Archivi categoria: Carmelitane / Carmelitani

Taccio (dal Diario di una novizia, di Emanuela Ghini)

Una pagina del Diario di una novizia, testé pubblicato dalla carmelitana Emanuela Ghini1, grande conoscitrice della Parola (non solo di quella con la «p» maiuscola), mi spinge a tornare su uno degli aspetti non risolti – irrisolvibili? – della mia comprensione della vocazione monastica. Più che di «aspetto non risolto», si tratta forse di una convinzione, se non di un pregiudizio, che faccio fatica ad abbandonare.

Il diario, che si propone datato tra la fine degli anni ’50 e il 1960, registra «un cammino spirituale verosimilmente analogo a quello di ogni giovane che accolga la chiamata di Cristo in contesti oggi molto diversi ma non interiormente dissimili da quelli di questa novizia», intervallato da incontri con sacerdoti, confratelli e conoscenti. Uno di questi, Carlo, laico o ecclesiastico non si sa, che «non comprende la vita monastica ma è una persona di grande onestà intellettuale», e che a differenza di altri compare significativamente una sola volta, contesta alla novizia la sua scelta: «Egli crede che ci dimentichiamo del mondo, delle sofferenze reali degli uomini, nelle quali bisogna calarsi per guarirle. Vede nel monachesimo una condizione di privilegio lontana dalla vita». La novizia evita la polemica («ognuno ha la sua porzione di verità»), ma in sostanza evita anche la risposta, o quanto meno non la riporta, e si dice dispiaciuta per l’incomprensione «di modalità della vita cristiana che sono evangeliche, se realmente vissute»: la preghiera, l’apostolato «nascosto», l’obbedienza, la povertà che rende «solidali con i minimi della terra».

Carlo non è convinto – «invano parlo a Carlo di noi come comunità di persone diverse, dissimili ma unite nel fondo dalla stessa passione» – e «ripete che facciamo tutto solo per noi, che ignoriamo la vita reale». Il colloquio, non privo di reciproco affetto, s’interrompe, la novizia vorrebbe discutere su cosa sia la «realtà», ma «desiste». E sull’argomento non tornerà praticamente più.

Non si tratta certo, per quanto mi riguarda, di «questionare» una scelta di vita (ovvero, da che pulpito…), né l’autenticità di quel sentimento di solidarietà con tutti i viventi nutrito e vissuto nella separazione, bensì di nominare la mia perplessità. Quante volte ho letto negli scritti di monaci e monache, contemporanei e no, il riferimento ai quaranta giorni di solitudine di Gesù nel deserto, o alla circostanza che spesso si ritirava «da solo a pregare», ma non posso non osservare che Gesù è sempre tornato indietro da quelle solitudini, da quelle scelte temporanee, se così posso chiamarle.

Ecco la mia convinzione, o il mio pregiudizio inveterato: non c’è, per taluni (non siamo appunto tutti uguali), anche una forma di sollievo nel rinunciare al contatto quotidiano e ininterrotto con «gli altri»? Una forma, lo ammetto, per me assai comprensibile. Sì, certo, la comunità monastica è pur sempre una incarnazione degli «altri», ma non è forse una declinazione più «accessibile», più «digeribile», e soprattutto unita dall’intento comune?

La pagina che registra l’incontro con Carlo si conclude con una citazione e tre puntini di sospensione che vanno a onore della novizia: «Mi torna alla mente un’espressione di Giovanni Crisostomo a proposito delle vergini stolte del Vangelo (Mt 25, 1-13): Così erano quelle vergini: caste, decorose, modeste ma utili a nessuno… Mi considero una di queste e taccio…»

______

  1. Emanuela Ghini, Diario di una novizia, San Paolo 2024.

2 commenti

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Libri

«Non ci sono negozi, né fabbriche di monache» (il Carmelo teresiano)

Stava per sfuggirmi, per così dire, un articolo molto «significativo» che il carmelitano Rafal A. Wilkowski ha dedicato al Carmelo teresiano femminile sull’ultimo numero del 2022 della «Rivista di vita spirituale»1. Partendo infatti dalla premessa che il carisma non è un concetto astratto, bensì uno stile di vita che si trasmette di generazione in generazione («Il carisma viene incarnato, oppure non esiste come tale»), il padre carmelitano espone e commenta anzitutto alcuni dati statistici. (Certo, essendo figlio del mio tempo, avrei trovato più «giusto» un articolo scritto da una diretta interessata, cioè una carmelitana. Con ogni probabilità un tale articolo esiste e semplicemente io non l’ho ancora letto, e comunque il p. Wilkowski è «persona ampiamente informata dei fatti», svolgendo, oltre a quello di segretario personale del Padre Generale, anche l’incarico di segretario per le monache dell’Ordine.)

Il Carmelo teresiano femminile è composto (al maggio del 2022) da 10.040 monache, che popolano 834 monasteri sparsi in 97 Paesi. In Europa e in America del Nord solo il 20 per cento delle monache ha meno di 50 anni, mentre il 33 per cento (il 28 per cento in America) ne ha più di 80, con un’alta percentuale di ultranovantenni. Il quadro si ribalta in America del Sud e in Asia. Le parole del p. carmelitano sono misurate ma inequivocabili: «Le comunità, specialmente nel mondo occidentale, stanno invecchiando e diminuendo» (oltre 80 comunità sono state soppresse in 10 anni, dal 2012, le nuove professioni non compensano i decessi e le dispense, e si tratta di un «processo inarrestabile». D’altra parte «non ci sono negozi, né fabbriche di monache. I dati statistici raccolti mostrano chiaramente che il tempo dell’espansione dell’Ordine è ormai passato alla storia ed è giunto il tempo della riduzione».

Due casi specifici vengono citati per illustrare più da vicino la drammaticità della situazione: quello del Carmelo belga, che dai 32 monasteri del 1979 (con 536 monache) è passato agli 11 del 2022 (con 117 monache), una situazione di crisi irreversibile: «Il modo in cui si è vissuto finora non ha più le condizioni fisiche per sostenersi. […] Ora è una lotta per la sopravvivenza»; e quello del Carmelo italiano, che, pur mantenendo quasi lo stesso numero di monasteri (da 54 a 53 nello stesso arco di tempo), ha visto diminuire il numero delle monache a 968 a 600.

Passando dal freddo, e impietoso, dato al «che fare?» e alle prospettive, il discorso del p. Wilkowski si fa necessariamente più sfumato. Anzitutto bisogna distinguere tra il carisma e le strutture attraverso il quale si è espresso e si esprime, fra Tradizione e tradizioni, là dove la prima si rinnova costantemente negli individui che lo incarnano in un determinato tempo, mentre le seconde sono soggette all’usura del medesimo tempo, subiscono l’influsso delle circostanze esteriori e non sono eterne. Le forme tradizionali danno conforto e sicurezza (o l’illusione della sicurezza), ma se si svuotano del loro contenuto vanno superate.

Il momento impone discernimento e capacità decisionale, continua p. Wilkowski, anche se è molto più facile dirlo che farlo, e ricorda una tipica frase teresiana: «Cosa vuoi che faccia, Signore?» È il «problema» più arduo che si ripresenta, quello che un non credente fatica più che mai a comprendere: «Discernere significa riflettere seriamente su cosa vuol dirci il Signore attraverso le situazioni nuove che si presentano. Qual è la sua volontà in tutto ciò?» Riflettere: va benissimo, ma alla fine della riflessione come interpretare il silenzio che seguirà a quella domanda?

«Forse», accenna p. Wilkowski, occorre saper morire per poter risorgere. Concetto non lieve, se applicato a situazioni concrete. «Si deve piuttosto imparare a lasciare in modo consapevole e maturo tutto ciò che è relativo, temporaneo. Questa è l’ars moriendi. Si deve imparare a rinunciare, se necessario, a certe forme di espressione per assimilarne altre. Si deve riscoprire il valore di vivere nella povertà delle forme, nell’esperienza della sofferenza», sembra quasi, se posso permettermi, un modo garbato di annunciare e preparare alla fine, come parrebbe confermare la frase che segue, un vero strappo dall’astratto al concreto: «E non si deve percepire la chiusura del monastero come la fine del mondo e allo stesso tempo come un fallimento personale».

E si torna così agli aspetti pratici più impellenti. Incentivare la creazione di «Carmeli-infermerie» per assistere le monache anziane? Come risolvere il problema delle sorelle che si ritrovano senza il monastero in cui hanno vissuto per mezzo secolo? Come mantenere vivo il senso di comunità dell’intera famiglia carmelitana? Cosa significa, aggiungo io, l’insistenza sulla «formazione permanente» di fronte all’estinzione delle comunità?

La conclusione di p. Wilkowski sintetizza, con una punta di particolare enfasi, questa compresenza di lucidità e vaghezza: «Uno degli elementi essenziali del carisma teresiano è il realismo: camminare nella verità. I tempi attuali richiedono questo realismo. E questo è difficile. […] Senza questo realismo il Carmelo teresiano sarà perduto».

______

  1. Rafał Aleksander Wilkowski, ocd, Il carisma nel Carmelo teresiano femminile, in «Rivista di vita spirituale» a. 76 (2022), n. 4, pp. 427-451.

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Dalle riviste

Perché non si fastidiscano i prossimi (Voci, 30)

IstruzioneNovizi Capitolo XIV. Della modestia in commune

La modestia, ch’è una moderazione de’ movimenti esteriori, par che tiri l’origine dalle virtù che abbiamo dichiarate, particolarmente dalla castità, umiltà, mansuetudine e pazienza: perché quell’ordine interiore de’ buoni affetti produce la composizione delle parti esterne dell’uomo, come un frutto bellissimo da vedersi. […] Con tutto ciò aggiungiamo le regole per comporre l’uomo esteriore secondo la disciplina de’ santi Padri, onde osservi quel decoro.

Il capo. Il monaco di maniera deve moderare il capo che non lo porti alzato, né chino, né piegato a questo o a quel lato. Quando cammina, se si sente chiamar da dietro da chi chi sia, non rivolti solamente il capo, ma tutto il corpo. Né allora lo muova con molta fretta, ma riposatamente, come deve fare tutte le volte ch’è necessario muover il capo. Da sé farà ciascuno altre cose modestamente se si ricorderà delle cose che abbiamo dette; ma quel ch’appartiene a gli occhi si tratterà separatamente.

Le braccia. Le braccia s’hanno da muovere in maniera, ogni volta che bisognerà far alcuna cosa, che si fugga l’eccesso, perché né conviene stenderle molto ad usanza de’ secolari, come s’avesse a far mostra della forza, né con difficoltà, come se rincrescesse il faticare. Ma nel coro si devono piegare in modo che stiano alzate al petto, e che si tenga il breviario con l’una e l’altra mano, perché è brutto il tenerlo sotto lo stomaco, brutto il nascondere l’una delle mani, e brutto ciò che dimostra dappocaggine. Nell’orazione le braccia siano inserte sotto la pazienza [qui per capo dell’abito religioso, scapolare], o solamente le mani congiunte si compongano in modo che scaccino la languidezza nemica dell’orazione. Nel refettorio, quando si dà il segno per mangiare, si stendano le braccia lentamente, acciò non paia che la concupiscenza le stimoli. Ne gli altri luoghi (che non è necessario raccontare ad uno ad uno), quando non occorre far alcuna cosa, le mani composte presso la fibbia del cingolo, conservino una modesta positura di sé e delle braccia.

Le gambe. Bisogna governar le gambe di maniera che si compongano con piegarle e stenderle ugualmente, ogni volta che qualche ceremonia particolare non esclude alcuna di loro. Et è da guardarsi di sopraporre piede a piede o gamba a gamba, o ch’in altro modo inusitato entri sconvenevolezza.

Tutto il corpo. Nel camminare bisogna in modo comporre tutto il corpo che non vada né teso, né rimesso (il che appartiene alla disposizione di lui), né camini con fretta, o con lentezza, il che appartiene al moto. Nel sedere, o sia nel coro, o nell’oratorio, o nel refettorio, o nel luogo della ricreazione, o nella cella, o altrove, non stia curvo, né troppo ritto, né distorto, né d’altro modo sconcio che mostri languidezza d’animo, o per il contrario affettazione. Di notte giaccia coperto nel letto come in un sepolcro, perché qualche parte scoperta non offenda gli occhi. Di giorno, nella cella, stando in piedi, inginocchiandosi, o sedendo così compongano il corpo senza appoggiarsi, che quelli che entrano all’improvviso non restino offesi dal vederlo. Finalmente tutto quello ch’offende la vista de gli altri, o di se stessi, si fugga da’ religiosi con diligenza.

L’azione del corpo in compagnia d’altri. Quando si sta per esempio appresso qualche padre, o fratello, bisogna fuggir la molta vicinanza, o distanza, ma attaccarsi al mezzo, che stia bene alla cosa della quale si tratta, il che si conoscerà dalle circostanze. Quando si cammina insieme bisogna avvertire che non si dia fastidio o con l’andar innanzi, o co’l tardare, o con l’impedire gli altri, o con l’urtare gli altri ne’ fianchi, o con altri abusi del camminar modesto. Quando si siede bisogna guardare che con l’accostarsi troppo a gli altri, o con l’impedire la vista, o l’udito delle cose che si dicono, o con qualsivoglia altro modo poco conveniente non si generi fastidio. Et in ogni positura del corpo di maniera s’adattino al corpo le vesti, che siano acconce e coprano tutte le parti, nelle quali (come nelle celle, libri e tutte l’altre cose) lodiamo la nettezza, perché non si fastidiscano i prossimi.

♦ Giovanni di Gesù-Maria (1564-1615), L’istruzione dei novizi (1605) – Instruttione di novitii, composta in lingua latina dal molto R.P. Fra Giovanni di Giesù Maria, Preposito generale della Congregatione de’ Carmelitani Scalzi, et hora per commune utilità tradotta nella volgare, Roma, per Giacomo Mascardi, 1612. [Con qualche leggera normalizzazione ortografica.]

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Voci

I giudici, maschi, del mondo (Dice il monaco, LXX)

Dice Teresa d’Avila, santa, dottoressa della Chiesa e monaca carmelitana scalza, nel 1566:

Signore dell’anima mia, quando eravate su questa terra, non avete disprezzato le donne, anzi le avete sempre favorite con molta benevolenza ed avete trovato in esse tanto amore e più fede che negli uomini. Infatti, vi era fra loro la vostra santissima Madre, grazie ai cui meriti e per poter portare il suo abito meritiamo ciò che abbiamo demeritato per le nostre colpe… [Signore], nel mondo avete onorato le donne… Vi sembra impossibile che non facciamo qualcosa di valido per voi in pubblico, che non osiamo parlare di alcune verità che piangiamo in segreto e che una nostra così giusta richiesta non venga esaudita da voi? Io non lo credo, Signore, e mi affido alla vostra bontà e giustizia. Voi siete il giudice giusto e non fate come i giudici del mondo – i quali come figli di Adamo sono tutti maschi – che ritengono sospetta la virtù praticata dalla donna. O mio Re, dovrà venire il giorno in cui tutti si conoscono. Non parlo per me. Il mondo conosce già la mia miseria e mi sono rallegrata di ciò in pubblico. Vedo, però, profilarsi dei tempi in cui non esiste più motivo per disprezzare anime virtuose e forti per il fatto che sono donne.

♦ Teresa d’Avila, Cammino di perfezione (codice dell’Escorial), 4, 1, in Opere complete, a cura di L. Borriello e G. della Croce, traduzione di L. Falcone, Paoline 1998, pp. 497-98. «Tutto questo brano è stato cancellato dal censore.»

 

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Dice il monaco

Un posto certamente molto adatto

Ero lì che leggevo bello tranquillo e interessato le Istruzioni delle novizie di Maria di San Giuseppe – cioè di María de San José, al secolo María de Salazar Torres, carmelitana scalza e discepola assai considerata di Teresa d’Avila –, ho voltato una pagina1 e, esperienza non frequente durante le letture monastiche, ho fatto un salto sulla sedia.

Premessa: le Istruzioni, scritte nel 1602 (un momento prima della morte di suor Maria, avvenuta nel 1603), sono redatte nella forma di un dialogo tra due consorelle, Grazia e Giusta, la prima delle quali nasconde a malapena l’autrice, e sono dedicate in particolare all’«orazione e la mortificazione con cui si devono formare le novizie»: la madre Teresa è scomparsa da poco e la preoccupazione è quella di trasmettere il suo insegnamento, il suo stile, la sua fine conoscenza di ciò che può accadere dentro un carmelo. Dopo aver delineato i tre tipi di novizie che ci si trova a dover istruire e giudicare, in vista del definitivo accoglimento in comunità, Grazia invita Giusta ad andare a chiamare tre giovani sorelle che incarnano quei tre tipi: «E ora, sorella», dice Grazia, «va a cercare le tue novizie». E…

«Grazia, frattanto, se ne sta a guardare dalla porta del suo devoto eremo le navi che entrano e escono dal porto della famosa e cristianissima città di Lisbona, dove è stato fondato il suo monastero e dove vivono sotto il titolo e la protezione del glorioso Sant’Alberto.»

Dalla porta del suo devoto eremo!? Le navi!? Lisbona!!?? Il mio soprassalto non è dovuto – se non per una minima parte che è giusto confessare – al pregiudizio che vuole gli eremi bui, freddi e punitivi, bensì proprio alla vista che all’istante si è formata ai miei occhi, agevolata da come prosegue il testo: «Il Monastero  è situato sulla riva del gran Tago, dalla parte in cui sfocia nell’Oceano, su un’altura a picco; entro le sue mura, in clausura, vi sono diversi eremi, dove le religiose conformemente al loro genere di vita, vivono in solitudine e continua orazione. Da qui, senza essere viste dall’esterno, possono godersi la vista del mare» (e quanta consapevolezza della numinosità del luogo c’è in quel gran Tago, dalla parte in cui sfocia nell’Oceano…).

Certo! Il convento di Sant’Alberto, il primo convento di carmelitane scalze in Portogallo, fu fondato proprio da Maria di San Giuseppe, insieme con altre tre consorelle, nel 1584, e costruito sulla strada per Belém, incorporando alcune «case affacciate sul Tago, che non erano grandi [ma] avevano un cortile dove il convento poteva in qualche modo essere esteso». Suor Maria ne fu anche la prima priora. Il convento soffrì anch’esso grande distruzione in seguito al terremoto del 1755 e venne dichiarato estinto con la morte, l’8 aprile 1890, dell’ultima monaca. Dopo varie vicissitudini e utilizzi civili, l’edificio cadde in rovina, per rinascere infine, in parte, come «annesso» del Museu Nacional de Belas Artes, poi Museu Nacional de Arte Antiga. Il giardino, il miradouro, la vista sono ancora lì.

Frattanto Grazia/Maria guarda le barche, le «fragili barche» (l’epoca dei grandi navigatori portoghesi non è tramontata poi da molto) che «appaiono una viva rappresentazione di quanto soffriamo nell’inquieto mare delle nostre vite, e legge nel mare stesso l’impronta di Nostro Signore, nelle sue onde che si accavallano, si abbattono sulla riva: «si affrettano impetuose fino al limite imposto da Dio». «Oh, grande Dio e somma sapienza», prorompe Grazia, «che in tutte le creature hai posto un richiamo per il nostro bene».

L’intervallo è finito, «Giusta e le sue novizie trovano Grazia mentre ripete queste parole; anch’esse, strada facendo avevano ricreato l’animo con la vista del cielo, del mare e della terra che da lì si gode. È un posto certamente molto adatto alle sue abitanti».

Il cielo e il mare, le navi che scorrono sul Tago, verso l’Oceano, un posto certamente molto adatto.

 ______

  1. Per la precisione la pagina 42 della bella edizione che è stata da poco pubblicata: Maria di San Giuseppe, Istruzione delle novizie con Consigli e Trattato, introduzione di S. Cannistrà, Edizioni OCD 2019.

 

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Spigolature

«Per votare ci vuole la dispensa» (Reperti, 50: Franco Buffoni)

50. C’è un’aria di immediata e pressante concretezza nel «racconto in versi» che Franco Buffoni ha dedicato alla zia suora e che dà il titolo alla sua quinta raccolta poetica, apparsa la prima volta nel 1997 e di recente ripubblicata1. Suora carmelitana si apre infatti con una serie di dati perfettamente lisci e scorrevoli: indirizzo del convento («via Marcantonio Colonna»: al n° 30, per la precisione, a Milano), data di fondazione («è del trenta»: la consacrazione, celebrata dal cardinale Schuster, è dell’ottobre 1929), data di ingresso della monaca («è lì dal quarantasei»2), occasioni delle rarissime uscite (le elezioni del 1948 e i due referendum sul divorzio e sull’aborto, due ricoveri in ospedale: «Per votare ci vuole la dispensa. / E anche per l’ospedale»). Nulla di simbolico, dunque; mentre lo è, o comunque è significativo, quello che il poeta decide di evocare di una vicenda allungata nel tempo e scandita dal suo passaggio dall’infanzia all’età adulta: «Da bambino», «fino a undici anni», «da studente», «quando ero militare», «oggi».

Il tempo trascorre anche sul volto della religiosa, ma è come se al di là della grata fosse sospeso e il flusso inarrestabile della vita di chi sta «fuori», nel mondo, si confrontasse con l’immobile attesa di chi è «dentro» (e per il mondo prega), trovando nel parlatorio il luogo, questa volta sì, altamente simbolico, di tale singolare tangenza. E nel parlatorio ci sono la grata, appunto, e la ruota, le due aperture attraverso le quali lo scambio avviene, di parole e di piccoli oggetti – o anche di niente, di semplice presenza.

Riconosco che questo confronto di «tempi» è uno degli aspetti che alimentano maggiormente il mio interesse per le cose monastiche e mi piace immaginare, sulla scorta di queste brevi e pazientemente semplificate poesie, la serie di incontri tra il nipote e la zia, anno dopo anno, le brevi e distese conversazioni non aliene da questioni molto pratiche: le nuove arrivate («quasi tutte laureate»), il parallelismo tra vita militare e vita religiosa («ai superiori si doveva dare / obbedienza continua»), l’umidità degli edifici («è un convento moderno / non ha i muri spessi») – i versi di Suora carmelitana, tra l’altro, sono pieni di numeri: anni, misure, quantità, gradi: una continua immissione di dati oggettivi là dove – nel convento – il vero «dato» è, con ogni probabilità, incommensurabile.

Le suore sono in tutto una ventina,

Ventiquattro per la precisione erano prima

Della fondazione di un Carmelo nuovo.

Alcune sono state trasferite

E a Milano ora sono in diciassette

Le più vecchie.

Oggi sono in dodici3: eccolo, il tempo «di fuori», che passa anche «dentro». Ma forse no, perché nella poesia di Franco Buffoni sono ancora in diciassette, o magari ventiquattro, o addirittura…

______

  1. Franco Buffoni, Suora carmelitana e altri racconti in versi (1997), Guanda 2019.
  2. Questo dato ci lascia immaginare che si tratti proprio dell’attuale priora, m. Manuela della Madre di Dio, entrata al Carmelo nel 1946, all’età di 19 anni.
  3. Lo erano nel 2015, come si apprende da questa intervista alla priora m. Manuela.

 

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Reperti

Schedine: Un carmelitano e il cardinale Schuster

Un frate carmelitano, Il giardino chiuso, Edizioni Messaggero Padova 2017 (trad. di A.M. Foli di Le jardin clos, Editions du Carmel 2010). Credo sia importante affrontare anche questi testi, che sono forse quanto di più lontano un non credente possa cercare di comprendere. La meditazione dell’anonimo carmelitano svolge diffusamente l’allegoria del giardino («L’allegoria è di facile interpretazione: il giardino rappresenta l’anima che si è chiusa alle attrattive esteriori e che, nella clausura, coltiva tutto ciò che piace a Dio»), distendendola su tre parti: «Il giardino dei lavori», «L’Amato scende nel suo giardino» e «Il tempo dei profumi e del raccolto». Se la terza parte è del tutto al di là delle mie possibilità, pur mantenendo un certo strano fascino esoterico, nelle prime due ho colto qualche riflesso della spiritualità carmelitana, con particolare riguardo alla clausura. In un gioco continuo, a tratti febbrile, di rimbalzi dalla dimensione materiale a quella spirituale, o comunque astratta, il testo esplora le «forme» del giardino e il significato di ciò che vi accade, cioè il rapporto che vi si instaura tra il religioso o la religiosa che lo abita e Dio: «Il giardino diventa il luogo in cui l’uomo recupera la nudità originaria, nudità ricoperta dalla livrea luminosa dello Spirito». È importante qui la risonanza che quell’«originaria» produce con il Giardino dell’Eden, dove ha avuto luogo la Caduta, nonché il parallelismo che si instaura tra Eva, l’artefice di quella Caduta, e Maria, la «nuova Eva» cui è affidato il nuovo giardino ove è possibile tentare di «recuperare in qualche modo la situazione anteriore alla caduta». La strada va percorsa all’incontrario: «Per indossare la luce divina bisogna privarsi dell’abito del proprio io e rifiutare tutti gli indumenti proposti dalle forze delle tenebre, che non sono altro che prodotti fatti a loro immagine – false luci, emanazioni delle ombre della morte, abiti della supponenza, dell’orgoglio e di tutti gli altri peccati capitali, vestiti derisori proposti al libero arbitrio» (i corsivi, come d’uso, sono miei, a sottolineare le espressioni più… oppugnabili?).

 Ildefonso Schuster – Ildefonso Rea, Il carteggio (1929-1954). Tra ideale monastico e grande storia, a cura di M. Dell’Omo, Jaca Book 2018. È noto il forte legame che il cardinale Schuster mantenne con il mondo monastico, nel quale si era formato, anche dopo la nomina ad arcivescovo di Milano, e questo carteggio ne è un’ulteriore testimonianza. L’epistolario tra il cardinale e il suo omonimo, dapprima abate della Badia di Cava de’ Tirreni e poi, dalla fine del 1945, di Montecassino, è composto in buona misura dagli scambi di auguri, natalizi e pasquali, tra i due religiosi (si può notare, con un sorriso, come in venticinque anni di corrispondenza lo Schuster sia sempre arrivato prima, mandando i suoi auguri natalizi, ad esempio, all’inizio dell’Avvento, e mortificando i tentativi del Rea di ribaltare almeno qualche volta la situazione: «Eminenza, la sua bontà ci previene sempre», scrive ormai rassegnato nel 1952 l’abate di Montecassino; da notare anche che quest’ultimo scrive sempre «Montecassino», mentre il cardinale preferisce la grafia «Monte Cassino»). Oltre che documento di un rapporto umano e religioso di grande intensità, il carteggio si accende, se così si può dire, intorno alle vicende della ricostruzione della gloriosa abbazia distrutta dai bombardamenti e al «ritrovamento» dei resti di Benedetto e Scolastica, che una tradizione precedente voleva migrati in Francia: «Il 1° agosto [1950]», scrive il Rea, «compiendo lavori sotto l’altare maggiore della basilica, abbiamo rinvenuta, con immensa gioia, la pesante urna di alabastro postavi dall’abate della Noce il 7 agosto 1659. Il giorno seguente tra la profonda commozione di tutti gli astanti, è stata aperta l’urna e, tolta la seconda cassa di cipresso e dissigillata la terza cassa di piombo, abbiamo rese grazie al Signore che ci ha dato di poter contemplare e venerare i resti mortali del santo Patriarca e di santa Scolastica». A parte un senso, molto composto, di generale trasporto, le osservazioni sulla vita monastica sono meno diffuse di quello che mi sarei aspettato, tanto che lo stesso curatore ha pensato di raccogliere le espressioni più significative in poche pagine conclusive, intitolate «Florilegio spirituale dalle lettere di Schuster a Rea». L’altrettanto nota «nostalgia del chiostro» del cardinale scorre sempre silenziosa sotto le sue parole (spesso in latino, dopo la guerra) e raramente emerge in maniera esplicita, come in queste righe del 1937: «Ritorno con vero gusto, almeno col pensiero, a codesti luoghi [la Badia di Cava], dove sono attaccati tanti ricordi della mia vita monastica. Loro che sono nel tranquillo porto del chiostro, preghino per me e per la mia nave sbattuta in alto mare dalla tempesta! Sembra retorica, e la fede ci assicura che è una tremenda realtà! Sarei doppiamente infelice se, al pari di Giona, non lo capissi e ci dormissi su».

 

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Libri, Schedine

Un grande tormento (Dice il monaco, XLV)

Dice Teresa d’Avila, santa, dottoressa della Chiesa e monaca carmelitana scalza, nel 1577:

Così, poiché non ci capiamo, soffriamo terribili tribolazioni, ritenendo che sia grave peccato ciò che non è cattivo, ma buono. Ecco da dove procedono le afflizioni di molte persone che praticano l’orazione e il lamentarsi delle sofferenze interiori, per lo meno di gran parte di quelle che non sono istruite; da qui le malinconie, la perdita della salute e perfino l’abbandono totale di ogni pratica, perché non si pensa che c’è in noi un mondo interiore; allo stesso modo, come non possiamo trattenere il movimento del cielo, che continua nella sua corsa vertiginosa, così non possiamo frenare il nostro pensiero. […]

Così pure non è bene turbarsi quanto ai pensieri. Non bisogna badarci, perché, se li ispira il demonio, con questa disposizione verso Dio avranno termine; e se provengono, come spesso avviene, dalla miserevole condizione lasciata in noi, con molti altri guai, dal peccato di Adamo, cerchiamo di aver pazienza e sopportiamoli per amor di Dio.

Siamo anche soggette a mangiare e a dormire, senza poterlo evitare, il che è un grande tormento.

Teresa d’Avila, Il castello interiore, «Quarte mansioni», I, 9, 11, in Opere complete, a cura di L. Borriello e G. della Croce, traduzione di L. Falcone, Paoline 1998, pp. 904, 906.

 

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Dice il monaco

Al conquibus ci penso io (Voci, 10)

Capo XXVI. Qualità, e doni naturali della Venerabil Madre

Fu Ella in quanto al corpo di molto buona, e leggiadra dispositione, di statura, secondo il consueto delle donne più tosto alta, che picciola; il volto era non mediocremente bello, di figura però alquanto lunga. Il colore assai bianco, e negl’ultimi anni, per le sue molte indispositioni violato quasi sempre dal pallido. La fronte di moderata ampiezza; l’occhio di color celeste, e gratioso, abenche non molle, ed effeminato, ma ben sì grave, e virile, e più tosto inchinava al severo, che al soverchiamente benigno, onde traluceva in esso la Maestà de’ suoi alti natali. Il naso uguale, e di ottima proportione e nella sommità delle narici alquanto rotondo. La bocca corrispondeva all’altre parti senza improportione, le gote erano decentemente piene. Haveva sotto il labbro del lato sinistro un Neo; scherzo consueto della natura, e che al rimanente della faccia suol aggiungere un poco di gratia. Nel camminare era compostissima, aborrendo naturalmente qualsivoglia strepito. La voce era alquanto piena, e sonora, nel che non osservava l’ordinaria conditione del sesso. Questa gli offerse materia per esercitarsi nell’humiltà, imperoche alcune volte, senza avvedersene, l’alzava soverchiamente, onde nel riconoscerlo con indicibil sommissione ne chiedeva perdono, quasi di grave delitto.

[…] Hor passando dall’esterna apparenza del corpo all’interne, e naturali doti dell’animo, diamo principio dall’intelletto, era questi perspicace, ed acuto sopra la conditione delle donne, onde componeva Sermoni, come se molto tempo havesse studiato. Io ne ho letti alcuni con altre sue Sagre Poesie, delle quali dilettossi, e ne lasciò scritti molti versi, e canzonette in lode dell’amor di Dio, e del patire per suo amore, e d’altre materie spirituali; discuopre in essi non volgare ingegno, e può esser che un giorno li goda la pietà de Fedeli promulgati con le stampe. Dimostrava ne i negotij una capacità così grande, che il governo d’un Monastero era per il suo svegliato intendimento assai inadeguato impiego. Il Cardinal de Medici fratello del gran Duca di Toscana essendo in Roma gli parlò, e la trattò, e dipoi disse non haver conosciuta donna di maggior capacità. Quindi avveniva che compisse con tutti i Signori Prencipi, e Cardinali con estrema vivezza di parole, e prontezza di ben aggiustate risposte, quantunque la temperasse con la Religiosa simplicità, che professava. Era nel tratto sommamente gioiale, aborrendo certe rozze malinconie spiacevoli all’humana conversatione. Diceva, e non di rado motti dolcemente arguti tal’hora in lingua Spagnola, o Siciliana, co’ quali nelle communi ricreationi gloriavasi di servire alla modesta allegrezza delle sue Religiose.

[…] Era naturalmente così tenera di cuore, e cotanto compassionevole verso le sue Religiose, che se gli rendeva impossibile vederle patire, onde se si avvedeva, che alcuna di loro mostrasse tristezza, a tutto suo potere si studiava rallegrarla, essendo Ella di conditione lieta, e vivace. Diceva bene spesso, che in tutto il tempo, nel quale era stata Religiosa non sapeva che cosa fosse scontentezza. Da questa sua innata compassione originavasi l’esser molto liberale in spender denaro, quando conosceva esser necessario per il sollievo, e sostentamento delle medesime Religiose. L’avvisavano alcune volte le Dispensiere, che si consumava molto per condire le vivande, o in altra cosa appartenente al vitto. Al che Ella rispondeva disconvenirsi molto a quelle, che servono un sì grande, ricco, e potente Signore l’esser anguste di cuore. Che quando mancasse la provisione già fatta l’avvisassero, che harebbe fatta l’altra, solo richieder da loro, che attendessero a servire Iddio con perfettione, e lasciassero a lei la cura di provederle: esser Iddio fedele a quelli che con esattezza lo servono.

Vita della ven. Madre Suor Chiara Maria della Passione Carmelitana Scalza: Fondatrice del Monastero di Regina Coeli. Nel secolo donna Vittoria Colonna, Figlia di Don Filippo Gran Contestabile del Regno di Napoli ecc. Scritta dal padre fra Biagio della Purificatione Carmelitano Scalzo, in Roma, nella Stamperia di Gioseppe Vannacci, 1681 (Libro II, Capo XXVI, pp. 334 e segg.).

 

Salva

Lascia un commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Voci

«Se vedi la Madonna, salutala da parte mia» (Le «Lettere a una carmelitana scalza» di Giacomo Biffi)

Di primo acchito non potrei sentirmi più lontano da un cardinale, per di più tradizionalista, e da una monaca carmelitana, per quanto «impegnata e problematica». Ciò nonostante le Lettere a una carmelitana scalza del cardinale Giacomo Biffi mi hanno preso sin dal primo «Gentilissima Signorina»1. All’inizio dell’epistolario, nel febbraio del 1960, la destinataria, Emanuela Ghini – che è anche la commossa e partecipe curatrice del volume –, è infatti ancora una laica, di circa 27 anni, assistente straordinaria di filosofia all’università di Bologna, e il mittente, da parte sua, non è ancora cardinale, bensì un professore trentenne del Seminario di Venegono, in provincia di Varese. Il primo scambio verte, come accadrà poi con frequenza, su un libro: la propria tesi in teologia che d. Giacomo regala alla giovane filosofa, ma si interrompe subito, perché nel frattempo sta maturando la di lei vocazione. Quando riprende, nell’agosto del 1964, Ghini è diventata suor Emanuela, al Carmelo di Savona, e d. Giacomo è, da qualche anno, parroco a Legnano. Passano altri sei anni di silenzio, imposto dal noviziato della religiosa, e lo scambio riprende infine nell’agosto del 1970, per non interrompersi più, se non alla morte di Biffi, nel 2015.

Purtroppo le lettere di s. Emanuela non sono riportate, salvo una minima parte sul finale, ed è un vero peccato, ma un’eco non flebile di esse risuona comunque nelle lettere di Biffi, che spesso risponde a domande precise, ribatte, puntualizza, commenta le osservazioni della monaca, e lo fa con un tono scevro da qualsiasi remora di carattere «politico», da qualsiasi cautela diplomatica, come con ogni probabilità faceva la sua corrispondente. Nonostante la percezione della possibilità che le sue lettere sarebbero state un giorno pubblicate, il cardinale è sempre chiaro e diretto, nei giudizi, talvolta molto severi, come nelle battute, spesso brillanti, nelle esortazioni come nelle confessioni. Come questa, che scelgo in rappresentanza di tutte: «Pare anche a me che la vita di fede sia aspra e oscura. È molto difficile continuare a credere. Solo che l’incredulità mi sembra più difficile ancora. Mi pare di dover finire per forza tra le braccia del Padre, non tanto perché mi attirino (almeno inizialmente), quanto perché in tutti gli altri posti è, dopo un po’, impossibile stare. […] Dio abita nell’oscurità. Per me, è tutto dietro la figura di Cristo. Se smarrissi il senso di Cristo, probabilmente diventerei ateo».

Come era prevedibile, io, se così si può dire, non condivido le opinioni espresse dal cardinale, e ascolto con un certo distacco le preoccupazioni sul «destino della cristianità» dei due religiosi, che non di rado, peraltro, sono in disaccordo (e su una questione in particolare, la figura di Giuseppe Dossetti, sono in netto e doloroso disaccordo), non partecipo delle loro ansie per lo stato di salute della Chiesa, non nutro la loro fede e le loro speranze, talvolta non so nemmeno esattamente di cosa stiano parlando… Tuttavia sono rimasto avvinto dai documenti di un’amicizia che non ho bisogno di definire spirituale per riconoscerne la profondità, l’onestà e la fedeltà: una conversazione di due menti (per rispetto dovrei dire «di due anime») così intima e concreta da suscitare autentica ammirazione: «L’importante», dice presto d. Giacomo, «è che continuiamo a volerci bene e a dialogare con franchezza, senza plagiarci vicendevolmente e senza prepotenze».

E anche divertendosi, mi sentirei di aggiungere, considerando le innumerevoli battute che costellano un po’ sorprendentemente, l’epistolario. «Il senso dell’umorismo», scrive il futuro cardinale, in maniera non del tutto scontata, «è il fondamento della vita religiosa», perché «è fatto di distacco dalle situazioni unito alla simpatia e all’amore». E così, ad esempio, commentando la tendenza moderna a preferire il «cercare» al «trovare», Biffi ricorda che è stato «Lessing a dire che vale più la caccia della lepre. Ma forse perché non ha mai mangiato la lepre». Ma soprattutto, vagamente preoccupato per certe «illuminazioni» che s. Emanuela gli ha confidato, il cardinale conclude: «Credo che tra poco comincerai ad avere anche le visioni, e così saremo a posto. Comunque, se vedi la Madonna, salutala da parte mia».

______

  1. Giacomo Biffi, Lettere a una carmelitana scalza (1960-2013), introduzione e note a cura di E. Ghini, prefazione di C. Caffarra, postfazione di M.M. Zuppi, Itaca 2017.

 

Salva

Salva

1 Commento

Archiviato in Carmelitane / Carmelitani, Libri