questa volta sì, altamente simbolico, di tale singolare tangenza. E nel parlatorio ci sono la grata, appunto, e la ruota, le due aperture attraverso le quali lo scambio avviene, di parole e di piccoli oggetti – o anche di niente, di semplice presenza.

Riconosco che questo confronto di «tempi» è uno degli aspetti che alimentano maggiormente il mio interesse per le cose monastiche e mi piace immaginare, sulla scorta di queste brevi e pazientemente semplificate poesie, la serie di incontri tra il nipote e la zia, anno dopo anno, le brevi e distese conversazioni non aliene da questioni molto pratiche: le nuove arrivate («quasi tutte laureate»), il parallelismo tra vita militare e vita religiosa («ai superiori si doveva dare / obbedienza continua»), l’umidità degli edifici («è un convento moderno / non ha i muri spessi») – i versi di Suora carmelitana, tra l’altro, sono pieni di numeri: anni, misure, quantità, gradi: una continua immissione di dati oggettivi là dove – nel convento – il vero «dato» è, con ogni probabilità, incommensurabile.

Le suore sono in tutto una ventina,

Ventiquattro per la precisione erano prima

Della fondazione di un Carmelo nuovo.

Alcune sono state trasferite

E a Milano ora sono in diciassette

Le più vecchie.

Oggi sono in dodici3: eccolo, il tempo «di fuori», che passa anche «dentro». Ma forse no, perché nella poesia di Franco Buffoni sono ancora in diciassette, o magari ventiquattro, o addirittura…

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  1. Franco Buffoni, Suora carmelitana e altri racconti in versi (1997), Guanda 2019.
  2. Questo dato ci lascia immaginare che si tratti proprio dell’attuale priora, m. Manuela della Madre di Dio, entrata al Carmelo nel 1946, all’età di 19 anni.
  3. Lo erano nel 2015, come si apprende da questa intervista alla priora m. Manuela.

 

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Schedine: Un carmelitano e il cardinale Schuster

Un frate carmelitano, Il giardino chiuso, Edizioni Messaggero Padova 2017 (trad. di A.M. Foli di Le jardin clos, Editions du Carmel 2010). Credo sia importante affrontare anche questi testi, che sono forse quanto di più lontano un non credente possa cercare di comprendere. La meditazione dell’anonimo carmelitano svolge diffusamente l’allegoria del giardino («L’allegoria è di facile interpretazione: il giardino rappresenta l’anima che si è chiusa alle attrattive esteriori e che, nella clausura, coltiva tutto ciò che piace a Dio»), distendendola su tre parti: «Il giardino dei lavori», «L’Amato scende nel suo giardino» e «Il tempo dei profumi e del raccolto». Se la terza parte è del tutto al di là delle mie possibilità, pur mantenendo un certo strano fascino esoterico, nelle prime due ho colto qualche riflesso della spiritualità carmelitana, con particolare riguardo alla clausura. In un gioco continuo, a tratti febbrile, di rimbalzi dalla dimensione materiale a quella spirituale, o comunque astratta, il testo esplora le «forme» del giardino e il significato di ciò che vi accade, cioè il rapporto che vi si instaura tra il religioso o la religiosa che lo abita e Dio: «Il giardino diventa il luogo in cui l’uomo recupera la nudità originaria, nudità ricoperta dalla livrea luminosa dello Spirito». È importante qui la risonanza che quell’«originaria» produce con il Giardino dell’Eden, dove ha avuto luogo la Caduta, nonché il parallelismo che si instaura tra Eva, l’artefice di quella Caduta, e Maria, la «nuova Eva» cui è affidato il nuovo giardino ove è possibile tentare di «recuperare in qualche modo la situazione anteriore alla caduta». La strada va percorsa all’incontrario: «Per indossare la luce divina bisogna privarsi dell’abito del proprio io e rifiutare tutti gli indumenti proposti dalle forze delle tenebre, che non sono altro che prodotti fatti a loro immagine – false luci, emanazioni delle ombre della morte, abiti della supponenza, dell’orgoglio e di tutti gli altri peccati capitali, vestiti derisori proposti al libero arbitrio» (i corsivi, come d’uso, sono miei, a sottolineare le espressioni più… oppugnabili?).

 Ildefonso Schuster – Ildefonso Rea, Il carteggio (1929-1954). Tra ideale monastico e grande storia, a cura di M. Dell’Omo, Jaca Book 2018. È noto il forte legame che il cardinale Schuster mantenne con il mondo monastico, nel quale si era formato, anche dopo la nomina ad arcivescovo di Milano, e questo carteggio ne è un’ulteriore testimonianza. L’epistolario tra il cardinale e il suo omonimo, dapprima abate della Badia di Cava de’ Tirreni e poi, dalla fine del 1945, di Montecassino, è composto in buona misura dagli scambi di auguri, natalizi e pasquali, tra i due religiosi (si può notare, con un sorriso, come in venticinque anni di corrispondenza lo Schuster sia sempre arrivato prima, mandando i suoi auguri natalizi, ad esempio, all’inizio dell’Avvento, e mortificando i tentativi del Rea di ribaltare almeno qualche volta la situazione: «Eminenza, la sua bontà ci previene sempre», scrive ormai rassegnato nel 1952 l’abate di Montecassino; da notare anche che quest’ultimo scrive sempre «Montecassino», mentre il cardinale preferisce la grafia «Monte Cassino»). Oltre che documento di un rapporto umano e religioso di grande intensità, il carteggio si accende, se così si può dire, intorno alle vicende della ricostruzione della gloriosa abbazia distrutta dai bombardamenti e al «ritrovamento» dei resti di Benedetto e Scolastica, che una tradizione precedente voleva migrati in Francia: «Il 1° agosto [1950]», scrive il Rea, «compiendo lavori sotto l’altare maggiore della basilica, abbiamo rinvenuta, con immensa gioia, la pesante urna di alabastro postavi dall’abate della Noce il 7 agosto 1659. Il giorno seguente tra la profonda commozione di tutti gli astanti, è stata aperta l’urna e, tolta la seconda cassa di cipresso e dissigillata la terza cassa di piombo, abbiamo rese grazie al Signore che ci ha dato di poter contemplare e venerare i resti mortali del santo Patriarca e di santa Scolastica». A parte un senso, molto composto, di generale trasporto, le osservazioni sulla vita monastica sono meno diffuse di quello che mi sarei aspettato, tanto che lo stesso curatore ha pensato di raccogliere le espressioni più significative in poche pagine conclusive, intitolate «Florilegio spirituale dalle lettere di Schuster a Rea». L’altrettanto nota «nostalgia del chiostro» del cardinale scorre sempre silenziosa sotto le sue parole (spesso in latino, dopo la guerra) e raramente emerge in maniera esplicita, come in queste righe del 1937: «Ritorno con vero gusto, almeno col pensiero, a codesti luoghi [la Badia di Cava], dove sono attaccati tanti ricordi della mia vita monastica. Loro che sono nel tranquillo porto del chiostro, preghino per me e per la mia nave sbattuta in alto mare dalla tempesta! Sembra retorica, e la fede ci assicura che è una tremenda realtà! Sarei doppiamente infelice se, al pari di Giona, non lo capissi e ci dormissi su».

 

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Un grande tormento (Dice il monaco, XLV)

Dice Teresa d’Avila, santa, dottoressa della Chiesa e monaca carmelitana scalza, nel 1577:

Così, poiché non ci capiamo, soffriamo terribili tribolazioni, ritenendo che sia grave peccato ciò che non è cattivo, ma buono. Ecco da dove procedono le afflizioni di molte persone che praticano l’orazione e il lamentarsi delle sofferenze interiori, per lo meno di gran parte di quelle che non sono istruite; da qui le malinconie, la perdita della salute e perfino l’abbandono totale di ogni pratica, perché non si pensa che c’è in noi un mondo interiore; allo stesso modo, come non possiamo trattenere il movimento del cielo, che continua nella sua corsa vertiginosa, così non possiamo frenare il nostro pensiero. […]

Così pure non è bene turbarsi quanto ai pensieri. Non bisogna badarci, perché, se li ispira il demonio, con questa disposizione verso Dio avranno termine; e se provengono, come spesso avviene, dalla miserevole condizione lasciata in noi, con molti altri guai, dal peccato di Adamo, cerchiamo di aver pazienza e sopportiamoli per amor di Dio.

Siamo anche soggette a mangiare e a dormire, senza poterlo evitare, il che è un grande tormento.

Teresa d’Avila, Il castello interiore, «Quarte mansioni», I, 9, 11, in Opere complete, a cura di L. Borriello e G. della Croce, traduzione di L. Falcone, Paoline 1998, pp. 904, 906.

 

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Al conquibus ci penso io (Voci, 10)

Capo XXVI. Qualità, e doni naturali della Venerabil Madre

Fu Ella in quanto al corpo di molto buona, e leggiadra dispositione, di statura, secondo il consueto delle donne più tosto alta, che picciola; il volto era non mediocremente bello, di figura però alquanto lunga. Il colore assai bianco, e negl’ultimi anni, per le sue molte indispositioni violato quasi sempre dal pallido. La fronte di moderata ampiezza; l’occhio di color celeste, e gratioso, abenche non molle, ed effeminato, ma ben sì grave, e virile, e più tosto inchinava al severo, che al soverchiamente benigno, onde traluceva in esso la Maestà de’ suoi alti natali. Il naso uguale, e di ottima proportione e nella sommità delle narici alquanto rotondo. La bocca corrispondeva all’altre parti senza improportione, le gote erano decentemente piene. Haveva sotto il labbro del lato sinistro un Neo; scherzo consueto della natura, e che al rimanente della faccia suol aggiungere un poco di gratia. Nel camminare era compostissima, aborrendo naturalmente qualsivoglia strepito. La voce era alquanto piena, e sonora, nel che non osservava l’ordinaria conditione del sesso. Questa gli offerse materia per esercitarsi nell’humiltà, imperoche alcune volte, senza avvedersene, l’alzava soverchiamente, onde nel riconoscerlo con indicibil sommissione ne chiedeva perdono, quasi di grave delitto.

[…] Hor passando dall’esterna apparenza del corpo all’interne, e naturali doti dell’animo, diamo principio dall’intelletto, era questi perspicace, ed acuto sopra la conditione delle donne, onde componeva Sermoni, come se molto tempo havesse studiato. Io ne ho letti alcuni con altre sue Sagre Poesie, delle quali dilettossi, e ne lasciò scritti molti versi, e canzonette in lode dell’amor di Dio, e del patire per suo amore, e d’altre materie spirituali; discuopre in essi non volgare ingegno, e può esser che un giorno li goda la pietà de Fedeli promulgati con le stampe. Dimostrava ne i negotij una capacità così grande, che il governo d’un Monastero era per il suo svegliato intendimento assai inadeguato impiego. Il Cardinal de Medici fratello del gran Duca di Toscana essendo in Roma gli parlò, e la trattò, e dipoi disse non haver conosciuta donna di maggior capacità. Quindi avveniva che compisse con tutti i Signori Prencipi, e Cardinali con estrema vivezza di parole, e prontezza di ben aggiustate risposte, quantunque la temperasse con la Religiosa simplicità, che professava. Era nel tratto sommamente gioiale, aborrendo certe rozze malinconie spiacevoli all’humana conversatione. Diceva, e non di rado motti dolcemente arguti tal’hora in lingua Spagnola, o Siciliana, co’ quali nelle communi ricreationi gloriavasi di servire alla modesta allegrezza delle sue Religiose.

[…] Era naturalmente così tenera di cuore, e cotanto compassionevole verso le sue Religiose, che se gli rendeva impossibile vederle patire, onde se si avvedeva, che alcuna di loro mostrasse tristezza, a tutto suo potere si studiava rallegrarla, essendo Ella di conditione lieta, e vivace. Diceva bene spesso, che in tutto il tempo, nel quale era stata Religiosa non sapeva che cosa fosse scontentezza. Da questa sua innata compassione originavasi l’esser molto liberale in spender denaro, quando conosceva esser necessario per il sollievo, e sostentamento delle medesime Religiose. L’avvisavano alcune volte le Dispensiere, che si consumava molto per condire le vivande, o in altra cosa appartenente al vitto. Al che Ella rispondeva disconvenirsi molto a quelle, che servono un sì grande, ricco, e potente Signore l’esser anguste di cuore. Che quando mancasse la provisione già fatta l’avvisassero, che harebbe fatta l’altra, solo richieder da loro, che attendessero a servire Iddio con perfettione, e lasciassero a lei la cura di provederle: esser Iddio fedele a quelli che con esattezza lo servono.

Vita della ven. Madre Suor Chiara Maria della Passione Carmelitana Scalza: Fondatrice del Monastero di Regina Coeli. Nel secolo donna Vittoria Colonna, Figlia di Don Filippo Gran Contestabile del Regno di Napoli ecc. Scritta dal padre fra Biagio della Purificatione Carmelitano Scalzo, in Roma, nella Stamperia di Gioseppe Vannacci, 1681 (Libro II, Capo XXVI, pp. 334 e segg.).

 

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«Se vedi la Madonna, salutala da parte mia» (Le «Lettere a una carmelitana scalza» di Giacomo Biffi)

Di primo acchito non potrei sentirmi più lontano da un cardinale, per di più tradizionalista, e da una monaca carmelitana, per quanto «impegnata e problematica». Ciò nonostante le Lettere a una carmelitana scalza del cardinale Giacomo Biffi mi hanno preso sin dal primo «Gentilissima Signorina»1. All’inizio dell’epistolario, nel febbraio del 1960, la destinataria, Emanuela Ghini – che è anche la commossa e partecipe curatrice del volume –, è infatti ancora una laica, di circa 27 anni, assistente straordinaria di filosofia all’università di Bologna, e il mittente, da parte sua, non è ancora cardinale, bensì un professore trentenne del Seminario di Venegono, in provincia di Varese. Il primo scambio verte, come accadrà poi con frequenza, su un libro: la propria tesi in teologia che d. Giacomo regala alla giovane filosofa, ma si interrompe subito, perché nel frattempo sta maturando la di lei vocazione. Quando riprende, nell’agosto del 1964, Ghini è diventata suor Emanuela, al Carmelo di Savona, e d. Giacomo è, da qualche anno, parroco a Legnano. Passano altri sei anni di silenzio, imposto dal noviziato della religiosa, e lo scambio riprende infine nell’agosto del 1970, per non interrompersi più, se non alla morte di Biffi, nel 2015.

Purtroppo le lettere di s. Emanuela non sono riportate, salvo una minima parte sul finale, ed è un vero peccato, ma un’eco non flebile di esse risuona comunque nelle lettere di Biffi, che spesso risponde a domande precise, ribatte, puntualizza, commenta le osservazioni della monaca, e lo fa con un tono scevro da qualsiasi remora di carattere «politico», da qualsiasi cautela diplomatica, come con ogni probabilità faceva la sua corrispondente. Nonostante la percezione della possibilità che le sue lettere sarebbero state un giorno pubblicate, il cardinale è sempre chiaro e diretto, nei giudizi, talvolta molto severi, come nelle battute, spesso brillanti, nelle esortazioni come nelle confessioni. Come questa, che scelgo in rappresentanza di tutte: «Pare anche a me che la vita di fede sia aspra e oscura. È molto difficile continuare a credere. Solo che l’incredulità mi sembra più difficile ancora. Mi pare di dover finire per forza tra le braccia del Padre, non tanto perché mi attirino (almeno inizialmente), quanto perché in tutti gli altri posti è, dopo un po’, impossibile stare. […] Dio abita nell’oscurità. Per me, è tutto dietro la figura di Cristo. Se smarrissi il senso di Cristo, probabilmente diventerei ateo».

Come era prevedibile, io, se così si può dire, non condivido le opinioni espresse dal cardinale, e ascolto con un certo distacco le preoccupazioni sul «destino della cristianità» dei due religiosi, che non di rado, peraltro, sono in disaccordo (e su una questione in particolare, la figura di Giuseppe Dossetti, sono in netto e doloroso disaccordo), non partecipo delle loro ansie per lo stato di salute della Chiesa, non nutro la loro fede e le loro speranze, talvolta non so nemmeno esattamente di cosa stiano parlando… Tuttavia sono rimasto avvinto dai documenti di un’amicizia che non ho bisogno di definire spirituale per riconoscerne la profondità, l’onestà e la fedeltà: una conversazione di due menti (per rispetto dovrei dire «di due anime») così intima e concreta da suscitare autentica ammirazione: «L’importante», dice presto d. Giacomo, «è che continuiamo a volerci bene e a dialogare con franchezza, senza plagiarci vicendevolmente e senza prepotenze».

E anche divertendosi, mi sentirei di aggiungere, considerando le innumerevoli battute che costellano un po’ sorprendentemente, l’epistolario. «Il senso dell’umorismo», scrive il futuro cardinale, in maniera non del tutto scontata, «è il fondamento della vita religiosa», perché «è fatto di distacco dalle situazioni unito alla simpatia e all’amore». E così, ad esempio, commentando la tendenza moderna a preferire il «cercare» al «trovare», Biffi ricorda che è stato «Lessing a dire che vale più la caccia della lepre. Ma forse perché non ha mai mangiato la lepre». Ma soprattutto, vagamente preoccupato per certe «illuminazioni» che s. Emanuela gli ha confidato, il cardinale conclude: «Credo che tra poco comincerai ad avere anche le visioni, e così saremo a posto. Comunque, se vedi la Madonna, salutala da parte mia».

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  1. Giacomo Biffi, Lettere a una carmelitana scalza (1960-2013), introduzione e note a cura di E. Ghini, prefazione di C. Caffarra, postfazione di M.M. Zuppi, Itaca 2017.

 

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Il peccato di una lettrice («Un monastero di famiglia», la cronaca delle «barberine» di Roma; pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Suor Eufrasia da San Martino, conversa di Castelnuovo della Sabina, muore il 22 novembre del 1647. La cronaca del monastero carmelitano della Santissima Incarnazione di Roma registra che passò a miglior vita dicendo: «Maria mater gratiae», e soprattutto che «visse con semplicità e purità colombina»1. Il suo necrologio è molto più breve di quelli delle monache «vocali», cioè delle coriste, ma contiene un episodio assai significativo, tanto che il redattore della cronaca lo segnala in un indice con questo titolo: «Il demonio comparisce in figura brutta ad una religiosa disubediente». Una storia di disobbedienza punita, quindi, che, va da sé, ho trovato molto interessante per motivi del tutto opposti.

Suor Eufrasia, da brava conversa, in sostanza sgobba tutto il giorno, «sempre obediente e riverente» a tutte, e «fatigante in sommo grado», tuttavia sa leggere, almeno «un poco», e le piace, e poiché non ha tempo di farlo di giorno, lo fa di sera, non si sa se nel dormitorio o in cella. E così, «una di quelle sere doppo dato il segno di spegnere ogn’una il lume, lei vinta dal desiderio di terminare ciò che leggeva, non fece l’ubedienza di smorzare il lume». Non l’avesse mai fatto! Il Signore, punendola all’istante, le fa alzare lo sguardo alla finestra (si è d’estate ed è ancora aperta) dove è seduto, «in forma bruttissima», il demonio. Il quale demonio, «con risataccia da suo pari e con sbeffo, gli disse: “Leggi, leggi che mi dai gusto”». Sicché Eufrasia riconosce la sua mancanza e appena può va, «tutta paurosa e confusa», dalla superiora a confessarsi…

Qualche tempo fa dicevo che mi ero «avventato» sull’edizione della cronaca del monastero carmelitano della Santissima Incarnazione di Roma: be’, devo ammettere che ho fatto – e sto facendo – una certa fatica, dovuta soprattutto ai più che legittimi «criteri di edizione» che, pur avendo «parzialmente reso più fruibile per la lettura» il testo (parzialmente), ne hanno «scrupolosamente» mantenute le caratteristiche ortografiche e di punteggiatura, salvi pochissimi interventi di normalizzazione.

Nondimeno sono sempre conquistato da storie come quella di suor Eufrasia e dagli innumerevoli particolari che emergono dai necrologi delle consorelle: suor Felice Francesca delle Sacre Stimmate, suor Angela Vittoria del Cuor di Maria, suor Paola Maria del Santo Presepio, suor Maria Deodata delle Piaghe di Gesù e suor Caterina Eletta di San Giuseppe che, giovane di buona famiglia e in seguito tra le fondatrici del monastero, «prima si sarebbe lasciata tagliare la testa, che acconsentire al matrimonio».

Non posso riportare tutte le espressioni curiose e rivelatrici che ho sottolineato, dal misterioso modo di dire «cadere la goccia» (gli cascò la goccia, in un subito gli cascò la goccia nella lingua, fu ritoccata della goccia peggiore dell’altre volte), per significare un improvviso peggioramento delle condizioni fisiche2, alle descrizioni dei sintomi («Se la sentiva [la testa] tanto fredda come se fosse esposta al vento crudo d’inverno, con un rumore dentro come pioggia»), al ricordo delle attività costruttive del cardinale Francesco Barberini, protettore e benefattore, che ci ricordano cosa c’è al di là delle mura del monastero («Sopra il casino dello ius patronato, che godiamo in clausura nella più alta parte fabricò per recreatione delle religiose una loggia dalla quale senza essere vedute le monache si vede tutta Roma Monti, e città e castelli circonvicini»).

Tuttavia, per quanto stereotipate, esempi additati di modestia, non posso tralasciare le citazioni testuali di frasi pronunciate dalle monache che ogni tanto vengono inserite nel racconto: forse è il suono di quella voce ad andare oltre lo stereotipo. Quando la sgridavano, suor Maria Angelica dell’Amore di Dio rispondeva: «Sorelle mie havete ragione non sono buona a niente habbiate pazienza quest’altra volta farò meglio», mentre suor Maria Arcangela del Santissimo Sacramento diceva: «È vero… non ne fo una dritta»; suor Anna Maria Ancilla del Verbo Divino era così scrupolosa che, se le custodi non potevano assistere ai riti, dicevano: «Stiamo sicure per che ci è Anna Maria, e l’altre la immiteranno».

Suor Maria Minima di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, infine, così rimproverava le novizie che salmodiavano troppo in fretta: «Oh, che havere li sbirri dietro, che si corre tanto in lodare Dio?».

(2-fine)

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  1. Un monastero di famiglia. Il Diario delle barberine della SS. Incarnazione (secc. XVII-XVIII), a cura di V. Abbatelli, A. Lirosi, I. Palombo, con un saggio introduttivo di G. Zarri, Viella 2016, p. 79.
  2. Non sono riuscito a trovare quasi niente. In una dispensa del comune di Oulx si legge: «Alcuni modi di dire di Rochemolles [comune di Bardonecchia] per  “morire” sono: shéir de la gout “cadere della goccia” – essere colpito da un malore (anticamente si credeva che dietro alla fronte l’uomo avesse tre gocce, quando una cadeva si moriva)».

 

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«Un monastero di famiglia», la cronaca delle «barberine» di Roma (pt. 1)

Se poi, all’interesse per la vita quotidiana di un monastero, si aggiunge la passione per le scritture diaristiche, quali che siano, si capirà la disposizione con la quale mi sono avventato su questa meritoria pubblicazione delle edizioni Viella, sostenute dall’università di Roma «La Sapienza» e dalla Direzione generale per gli Archivi1. Si tratta della fedelissima trascrizione del «diario» del monastero carmelitano della Santissima Incarnazione di Roma, fondato da papa Urbano VIII nel 1639: un vero monastero di famiglia, ricco e per donne d’alto lignaggio, se si considera che il papa Barberini lo creò, e lo dotò con generosità, per ospitare le religiose del suo vasto e nobile parentado.

Il testo copre, con qualche «buco», gli anni che vanno dalla fondazione, il 16392 appunto, al 1781, quando si interrompe senza apparenti motivi, ed è di grande interesse, oltre che per la storia religiosa, anche per la storia sociale e politica della città, dominata da un papa assai controverso, e ancora per la storia della lingua, sia per il volgare in cui è steso – già, non era necessario che le donne sapessero di latino –, caratterizzato da «una lieve coloritura dialettale, sostanzialmente romanesca», sia per l’inclusione sistematica del lessico medico dell’epoca: le malattie che colpiscono le suore vi sono infatti descritte con precisione e con dovizia di particolari circa i sintomi e le cure.

L’intento del diario è esposto con chiarezza da fra Giovan Giacomo da S. Agostino, il monaco agostiniano che raccoglie le primitive carte sparse delle monache, dà forma al diario e lo affida alle sorelle affinché lo continuino: la cronaca sarà il «luogo» dove la comunità potrà salvare e tramandare a beneficio di quelle che verranno dopo gli esempi di virtù delle sue componenti e le grazie loro concesse. Strumento principe di ciò sarà il necrologio e la breve biografia agiografica stesa in occasione del trapasso di una consorella.

Il primo esempio, che fissa alcuni tratti che si ripeteranno poi con regolarità lo si incontra presto, infatti «adi 3 Agosto 1642 passò a meglior vita la Venerabile Madre Sor Maria Francesca del Giocondo», una delle monache compagne delle due fondatrici, s. Innocenza e s. Maria Grazia Barberini, che il papa loro zio aveva «spostate» dal Carmelo di S. Maria degli Angeli di Firenze a Roma. Di s. Maria Francesca, morta all’età di 70 anni e di 53 di professione, si ricorda anzitutto la ferma determinazione a prendere il velo nonostante l’opposizione della famiglia («suo padre faceva il sordo»); poi la santa triade delle virtù dell’umiltà, dell’obbedienza e dello zelo: rifuggiva da qualsiasi lode o titolo, non si faceva trovare quando venivano le «dame» in visita, era la prima a chiamare al mattutino alle tre di notte e «le constitutioni le stimava, et osservava a puntino». Ricordava alle sorelle che proprio loro erano «le più felici del mondo» e che erano tenute «a non disordinare, o a fare eccessive penitenze per mantenerci sane, e potere correre di notte e di giorno al choro, alla fatiche et obedienze». Risplendeva di povertà, semplicità e «nettezza», non stava mai in ozio ed «era tanto zelante, che reparava et accomodava le sue et altrui vesti con pezzi, e punti, che le faceva durare molto più»: atteggiamenti e «lavori donneschi», non si scappa.

E se vogliamo per un istante intravedere il suo volto e sentire la sua voce, ci basta questa breve frase: «E se vedeva alcuna afflitta e melanconica soleva dirgli: “Bambolina mia Sursum Corda, et in cuore tristo non habita Christo”».

(1-segue)

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  1. Un monastero di famiglia. Il Diario delle barberine della SS. Incarnazione (secc. XVII-XVIII), a cura di V. Abbatelli, A. Lirosi, I. Palombo, con un saggio introduttivo di G. Zarri, Viella 2016.
  2. «La gloriosa e santa memoria d’Urbano VIII, creato sommo pontefice lì 6 Agosto 1623, havendo due sue nipote figlie del Sig.r D. Carlo Barberini suo fratello, e della Sig.ra D. Costanza Magalotti Barberini, e queste monache nell’osservantissimo monastero di Santa Maria dell’Angeli Carmelitane della prima osservanza mitigata, nella città di Fiorenze, determinò nell’anno decimo sesto del suo pontificato edificargli un monastero in Roma acciò ivi introducessero il loro santo instituto sotto la regola carmelitana, et immitatione della Santa Madre Maria Maddalena de Pazzi già monaca in detto monastero di Fiorenza ove si venera il suo santo, et incorrotto corpo», p. 58 (nel riportare la frase con la quale inizia il diario, mi sono permesso minime «normalizzazioni» ortografiche).

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Da un momento all’altro («Abitare il silenzio», di Francesca Sbardella, pt. 3/3)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

«Sono stanca. Non ne posso più, non le capisco. Sono stanca di stare ore e ore in ginocchio in quel coro, di mangiare di corsa e in silenzio, di non poter dire quello che voglio quando voglio, di camminare senza fare rumore (tanto non ci riesco), di non potermi specchiare1. Sono delle folli. O sono delle folli loro o lo sono io.» Dietro lo sfogo tratto dal suo «diario di campo» e riportato con onestà dall’antropologa Francesca Sbardella, potremmo forse allinearci in tanti, tra i non credenti che guardano ai monasteri. E anche le parole che seguono danno voce a un sentimento che non è sconosciuto: «Sembra davvero che da un momento all’altro arrivi dio in persona a cena stasera. Forse stasera lo conosco! In questo sono brave, una finzione perfetta. Sembra talmente vera che non posso non crederci».

AbitareIlSilenzioForse mi è gia capitato di dire che il mio punto di vista al riguardo è assestato su una formula che volge in positivo quest’ultima frase: credo a chi dice di credere, non ho motivo di pensare che sia una finzione. Peraltro è la studiosa stessa a ricordare che si è trattato solo di uno sfogo2 (anche del corpo, con una certa probabilità), tant’è vero che chiede alle suore di pronunciarsi su questo aspetto. Tra le altre, suor Anne è lapidaria e definitiva: «Se la presenza di Dio non è reale, la nostra vita è stupida», e all’obiezione che si tratta in ogni caso di una «presenza» astratta, ribadisce: «Non è visibile, ma è reale. Certo è una questione di fede. Per noi è reale, se no non ha senso restare qui. Tutti questi gesti hanno un significato perché viviamo con qualcuno, viviamo con Dio». Ed è esattamente una affermazione del genere che mi spinge a credere a suor Anne.

È interessante l’approfondimento che Sbardella compie in questa direzione sul tema delle immagini. Nel «tentativo – a tratti disperato – di reificare il dialogo mistico», le monache si circondano di immagini devozionali che forniscono quel «supporto visibile» che può essere d’aiuto soprattutto nei momenti di stanchezza e vulnerabilità: l’immagine aiuta perché permette un contatto fisico – anche semplicemente tenendo in tasca un santino. «L’immagine diviene un tramite concreto… per poter vedere ciò in cui [le monache] credono.»

Tuttavia anche le immagini sono mute (quelle corredate di voce, le immagini televisive ad esempio, non sono ammesse e non contano), e non potrebbe essere diversamente nello scrigno di silenzio del monastero. Un silenzio che non è soltanto la condizione primaria per essere pronte ad accogliere il Signore, svuotandosi da se stesse, ma che sembra addirittura il linguaggio grazie al quale una comunicazione con Lui diventa possibile. Se Dio è «materialmente» assente, creiamo un luogo che sia la casa dell’assenza; se Dio non parla («la divinità non risponde, non parla, non dice nulla effettivamente a parole», e talvolta le suore ne soffrono), o meglio, se Dio ci parla col silenzio, allora gli parleremo nello stesso modo, con la stessa lingua. Al di là della Scrittura e delle preghiere, che non danno adito a un vero dialogo, Dio e uomo si parlano col silenzio.

«Si parlerebbero», mi viene da correggere. E quando suor Christine afferma che «in ogni caso, Dio non ci parla attraverso le parole. Le parole sono qualcosa che appartiene all’umano», sarei tentato di sospettare del paradosso. Ma anche in questo caso non vedo perché dovrei mettere in dubbio a priori quanto mi dice una persona che pensa e che parla, anche se si tratta di una monaca carmelitana.

(3-fine)

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  1. Dice suor Anne: «È normale che non ci siano specchi: non siamo qui per guardarci, ma per guardare il Signore», Francesca Sbardella, Abitare il silenzio. Un’antropologa in clausura, fotografie di Franco Zecchin, Viella 2015, p. 97.
  2. «Si tratta sì di una finzione [il sacro] ma, come tutti i prodotti di reificazione, ha una propria consistenza e realtà… Meglio non cadere quindi nell’errore di sottovalutare, o ancor peggio, di non considerare affatto ciò in cui gli altri credono o che dicono di vedere e di percepire», pp. 88-9.

 

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