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La tecnica del nuoto (Dice il monaco, LXXXVI)

Uno degli ostacoli per me insormontabili in questo «tentativo di comprensione» è ben rappresentato da una frase che traggo dall’interessante e sapiente libretto che il camaldolese Vincenzo Bonato ha intestato a una Introduzione al monachesimo1, sotto forma di lettera a un giovane che da esso monachesimo si senta in varia misura attratto (testo cui credo dedicherò qualche altra nota). Passando in rassegna i sentimenti e gli atteggiamenti2 che caratterizzerebbero la «nostra relazione con Dio», e senza nasconderne, appunto, la «difficoltà», il monaco afferma: «L’abbandono in Dio è, forse, il sentimento più difficile da conseguire ma è anche l’unico che, liberandoci dal logoramento delle preoccupazioni, ci può infondere pace. Ciò che egli vuole è necessario che accada, mentre ciò che egli non vuole è impossibile che si realizzi». Be’, certo, commento a margine con una timida matita…

Assai opportunamente, p. Bonato accenna poco dopo alle conoscenze scientifiche che ci hanno reso consapevoli della vastità dell’universo e della nostra conseguente nullità, e al fatto che senza l’amore di Dio «saremmo proprio un niente». Quindi, «abbandonandolo, contando solo su noi stessi o addirittura vivendo sottomessi al nostro ego, corriamo il rischio di diventare realmente un nulla, divorati dal rimpianto». Ecco l’ostacolo insormontabile, per il quale accetto senz’altro l’accusa di superbia, se superbia è e non realismo, e questa è la «correzione» che per onestà propongo: non essendoci altro, dovendo contare solo su noi stessi e cercando di tenere a bada il nostro ego, riconosciamo di essere realmente un nulla, facendo il possibile con gli altri per non essere divorati dal rimpianto (e da altre cose). È poco, è qualcosa, è solo un gioco di parole? Non lo so.

A commento della difficoltà di concepire la bontà di Dio anche quando ci manda le (siamo preda delle) tribolazioni e inevitabilemente pecchiamo (sbagliamo) p. Bonato cita un efficace insegnamento spirituale di Doroteo di Gaza (ancora Gaza), e quindi:

Dice Doroteo di Gaza, monaco, agli inizi del secolo VI:

Siamo noi a non avere pazienza, a non voler fare un po’ di fatica, a non accettare di accogliere qualunque cosa con umiltà; per questo siamo fatti a pezzi [!] e, quanto più cerchiamo di sfuggire alle tentazioni, tanto più ne sentiamo il peso, ci scoraggiamo e non riusciamo a liberarcene. Ci sono alcuni che per necessità devono nuotare nel mare; se conoscono la tecnica del nuoto, quando giunge l’onda contro di loro, si curvano e si immergono finché essa passa, e così poi continuano a nuotare indenni. Se invece vogliono resistere all’onda, ne sono respinti e rigettati a una grande distanza. Come ricominiciano a nuotare, arriva su di loro un’altra onda; se di nuovo oppongono resistenza, di nuovo essa li respinge e li getta fuori, di nuovo vengono fiaccati senza concludere nulla. Se invece, come ho detto, si curvano sotto l’onda e si umiliano sotto di essa, questa passa oltre senza far loro del male ed essi continuano a nuotare quanto vogliono e a fare il loro lavoro. Così accade anche nelle tentazioni; se uno sopporta la tentazione con pazienza e umiltà, essa passa oltre senza fargli del male; se invece continua a tormentarsi, a lasciarsi turbare e a incolpare tutti, punisce se stesso, si rende più pesante la tentazione e non ne riceve profitto, ma anzi ne riceve danno3.

Forse, tuttavia, tra male vero e proprio e tentazione vi è una certa differenza…

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  1. Vincenzo Bonato, Introduzione al monachesimo, Nerbini 2021 («Orizzonti monastici»; 46).
  2. E lasciamola qui una «provocazione», che, espressa sottovoce e senza alcuna pretesa di sapienza, può anche non guastare: e se il futuro del cristianesimo fosse quello di una metamorfosi da fede in atteggiamento (complesso di atteggiamenti)?
  3. Doroteo di Gaza, Insegnamento XIII. Sopportare le tentazioni senza turbarsi e rendendo grazie, in Comunione con Dio e con gli uomini. Vita di abba Dositeo, Insegnamenti spirituali, Lettere e Detti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, p. 209. (Vincenzo Bonato dà un’altra traduzione, in cui, tra l’altro, curiosamente, «la tecnica del nuoto» diventa «l’arte del tuffo».)

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Perché piangi? (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 1/3)

NecessitaDelConsiglio«Il monachesimo di Gaza è ormai scomparso da tempo immemorabile», scrive Lorenzo Perrone, docente di Storia del Cristianesimo, e di discipline consimili, e curatore di importanti edizioni di scrittori cristiani delle origini, «ma di una “scuola di cristianesimo” di tal fatta c’è sempre, credo, molto da imparare ancora ai giorni nostri.» Non potrei essere più d’accordo, anche laddove mi azzardassi a sostituire «scuola di cristianesimo» con «scuola di umanità». Se è vero che non si può prescindere da un contesto di fede per comprendere correttamente le sue figure più rappresentative, Barsanufio e Giovanni di Gaza (senza dimenticare Doroteo, sempre di Gaza), nondimeno la «sapienza psicologica» dei due Anziani può, credo, essere di grande ispirazione anche al di fuori di quel contesto. Diciamo, forse meglio, che io, pur sprovvisto di fede, ho trovato di clamoroso interesse tale sapienza, tramandata dall’Epistolario dei due «reclusi» e alla scoperta della quale mi stanno accompagnando i saggi che il professor Perrone ha recentemente raccolto in volume1.

Lo stesso professore, peraltro, ribadisce che «le voci dei monaci di Gaza sono a mio giudizio tra quelle che meglio hanno interpretato, al di là delle stesse cerchie monastiche a loro più affini e vicine, la stessa “quintessenza” del messaggio di Gesù Cristo». Ed è molto importante sottolineare le «voci» poiché, grazie alla loro struttura a domanda e risposta, dalle lettere di Barsanufio e Giovanni è come se ci giungesse proprio la loro voce, intenta a rispondere a centinaia di quesiti di varia natura posti da una schiera di persone di varia estrazione: una perfetta rappresentazione, una rappresentazione vivente, di quella dimensione tanto complicata, rischiosa e in qualche misura tutt’oggi urgente che è la direzione spirituale.

«Padre, che cosa devo fare?» Quand’anche volessimo, com’è giusto, modificare l’appello iniziale – padre, madre –, l’accento fondamentale resterebbe sull’eterno, necessario, inaggirabile (a meno di usare potenti anestetici) «che fare?». Domanda che rimanda, appunto, alla «necessità del consiglio», perché, come dice Barsanufio basandosi sulla Bibbia, «non c’è nessuno che non abbia bisogno di un consigliere, se non Dio che ha creato la sapienza». Una negazione dell’autosufficienza dell’individuo che porta, per così dire, dritti nel Novecento e oltre, quando, in assenza di Dio, o nell’ombra del suo allontanamento, il fondamento del «consiglio» diventa un problema che sono in grado soltanto di nominare. Mi limito qui a osservare che lo sbriciolamento del fondamento del consiglio non ne intacca tuttavia la necessità.

Prima di provare ad addentrarmi nei testi che illustrano la questione, mi preme tuttavia sottolineare il tono mite e dolce che pervade le testimonianze che più da vicino ci raccontano le dinamiche della direzione spirituale nell’esperienza dei monaci di Gaza. E per farlo mi appoggio a un episodio tratto dalla Vita di abba Dositeo di Doroteo di Gaza2 (sulla quale dovrò poi tornare estesamente).

Affidato alle cure di Doroteo, Dositeo è un giovane novizio pieno di entusiasmo che esegue in letizia tutto quello che il suo padre spirituale gli dice di fare, in particolare nel servizio di infermeria. Qualche volta però, essendo umano, perde la pazienza e magari sbotta con uno dei malati. Se ne pente all’istante e si chiude nella sua cella a piangere. Gli altri confratelli provano a consolarlo, inutilmente, e allora chiamano Doroteo, che lo raggiunge «e gli chiedeva: “Che c’è, Dositeo? Che cos’hai? Perché piangi?”. E Dositeo rispondeva: “Perdonami, carissimo! Sono andato in collera e ho trattato male un mio fratello”.» Doroteo lo rimprovera: non lo sai che se fai del male a un fratello lo fai a Cristo? Dositeo continua a piangere, in silenzio, ma «quando vedeva che aveva pianto abbastanza, Doroteo gli diceva: “Dio ti perdoni. Su, da questo momento ricominciamo. Impegniamoci per il futuro e Dio ci aiuterà”».

Ecco, a me sembra che il senso di tutto stia in quel «perché piangi?», in quel «pianto abbastanza» e infine in quel «su, ricominciamo».

(1-segue)

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  1. Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021.
  2. Doroteo di Gaza, Vita di abba Dositeo, 6, in Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di Lisa Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, pp. 68-69.

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Un viaggio fatto in compagnia e nella mutua comprensione (Dice il monaco, LXXIV)

Non di rado – diciamo la verità: molto spesso – quando mi dispongo, ancora e nonostante tutto, a registare qui qualche nota circa le mie «letture monastiche» la tentazione di limitarmi a una serie di citazioni è molto forte, sia perché imbattersi nei fili che si annodano all’interno di una tradizione bimillenaria è tra i fatti più interessanti che possono capitare al lettore, sia perché, più semplicemente, mi dico: che cosa vuoi mai poter aggiungere?

Ecco dunque che, leggendo un luminoso «libretto» di Irénée Hausherr1, apprendo che la preoccupazione di non fraintendere la solitudine monastica (errore in cui sono incorso a lungo) sorge contemporaneamente alla nascita dell’aspirazione alla medesima. «I cristiani che erano monaci», precisa Hausherr, «i veri cristiani che i monaci volevano essere, non potevano assolutamente amare la solitudine per se stessa»: la solitudine non può essere un fine, bensì un mezzo, «eccellente mezzo per giungere a una più grande unione con Dio e, quindi, con tutta la comunità della carità: Dio e i figli di Dio».

Argomento fondamentale, che il «non credente», distratto da risonanze le più diverse del concetto di solitudine, deve capire bene se non vuole correre il rischio, appunto, di fraintendere. E l’aiuto, uno «splendido» aiuto suggerito da Hausherr, giunge qui da un grande «padre del deserto», Doroteo di Gaza, del quale «è opinione comune che fosse una persona di rara spiritualità. Con parole semplici, ma al tempo stesso ben compaginate ed evocatrici, egli penetra gli abissi dell’esistenza umana, che analizza con rispetto e precisione»2.

Leggendo Doroteo, e analizzando proprio il rapporto tra solitudine e comunione, Konstantinos Skouteris sottolinea che «la vita in Cristo, anche nella sua forma monastica, non è mai un viaggio solitario, ma piuttosto un viaggio fatto in compagnia e nella mutua comprensione. Per Doroteo il punto di partenza per il progresso spirituale sono la consapevolezza dell’uomo che egli non può esistere solo come unità autonoma e indipendente e la coscienza che egli non può guidare se stesso».

(Tra parentesi, non è forse un’immagine di felicità, questa: un viaggio fatto in compagnia e nella mutua comprensione?) E quindi:

 

Dice Doroteo di Gaza, monaco, agli inizi del secolo VI:

Perché comprendiate il senso del discorso, vi propongo un’immagine tratta dai padri. Immaginate che per terra vi sia un cerchio, ovvero una linea circolare tracciata con il compasso a partire da un centro. Si chiama centro il punto che sta proprio in mezzo al cerchio. Prestate attenzione a ciò che vi dico. Immaginate che questo cerchio sia il mondo, che il punto centrale del cerchio sia Dio e che le linee che dalla circonferenza arrivano al centro siano i cammini o i modi di vivere degli uomini. Poiché dunque i santi, nel desiderio di avvicinarsi a Dio avanzano verso l’interno, nella misura in cui avanzano si avvicinano a Dio e gli uni agli altri; e quanto più si avvicinano gli uni agli altri, tanto più si avvicinano a Dio. Immaginate allo stesso modo la separazione. Quando infatti si allontanano da Dio e si ritirano verso l’esterno, è chiaro che quanto più si ritirano e si allontanano da Dio, tanto più si allontanano gli uni dagli altri, e quanto più si allontanano gli uni dagli altri, tanto più si allontanano da Dio. Ecco, tale è la natura dell’amore. Nella misura in cui siamo lontani e non amiamo Dio, nella stessa misura ciascuno di noi prende le distanze dal prossimo; se invece amiamo Dio, quanto più ci avviciniamo attraverso l’amore per lui, tanto più siamo uniti all’amore del prossimo, e quanto più siamo uniti al prossimo, tanto più siamo uniti a Dio.

♦ Doroteo di Gaza, Insegnamento VI. Non si deve giudicare il prossimo, in Comunione con Dio e con gli uomini. Vita di abba Dositeo, Insegnamenti spirituali, Lettere e Detti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, pp. 145-46.

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  1. Irénée Hausherr, Solitudine e preghiera. La tradizione esicasta, traduzione a cura delle benedettine del Monastero Santa Maria madre della chiesa e San Benedetto di Pontasserchio, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2018.
  2. Konstantinos Skouteris, Conversione a Dio e comunione: l’immagine del «cerchio», in Il deserto di Gaza. Barsanufio, Giovanni e Doroteo, Atti dell’XI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (Bose 2003), a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2004, pp. 275-89.

 

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Legna sottile (Dice il monaco, I)

Dice* Doroteo di Gaza (sec. VI):

Vi faccio un esempio perché possiate capire. Chi accende il fuoco ha soltanto un piccolo pezzo di carbone infuocato: questo carboncino è la parola del fratello che ci ha offeso; non è che un carboncino; che altro può essere la parola di un tuo fratello? Se la sopporti, spegnerai il carbone. Ma se cominci a pensare: «Perché mi ha detto queste cose? So io come rispondergli!», e: «Se non avesse voluto offendermi, non l’avrebbe detto. Sappi che anch’io so come fargli del male!», allora metti sul fuoco della legna sottile, come chi accende il fuoco, e fai del fumo: il turbamento. Il turbamento consiste nel rimuginare i nostri pensieri fino a eccitare il nostro cuore, e questa eccitazione diventa audacia temeraria.

Insegnamenti, 14, 154, citato in AA.VV., Il deserto di Gaza. Barsanufio, Giovanni e Doroteo, Edizioni Qiqajon, Bose, 2004, p. 297.

(* Nuova rubrichetta: «Dice il monaco».)

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