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Ripassi (Schedine: Bienvenu; de Vogüé)

MoineOuMonialeHubert Bienvenu, Moine ou moniale? Qui es-tu? À quoi sers-tu?, France-Empire 2021. Devo confessare che mi aspettavo qualcosa di più, in virtù soprattutto di un sottotitolo che recita «Difesa e delucidazione della vita monastica», e tuttavia mi sono detto che forse anche queste brevi introduzioni al fatto monastico sono «necessarie» e possono essere utili. Sono, poi, anche sintomatiche, giacché se ne continua a scrivere e a pubblicare: devono dunque essere effetivamente difesi gli esseri umani che fanno, oggi, quella scelta? Da quali accuse? E da quale posizione possono essere accusati, cioè da chi e in nome di cosa? So che dietro queste domande può essere individuata una pericolosa forma di relativizzazione, pericolosa per i religiosi, s’intende: rispettare questa forma di vita come una delle tante possibili e legittime significa infatti togliere a essa la sua assoluta specificità. Questo è un problema che non posso che lasciare ai monaci stessi, che peraltro, mi pare, raramente si avventurano in «difese» della propria professione. In fondo, che ci abbia provato un giornalista e saggista laico, non mi sembra privo di significato. Monaci e monache per Bienvenu sono i testimoni più «evidenti» dell’amore di Dio per l’umanità e del bisogno di ricambiare tale amore: nata con il cristianesimo delle origini (e qui sarebbe interessante approfondire quella che definisco la «questione quantitativa», cioè il rapporto tra vocazione ed estensione numerica della comunità in cui essa può fiorire), «l’istituzione monastica è sempre sopravvissuta. Strettamente connessa al mistero della Chiesa, ha attraversato i secoli perché si richiama a esigenze e valori che trascendono il tempo. Dio non cambia, le parole di Cristo non passano, e l’uomo vorrà sempre “cercare Dio” in un incontro d’amore individuale. La vocazione monastica è, in questo senso, atemporale, e monaci e monache ci saranno anche domani, senza alcun dubbio».

SanBenedettoVogueAdalbert de Vogüé, San Benedetto. Uomo di Dio, traduzione di M. Magnatti Fasiolo, San Paolo 1999 (trad. Saint Benoît, Homme de Dieu, 1993). Il grande studioso (e monaco) benedettino riracconta il racconto della vita di san Benedetto fatto da Gregorio Magno (nel secondo libro dei Dialoghi). È un piacevole ripasso, non privo però di notazioni che esulano dalla dimensione, appunto, del ripasso, e che soprattutto mi ha ricordato come la clamorosa affermazione di san Benedetto e la diffusione della sua Regola non siano state esenti da una certa «fortuna»: «La fortuna di Benedetto, se così si può dire, fu di essere scelto come eroe di una biografia completa dal miglior scrittore del suo secolo e uno dei più grandi papi che abbia mai avuto la Chiesa… Immaginiamo che Giovanni Paolo II, tra due viaggi, trovi il tempo di scrivere la vita di un santo, per esempio di quel Massimiliano Kolbe che fu suo compatriota e morì cinquant’anni fa. Supponiamo che il nostro papa ci metta del talento e riesca a dare di quel religioso martire un’immagine insieme storicamente vera e spiritualmente vibrante, nella quale il popolo cristiano di oggi riconosca il suo ideale, riviva il suo dramma collettivo, senta passare la grazia di Dio. Tale fu la “fortuna” di san Benedetto». Non posso fare a meno, poi, di citare una battuta che de Vogüé si concede introducendo l’episodio della prima vestizione di Benedetto a Subiaco: «Contrariamente a un proverbio troppo ripetuto, l’abito fa il monaco. Non che basti, ma è indispensabile». Ovviamente non si tratta solo di Benedetto né semplicemente di un vestito, «ma di ricevere con esso tutto ciò che significa: la vita religiosa, com’è stata concepita, sperimentata, praticata da generazioni di monaci e com’è attualmente vissuta dai rappresentanti di questa tradizione».

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C’era una volta un uomo

«In principio vi fu Antonio.»

Comincia così Il monachesimo prima di san Benedetto, di Adalbert de Vogüé, benedettino della Pierre-qui-Vire e grandissimo erudito. Ed è proprio su questo incipit fulminante che mi sono fermato un momento, prima di proseguire la lettura. Perché sono cinque parole scelte non a caso, che forse dicono qualcosa di più di quanto dicano.

Perché non può sfuggire il riferimento altissimo all’altro testo che comincia così. Come se ci trovassimo alla prima riga del vangelo del monachesimo, come se prima di esso non vi fosse nulla… Sorprende, un po’, questo inevitabile sottotesto nelle parole di uno studioso sempre tanto misurato, un sottotesto che evoca certo un’adesione completa alla materia trattata, ma anche una punta di esaltazione a stento trattenuta.

Perché questa frase dà per scontato che già si sappia. Certo, se prendi in mano questo libro hai precise aspettative e sai perfettamente di cosa stai per leggere. Nondimeno, è più un tema musicale che l’incipit canonico di un saggio; è l’eco di un’erudizione, appunto, con radici lontane, è l’ennesima ripresa di un discorso che abbiamo già fatto e che ci apprestiamo a pronunciare di nuovo con un passo diverso: “Siamo tra noi, possiamo anche rinunciare alle consuete cautele”.

E soprattutto perché all’inizio di questa storia, dunque, c’è un essere umano. Non c’è una rivelazione, un profeta, un testo ispirato, la Divinità stessa. No, c’è proprio Antonio, «un giovane uomo egiziano di campagna», che intorno ai vent’anni si converte e fa alcune scelte: «Il suo primo programma riguarda due punti: l’attenzione a se stesso e la capacità di sopportazione. Il successivo programma ne comporta tre: lavoro, preghiera e lettura. L’ultimo, poi, ne contempla quattro: veglie e digiuni, dormire sul duro e assenza di unzioni». Deriverà quasi tutto da qui, una lunga storia fatta nonostante tutto di uomini e donne. Antonio morirà (intorno al 356) e la sua vita verrà messa per iscritto (da Atanasio, in greco) e poi tradotta e di nuovo redatta (da Evagrio). Sarà pronta così per essere diffusa ovunque nel mondo antico più o meno a ovest del Giordano (Agostino, per esempio, la leggerà nel 386, a Milano) e «servirà da prototipo a tutto il monachesimo, sia orientale che latino».

Adalbert de Vogüé, Il monachesimo prima di san Benedetto, Abbazia San Benedetto di Seregno 1998.

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