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Ogni consolazione che noi addomandiamo per utilità di nostra vita (Voci, 29; san Gregorio Magno)

Gregorio MoraliLa condanna al «non va mai bene niente» in una mirabile pagina di san Gregorio Magno, dal libro VIII dei suoi Moralia in Job (in un volgarizzamento trecentesco, ancorché un po’ «succinto»):

Questo [le conseguenze della superbia dell’uomo] vedremo noi più chiaramente se in questa natura atterrata noi consideriamo in prima la gravezza della carne, e appresso quella del corpo. E per questo mostrare non voglio che diciamo de’ diversi dolori che noi sostegnamo, né delle percussioni delle febbri dalle quali siamo continuamente affannati, né delle molte e varie infirmità corporali. Ma senza questo possiamo dire che ogni sanità del nostro corpo sia piuttosto infirmità. Or vedi questo chiaramente: se noi stiamo in ozio, o in pigrizia, il corpo si guasta; se stiamo in esercizio, vien meno per fatica; spesse volte il corpo ha fame, e allor conviene che col cibo sia sostentato; quando è troppo ripieno di cibo, o che è affannato per troppo mangiare, convien che sia alleggerito con astinenza. Spesse fiate si bagna, acciocchè non si guastasse per troppo umidore. Vedemo ancora che tale nostra natura convien che alcuna volta sia affaticata, acciochè non si corrompesse per troppo riposo; altra fiata conviene che si riposi, acciocchè non venisse meno per troppa fatica; dopo la fatica del vegghiare convien che si ripari col sonno. Quando è gravata di troppo dormire, s’aiuta col vegghiare. È coperta di vestimenti, acciocchè non si guasti per lo freddo; quando ha ricevuto troppo caldo prende il refrigerio del vento. E in questo modo riceve in sé medesima difetto per quella cosa per la quale ella si pensava fuggire. Sicché possiamo dire che la natura nostra, essendo così male ferita, sente sempre nuove infirmità per la medicina sua. Per la qualcosa ben possiamo dire che senza le febbri e i continui dolori ogni nostra sanità sia piuttosto da esser chiamata infirmità, dipoichè mai in essa non manca il bisogno della medicina: onde ogni consolazione che noi addomandiamo per utilità di nostra vita si può chiamare medicina contra alcuna infirmità che noi sentiamo. Sicchè quanti sono i diletti, ovvero sollazzi corporali, tante si può dire che sieno le nostre infirmitadi, e ogni medicina la quale noi prendiamo per fuggire tali infirmità, ritorna in infirmità nuova; perocchè usando noi un poco superchio il rimedio che noi prendiamo, ci ritorna in infirmità quello che noi abbiamo preso per medicina.

E certo ben fu convenevole che in questo modo fusse corretta la nostra presunzione e così abbattuta la nostra superbia. Onde perché una volta avemo lo spirito superbo, ecco che continuo portiamo con noi il loto, cioè la corruzione di questo corpo.

Ora veggiamo se noi siamo gravati d’infirmitadi della parte dell’anima. Certo non sono minori le sue gravezze che quelle del corpo. L’anima nostra, dipoichè fu schiusa da quella sicura allegrezza de’ veri beni, certo continuamente sente nuove afflizioni. Che ora è ingannata per speranza, ora è angosciata per paura; ora vien meno di dolore, ora è rilevata per falsa allegrezza. Con tutta sua pertinacia ama queste cose transitorie, e quando le perde è abbattuta senza consolazione, perocchè essendo essa sottoposta a queste cose mutabili conviene che si muti secondo la mutazione di quelle: onde quando ella addomanda quel che ella non ha, se lo prende alcuna fiata con sua fatica; e quando l’ha ricevuto, le incresce d’averlo addomandato con tanta sollecitudine. Spesse volte ama quello che essa aveva avuto in dispregio, e spesse volte dispregia quello che essa amava. Alcuna volta la mente con molta sua fatica riceve alcun conoscimento delle cose eterne, e subitamente le passano della memoria, se ella comincia punto a voler rimanere di tale fatica con molto affanno, e per lungo tempo va investigando di poter sentire alcuna particella di quelle cose di sopra; ma di poi l’è molto più agevole a ricadere tosto a quello ch’ella aveva usato di fare, e così non sa perseverare eziandio per picciol tempo in quello che essa aveva trovato. Desidera l’anima d’essere dirozzata, cioè di diventare savia, e con molto suo affanno vince in sé medesima alcuna volta la cecità della ignoranza: e dipoichè è diventata bene ammaestrata le conviene combattere contra la vanagloria della scienza sua. Affaticasi ancora l’anima, e appena si può sottomettere la iniqua tirannia della carne sua; e nientedimeno dopo questo si sente in sé medesima l’immagine della sua colpa, la quale essa aveva già vinta di fuori di sé coll’opera.

Levasi la mente a contemplare l’altezza del suo creatore, ma appresso ella è confusa della oscurità delle cose corporali. Vuole ancora la mente considerare di sé medesima, come ella, la quale è senza corpo, regga il corpo suo, e non può. Va ricercando quello che potesse rispondere a sé medesima, e a questo non è sufficiente: e così vien meno in quello che ella con molta prudenza addomandava. E in questo modo possiamo dire ch’ella si vede esser grande e piccola, larga e stretta; perocchè se ella non fusse larga, già non andrebbe cercando cose tanto malagevoli ad investigare: e dall’altra parte s’ella non fusse stretta, già troverebbe quello ch’ella addomanda. Ben dice adunque: Tu m’hai posto contrario a te, e sono fatto grave a me medesimo. E certo così è vero, perocchè l’uomo così discacciato sente in sé medesimo le contrarietà della carne e le questioni della mente, e così egli medesimo è a sé stesso grave peso: perocchè da ogni parte è aggravato di fatiche, e da ogni parte angosciato d’infirmitadi. Così, quello il quale partendosi da Domenedio si credette esser bastevole alla sua quiete, non trova in sè medesimo alcuna cosa se non continui affanni di turbazioni.

♦ I Morali del Pontefice S. Gregorio Magno sopra il Libro di Giobbe; volgarizzati da Zanobi da Strada, Protonotario Apostolico, e Poeta laureato contemporaneo del Petrarca, in Roma, per gli eredi Corbelletti, 1714.

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Capre, asini e mosche (Voci, 28)

Dalla vita di Camilla Battista da Varano (1458-1524). Cap. VIII. Fervore e Zelo nel Divin Servitio

VitaBattistaVaraniQuando Dio comandò che nel Tabernacolo si conservasse il fuoco, e che vi fusse mai sempre materia per mantenerlo, volle con tal cerimonia dare ad intendere che il fuoco, che dovea mandare esso in terra, non si debba estinguere nel Tabernacolo del Cuore, ma bensì aggiungervi in ogni tempo motivi per fomentarlo, al che sì come sono tenuti tutti i fedeli, così pare che molto più lo debbano fare coloro che astretti co’ voti s’impegnarono ne’ ministeri Divini: la mente loro appunto sembrar deve il Roveto di Mosè sempre circondato da fiamme, che non consuma, ma perfettiona, che non in cenere, ma in partecipata Divinità trasforma.

Di questo fuoco celeste bramò Battista ch’ardessero i Religiosi, cioè che con un fervor vehemente s’alzassero al Cielo e che scotessero ogni stupidezza e tracotanza dal Cuore, assomigliando il zelo dell’anime infervorate all’oro di cui si dice nell’Apocalissi: Suadeo tibi emere aurum ignitum ut locuples fias [Suadeo tibi emere a me aurum ignitum probatum ut locuples fias, «Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco», Ap, 3, 18] Con questo mistero gl’ornamenti del Tempio e del Tabernacolo erano vestiti & ornati d’oro, all’istessa guisa ogni attione del Claustrale dovrebbe con quest’oro e zelo infocato risplendere, onde è che andava ricordando ad un suo Discepolo che havesse l’occhio dell’intelletto vigilante in maniera: «Ne unquam obdormiat in somno pigritiae et negligentiae. E sappi – li va inculcando – che regnum Coelorum vim patitur et violenti rapiunt illud. Questa parola Evangelica dice quella tua Madre che gl’è stata posta nel cuore dallo Spirito Santo in guisa tale che, e dormendo e vigilando, l’ha fatta sollecita, havendo sempre fisse nella memoria le sopranotate parole: Regnum Coelorum etc.

«Quello che dir voglio è questo, che non ti addormenti nella Santa Religione del sonno che occupa molti, i quali entrati che sono nella Religione, si scordano del primo fervore e tutto il ben che fanno è da essi operato senza una minima mental consideratione. Seguitano gl’ordini, le cerimonie e gl’instituti della Santa Religione appunto come fanno le Capre, le quali quando vedono che una salta le altre la seguitano e non sanno il perché. Così l’addormentato Religioso seguita l’osservanza che ha presa e non considera che sia di ciò ragione; interviene a questi come all’Asino, che porta il vino e beve l’acqua: così questi tali durano estrema fatica con poco, poco, poco frutto, perché sì come la materia senza la forma non è bella, né men utile, così l’opera fatta senza intentione non piace a Dio, né à voi apporta utilità, perché se bene l’opera virtuosa è in se stessa lodevole, è nondimeno a guisa di materia, alla quale se la forma, che è la buona intentione non s’accompagna, è senza pro l’operatione, e stolto vien tenuto chi la fece.

«Tu fa da sapiente e prudente, né volere imitare le vestigie de’ pazzi, ma in ogn’opera tanto picciola come grande (mentre spirito di vita havrai) leva l’occhio della mente a Dio, colà santificando la sua intentione, sopportando per amor di Dio ogni cosa avversa, e per amor dell’istesso Signore fa oratione, leggi, canta l’officio, lava pentole, scopa la Casa & essercitati in tutte l’opere della Carità, così verso i sani, come verso gl’infermi, e credimi, che se ti habituarai nel dir con la mente, mentre fai le sudette cose: Signore Dio, io le faccio per vostro amore, lo dirai anche non pensandoci. Così ha fatto la tua diletta Madre, benché in simili essercitij poco s’habbi potuto adoperare per la lunga sua infermità e debolezza di Corpo, e nondimeno (e sia detto a tuo essempio) s’è portata in modo, che ben con verità si può dire, che ella habbi più fatto che non poteva. Questo lo sa Dio, e la di lei conscienza.

«Ti do dunque per consiglio che procuri d’havere il desiderio sempre acceso di far penitenza, e non ti curare di regolarti a tuo modo nell’esteriore, ma serva mandata Patrum tuorum, perché in tal guisa non poco meritarai appresso la Santissima Trinità, la quale solamente risguarda il cuore e però studia che questo sia di continuo infervorato di carità, perché alla pignatta che bolle non s’approssimano le mosche, ma bensì in quella che è tepida, nella quale anche s’annegano. Dall’anima che bolle a forza di fuoco del Divino amore fugge e s’allontana il Demonio e tutti li pensieri immondi, ma nell’anima intepidita nella carità e fredda nell’amore s’ingolfano solamente, e vi si annegano le mosche della vanità e dell’inutili cogitationi, dal che ne deriva il pestifero sonno dell’anima negligente. E quindi avviene che molti dormono nella Santa Religione, e dormendo si sognano d’acquistare la perfettione; ma nel tempo della morte vedranno la falsità de loro sogni e chimere, perché si trovaranno le mani piene di mosche di Diaboliche illusioni.

«Però Reverendo mio figlio in Christo apri gl’occhi e procura di non giuocarti questi pochi giorni che ti restano di vita. Sta’ vigilante e fervente.»

Vita della Beata Battista Varani, Principessa di Camerino e Fondatrice del Monastero di S. Chiara. Ordinata, ampliata & illustrata con varie riflessioni spirituali & eruditioni da Matteo Pascucci, Prete della Congregatione dell’Hospitio di Camerino, con l’aggiunta di alcune Operette Spirituali della medesima nel fine del Libro, Macerata 1680, presso Giuseppe Piccini, pp. 164-65 (che si può consultare qui).

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La libertà che talvolta altri si prendono (Voci, 27)

CnstitutionsPortRoyalVIII. Svelamento dell’interiorità

Occorre che [la novizia] nutra un’apertura del cuore che vinca la ripugnanza che può avere nel far conoscere le sue debolezze, di modo che in lei non accada alcunché di sì poco rilevante che non ne metta a conoscenza chi cura la sua condotta ancor prima che venga interrogata. Deve perseverare in questa pratica nella speranza che Dio la libererà da tutte le cose cattive che avrà messo in luce nel suo cuore con un umile svelamento di se stessa, invece di nasconderle per paura di essere umiliata, consentendo che mettano radici tanto forti da non poter essere strappate via da un’altra zappa. E deve anche scoprire il bene che si manifesta in lei, così come i buoni movimenti dell’anima che Dio le susciterà, o la grazia che le farà di praticare qualche virtù; non per vantarsene, o per compiacersi vanamente dei doni che Dio le avrà fatto, bensì semplicemente per non nascondere alcunché a coloro che la guidano, in modo che, conoscendo il bene e il male in cui si troverà, la possano aiutare a superare le sue colpe e a trarre maggior profitto dal bene, praticandolo nel modo che Dio avrà stabilito per lei.

IX. Umiltà

Deve manifestarsi in lei un sincero amore dell’umiltà, quale continuazione dello spirito di penitenza che deve avere per essere veramente Religiosa, e che deve essere tanto forte da soffocare nel suo cuore il desiderio di stima, di modo che si giustifichi con difficoltà, e solo quando è costretta a farlo. Non si arrabbi se viene umiliata; non giudichi sbagliato se viene rimproverata un paio di volte più severamente di quanto creda di meritare, o anche quando è accusata ingiustamente, se Dio così vuole; si umili come dice la Regola, inginocchiandosi non appena sarà ripresa, senza esaminare se a ragione o no; abbia rispetto e cortesia per tutti, in particolar modo per le anziane, perché è conseguenza necessaria dell’umiltà, ma anche perché la gentilezza interiore produce quella esteriore: una persona veramente umile si considera nel suo cuore l’ultima di tutti, per un gran numero di ragioni che la grazia le rivelerà, e in virtù di questo sentimento porterà rispetto a tutti. Questa medesima virtù impedisce all’anima che ne è riempita di immischiarsi in cose che non la riguardano, perché ha una buona opinione di coloro che vi sono preposti e sa di non doversene preoccupare; d’altra parte sa accettare la libertà che altri talvolta si prendono di immischiarsi nelle cose che la riguardano, perché si stima incapace in tutto e vuole che anche gli altri lo credano; condizione essenziale, questa, in una Religiosa, e che deve estendersi in genere a qualsiasi cosa, senza eccezioni.

♦ m. Agnès Arnauld [1593-1672], Les constitutions du monastere de Port Royal du Saint Sacrement, 1675; Avis à la Maistresse des Novices.

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Non dire poi «io non lo sapevo» (Voci, 26)

PredicaFrateFrancesco

Dico che Iddio vuole spianare sprofondare guastare ogni cosa, sarà dappertutto sangue, per le strade, per li fiumi sangue, laghi di sangue, andranno i capi a galla di là in qua nel sangue; ti dico avete veduto della tribolazione, vedrete ancora della maggiore appresso; vedrete falsi profeti, false interpretazioni di scritture, falsi frati. Ora io ti dico e tieni bene a mente, scrivete in pietra queste parole: starassi tre anni senza messe, senza sacramenti, non troverete chiese aperte, e quelle che si troveranno aperte saranno disfatte e sconquassate, non si troverà religiosi che ti amministrino i sacramenti, e il ben fare, e non sarà fede né clemenza tra le persone, ammazzerà il padre il figliuolo, l’uno cognato l’altro, intendimi bene e non dire poi «io non lo sapevo». Ha giurato Iesu Christo che non cesserà questa tempesta insino a tanto che non sia levata la feccia. Non so più che mi dire, io ho aperto il sacco e ho gridato quanto posso e non sono creduto; io ho detto che non ci ha a rimanere chierica rasa, hanno a essere Vescovi doppi, scempi della parte del Diavolo faranno cose grandissime; due immissioni di diavoli sono sciolte dallo inferno, vedi pur quello che si sa che si è già fatto più male da diciotto anni in qua che in cinquemila anni passati; non c’è più semplicità, ogni cosa è malizia. Ricordami aver udito dal nostro padre che li huomini andavano senza mutande, in fino in trent’anni le donne non portavano un paio di scarpette bianche perché era tenuta cosa da meretrice: va’, vedi oggi come le vanno, o Firenze ribalda, li fanciulli e le donne sono diventati usurai, se non fai quello ti dico guai a te, confessati, dico, sette professioni, fate elemosina come io v’ho detto. Tu non credi a tua posta. Io per me non te ne darei un fico, guai alli huomini, guai alle donne, guai a fanciulli, guai a coloro che haranno mala fantasia nel cuore. Se non vi date a Dio egli ha dato la sentenza, se non mutate le vesta, se non fate confessione e processione e li capi vostri e a chi appartiene le facci fare, altramente ha giurato Iesu Christo, e tieni bene a mente, e questa è la terza volta ch’ha giurato Iddio di mandare a terra case e palazzi e rovinare ogni cosa. Voi non mi credete. Datevi ad intendere che Iddio verrà qua a mettervi la corona in testa: donne datevi ad intendere che ’l Signore v’abbia a fare Imperatrice. Io vi dico: se voi non vi convertirete e se qualche persona non si mette fra Dio e voi, che guai a voi! Io vi dissi l’altro giorno, tenete bene a mente, e così vi ricordo: che di quella misura misurate altrui, sarete misurati voi; voi rubate, sarete rubati; voi assassinate, sarete assassinati; voi ammazzerete, sarete ammazzati: questa sentenza è determinata, aspetta Iesu Christo e non c’è tempo.

♦ Predica di frate Francesco da Montepulciano, de’ frati minori conventuali di San Francesco. Fatta in S. Croce di Fiorenza, a dì 18 di Dicembre 1513. Raccolta dalla viva voce del Predicatore per Ser Lorenzo Vinoli, notaio Fiorentino, mentre che predicava, in Fiorenza, con privilegio, nella Stampa Ducale, 1569.

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Arrabbiato Satanasso (Voci, 25)

AnnoBenedettino3

Dalla Vita di S. Ludgarde [Lutgarda di Tongres (di Aywères)]

I Demonj fecero sovente tutti gli sforzi per travagliare la Santa. Le apparivano in figure orribili, e le annunziavano sempre alcun accidente funesto per metterla in terrore: ma ella mostrava loro di sprezzarli, sputando contro loro e non prendendosi pena di udirli. Pres’ella tal impero sopra questi superbi spiriti, che fuggivano da lei ed avevano in orrore il luogo dov’ella faceva orazione. Questo è l’effetto delle promesse del Salvadore, e della vittoria che riportano i Fedeli sopra i maligni spiriti: voi vi metterete sotto i piedi (dice la Scrittura) l’Aspide, e il Basilisco, e calpesterete il Lione, e il Dragone. Quantunque questa mirabile figliuola non intendesse i Salmi, de’ quali avea rinunziata la intelligenza con una modestia che a mio credere non ha esempio, ella ne cavava alcuni versetti per porre in fuga i Demonj: per l’ordinario servivasi di quello col quale noi cominciamo tutte le ore dell’Offizio Canonico «Deus in adjutorium meum intende», col quale si liberava anche da cattivi pensieri. […]

Un giorno, che cantava il Vespero con fervore impareggiabile, una monaca vide uscire una fiamma di fuoco dalla di lei bocca, che dinotava visibilmente il fuoco della di lei carica e divozione. Ma la cosa più mirabile in lei era la profonda umiltà che conservava in mezzo di queste cose rare e sublimi che Dio in lei operava, considerandosi sempre piccola innanzi a suoi occhi, quanto era grande agli occhi altrui. Questo è il carattere del Figliuolo di Dio: questo è il sigillo che imprime sopra le opere sue, e quando un’anima non porta questa marca, la di lei santità non è che una illusione ed un inganno. […]

Eccovi un nuovo favore del suo diletto, una grazia che non concedesi che a persone fedeli e che conoscono la virtù della Croce. Essendo una sera tutta rapita nella passione di Nostro Signore concepì una sete intollerabile di patire per lui, morendo di dolore per non essere stata in quel secolo nel quale i tiranni perseguitavano la Chiesa. Le venne allora in memoria S. Agnese, la di cui felicità accese in lei una sì santa invidia, che le si ruppe alla fine una vena dal cuore: martirizzata in questa maniera, per mano d’amore versò in tal copia il sangue, che ne restarono inzuppati i suoi abiti, e talmente diminuita la sua forza ch’era quasi in agonia. Apparvele in questo stato Nostro Signore, con viso assai lieto, e le promise che per l’ardentissimo desiderio che avea avuto del martirio otterrebbe in Cielo il medesimo premio di S. Agnese. Fu vedut’altre volte tutta di sangue coperta mentre meditava questo istesso mistero, ed avvenne che avendola un prete ritrovata nella violenza del suo dolore le tagliò secretamente parte de’ di lei capelli che distillavano sangue; ma si disseccarono nelle sue mani, quando cessò la effusione della Santa.

Le straordinarie sue grazie mossero una Religiosa di Euvière a indrizzarle suo padre nobil uomo di condizione, e ricchissimo, ma schiavo del Demonio. La Santa posesi di buona voglia ad affaticarsi per la di lui salute, cominciando dal fare per lui fervorose orazioni. Arrabiato Satanasso contro lei, apparve ad un’altra Monaca e dissele: Donna Ludgarde si sforza di rapirmi il Cavaliere Reniero, che mi serve da tanti anni: impieghi pur ella la sua autorità: l’affare anderà in lungo, e quando io non facessi altro che ridurre questo uomo alla ultima miseria, sono sicuro di riuscirvi. Infatti questo Cavaliere dopo la sua conversione non avea un pezzo di pane da mangiare, ma in ricompensa diventò ricco per il possesso di una eroica pazienza, e mori finalmente ottimo Religioso di San Benedetto, nel Monastero di Afflighen.

♦ Jacqueline Bouette de Blémur (Mère de Saint-Benoît), La vita di S. Ludgarde, in Anno benedettino, ovvero Vite de’ Santi dell’Ordine di S. Benedetto distribuite per ciaschedun giorno dell’anno, opera tradotta dal Franzese nello Idioma Italiano, tomo terzo, che contiene li Mesi di Maggio e di Giugno, Venezia 1727, presso Francesco Storti, pp. 380-81.

 

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Senza ambizione, senza litigi, senza inquietudini (Voci, 24)

Prefazione. Cap. VII. Ritratto di un vero Monaco Benedettino

Un Benedettino imbevuto dello spirito della sua Regola è un Uomo unicamente occupato in Dio e nelle cose del Cielo; egli sempre passa da esercizj in esercizj santi e serj, che lo mantengono nella pratica delle più sublimi virtù e nella considerazione delle principali verità della Religione; ardentemente acceso dall’amore delle verità eterne e delle perfezioni divine, impiega la maggior parte della notte in cantare le lodi del suo Creatore, in ascoltare la di lui parola ed in meditare le di lui grandezze. Le ore della tavola per esso lui non passano oziose, poiché anche in tal tempo egli pasce l’anima sua colla lezione che ascolta, frattanto che frugalmente pasce il corpo; dorme poco, mal agiato ed austeramente, imperocché dorme vestito e calzato, coricato sopra una nuda stuora o sopra un semplice pagliericcio, in mezzo a’ suoi Fratelli, osservato da’ Superiori, non potendo fare il menomo moto senza essere conosciuto e ripreso; fa lezioni lunghe e meritorie, non leggendo se non libri datigli dalla mano del Superiore, leggendoli da un capo all’altro, e sempre in pubblico ed in mezzo alla Comunità; osserva un continuo silenzio; affatica molte ore del giorno; vive in una dipendenza assoluta e generale; professa un’ubbidienza che va fino all’impossibile, e non solo si ristrigne ai comandamenti de’ Superiori, ma si estende ancora a quelli de’ suoi eguali, e de’ suoi inferiori; vive talmente alieno dalle cose mondane, da’ piaceri, da’ passatempi, che non gli è tampoco permesso di scrivere, né di ricevere una lettera; di dare, né di ricevere qualunque menomo donativo, senza licenza del suo Superiore; non può uscire dal Monistero senza il di lui consenso, né mangiare fuori del Chiostro ogni qualvolta possa dentro lo stesso giorno ritornare a casa [trovo questo «ritornare a casa» particolarmente, sì, dolce e significativo]; se falla, quantunque leggermente, è ripreso, e severamente castigato in pubblico; è obbligato agli esercizi più faticosi e più abietti della Cucina e del Refettorio; in tutta la giornata non ha un momento in cui non sia impiegato ed in cui possa dire di essere in sua libertà. Ecco il ritratto di un Monaco, quale ce lo descrive S. Benedetto, e quale in realtà fu egli medesimo, e lo furono i di lui Discepoli più perfetti.

Gli antichi Istitutori degli Ordini Monastici, ed in particolare del Benedettino ànno sempremai considerata la pace, la tranquillità, la solitudine, il silenzio e l’orazione come i mezzi più sicuri, per fomentare la buon’armonia e per mantenere ne’ Monisteri il buon ordine, il raccogliemento, la carità e la Religione. L’ospitalità nell’Ordine di S. Benedetto, tanto considerata e praticata con tanto zelo, non disturbava punto né la solitudine de’ Monaci, né la calma de’ loro Chiostri; questa si praticava al di fuori ed in appartamenti a tal effetto assegnati, dove eravi la cucina, e dove stavano i Monaci deputati per accogliere i forestieri; l’Abate mangiava con esso loro, faceva con esso loro conversazione, gli edificava e dava loro ogni contrassegno di gentilezza. L’arrivo loro, tuttoché molte volte in ore incomode e poco convenevoli, non arrivava alla notizia della Comunità; per ubbidire alla Regola si lavavano loro i piedi; e se l’ora lo permettea, v’intervenivano tutti i Monaci, altrimenti se ne scieglievano alcuni pochi, i quali senza disturbare gli altri adempivano tale incumbenza. Non si sa che S. Benedetto abbia parlato di Servitori Laici e Secolari per servizio de’ suoi Monisteri; io non vedo che ne sia mai stato assegnato alcuno né alla Foresteria, né all’Infermeria; da per tutto, tanto dentro, quanto fuori del Monistero, i soli Monaci adempievano tutte le faccende, anche per quanto riguarda le mietiture e le fabbriche. Al tempo di S. Benedetto non v’era la distinzione de’ Fratelli Conversi dai Cherici, come distinti in due ordini di Religiosi differenti; la professione Monastica rendea eguali tutti quelli che componeano la Comunità.

L’Ufizio Divino negli antichi Oratorj de’ Monaci era semplice, modesto, quieto e tale che muovea a compunzione; non era né frastornato dal concorso del popolo, né pieno di cerimonie lunghe e pompose, allettative a’ risguardanti ed atte a diminuirne l’attenzione. L’Oratorio era per fare orazione: Oratorium hoc sit, quod dicitur, come comanda S. Benedetto. Questo era una fabbrica semplice, senza fasto, comoda pel numero de’ Monaci della Comunità, e nulla più. Anche al giorno d’oggi sussistono alcuni di tali antichi Oratorj, per esempio vicino a Remiremont e a Vieux-Moncier, dove anticamente era il Monistero di San Michele, nell’antico Chiaravalle ed anche in altri luoghi. Non v’era cosa più semplice e più propria ad ispirare la compunzione ed il raccoglimento di cotesti Oratorj; ivi si adorava Dio in ispirito ed in verità; si meditava la di lui legge; si cantavano le di lui lodi, ed ogni cosa spirava pietà.

Il tumulto degli affari secolareschi non frastornava punto i Solitari, che per l’amore della povertà aveano abbandonato ogni cosa, e possedendo pochissimi beni di fortuna in comune, non ne desideravano davvantaggio; imperocché vivendo essi in vera spropriazione, attendeano a coltivare la terra, a guadagnarsi il vitto colla fatica delle proprie mani, senza ambizione, senza litigi, senza inquietudini; la loro frugalità, l’economia, la fatica ed i digiuni erano i loro fondi più doviziosi ed il loro più sicuro ristabilimento; essi non pensavano se non ad imitare Gesucristo povero, e crocifisso, nell’esercizio della mortificazione e della povertà cristiana ed evangelica. Subito che si sono lasciate coteste massime, e che si sono abbandonate le strade mostrateci e battute dai Santi, svanì lo spirito delle Regole e si è oscurato lo splendore e l’onore della vita Monastica.

Commentario letterale, istorico, e morale sopra la Regola di S. Benedetto, Con alcune osservazioni sopra gli Ordini Religiosi che seguitano la stessa Regola, del Padre D. Agostino Calmet, Abate di Senona, in Arezzo, per Michele Bellotti all’insegna del Petrarca, 1751, pp. XIX-XXI.

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Gli zoccoli la sera no, mi raccomando (Voci, 23)

Capitolo XXII. Del modo, e tempo, che devono dormire le sorelle, e che tutte dormono in un Dormitorio l’una separata dall’altra

Acciocché il nostro dormire non sia immagine di morte, ma sia di riposo e fortificazione del corpo e dello spirito, discretamente ordiniamo tutte di unanime consenso che la Madre usi buona provvidenza circa il dormire delle Sorelle, dando tale ordine alla Sagrestana, che in ogni tempo dell’anno debba sonare la dormizione a tal’ora che tutte abbiano spazio di dormire sette ore fra il giorno e la notte. Onde la detta Sacrestana osservando sempre in ogni cosa l’ordine, il quale è la bellezza ed ornamento della santa Religione, dovrà avere l’orologio, e secondo che la notte manca, o cresce, così dovrà temperare la vigilia della notte con il riposo del giorno, sminuendo o crescendo la predetta vigilia secondo la varietà de’ tempi. Ed acciocché le Sorelle possino essere più ferventi alli Divini Officj, ed all’Orazione mentale, ed agli esercizj corporali, sarà lecito a tutte andare a riposare ne’ suoi letti dopo Mattutino. Nientedimeno vogliamo che sia in arbitrio dell’Abbadessa poter qualche volta proibire la dormizione dopo Mattutino secondo l’occorrente necessità.

Parimente per seguitare lo stile delle nostre Maggiori, e per conformarsi con le Religioni di Osservanza, non vogliamo che le Sorelle dormano su le piume, se non in caso di legittima necessità, come sarebbe per infermità, debolezza, ec., ma dormano sopra li sacconi di paglia, ed abbiano li capezzali di paglia, con il cuscino di piuma di sopra alli capezzali. Potranno ancora usare materassi, lenzuoli di lana, ed altre coperte, e piumazzi secondo il freddo della stagione, sempre però abbiano l’onestà, cioè l’abito indosso in contrassegno di religiosità.

Ogn’una dormi separata dall’altra Sorella nel suo letto, ed ancora nella sua cella. Le nostre coperte saranno schiavine, o fressate di poco prezzo e di poca apparenza. Tutte le Sorelle, come altresì la Madre, dormiranno in un medesimo Dormitorio, né mai dormiranno nude, ma sempre siano vestite, o di camiscia o di tonica; e se per infermità, debolezza, o vecchiaja la Madre non dormisse in Dormitorio, la Vicaria dovrà supplire le di lei veci in questo ed altri casi, quando la Madre non può fare il suo officio per le cose che ogn’ora e spesse volte occorrono.

La lampada stia sempre appesa la notte in mezzo del Dormitorio. Le finestre del Dormitorio, delle celle, dell’Infermeria, della Foresteria, della Chiesa, e generalmente tutte le finestre pericolose e sospette, sieno indispensabilmente serrate [ferrate]. Dette finestre dovranno essere tanto alte che le Sorelle non possono vedere né essere vedute da quelli di fuori del Monistero, se pure non si riponessero qualche cosa sotto de’ piedi, ovvero ascendessero in luogo eminente, la qual cosa nissuna ardisca di fare, altrimenti sia corretta col dovuto gastigo. Per tanto se qualche Sorella sarà scoperta e ritrovata stare a qualche finestra della Casa, o della Chiesa, per qualche leggerezza, o curiosità, o per esser veduta, o per vedere altri, sì fattamente dovrà esser corretta che serva d’esempio a tutte le altre.

In oltre non vogliamo che alcuna Sorella ardisca entrare nella cella dell’altra senza licenza della Madre, o della Vicaria in sua assenza; né in verun modo deve una Sorella dar licenza all’altra di entrare nella sua cella, eccettuata la Maestra delle Novizie, la quale può dar licenza alle sue Novizie di entrare nella sua camera, e così ella può entrare nelle celle delle sue Novizie per visitarle ed ammonirle quando le parerà, senza pigliare altra licenza speziale dalla Madre. Quando vi fosse necessità di dire qualche cosa alla Sorella che trovasi in cella, ciò deve farsi con poche parole e con voce sommessa, stando all’uscio fuori della cella. Siano ancora avvisate le Sorelle di non fare strepiti e disordinati movimenti in cella, o nel Dormitorio, per non conturbare la quiete corporale e spirituale delle altre.

Sonato che sarà il segno della dormizione, così di giorno come di notte, tutte le Sorelle, posposta ogni altra faccenda, vadano alle loro celle per riposare, sempre eccettuate quelle che fossero occupate nelle opere di carità, o avessero licenza dalla Madre di non dormire o di andar a dormire dopo le altre; la qual licenza deve darsi di raro, e massime alla sera, quando non fosse per estrema necessità. Quando pure alcuna restasse dietro alle altre per qualche spazio di tempo, non porti onninamente le zoccole in dormitorio. In ogni altro tempo però è lecito a tutte portare zoccole, anzi nissuna presuma di andare con li piedi nudi per terra, acciocché non le cagioni infermità.

Vogliamo di più, che nissuna Sorella ardisca dormire con un’altra: onde, come è stato detto di sopra, se una Sorella non deve entrare nella cella dell’altra senza licenza della Madre, molto maggiormente non deve una presumere di dormire con un’altra senza saputa della Madre. Quando poi le Sorelle faranno andate a dormire, la Madre, o la Vicaria, o pure un’altra a ciò destinata, dovrà chiavare le porte del Dormitorio, tenendo la chiave presso di sé fino all’ora del Mattutino.

Costituzioni per le Romite dell’Ordine di S. Ambrosio ad Nemus, Sub Regula Sancti Augustini. Escono la prima fiata in pubblico dedicate all’Em.mo Principe il Sig. Cardinal Arcivescovo di Milano Giuseppe Pozzobonelli dal Sig. D. Nicolla Sormani Dottore dell’Ambrosiana Biblioteca in nome del Monistero di S. Maria sul Monte, illustre monumento, e quasi ultimo segno della santa anacorési Ambrosiana; in Milano [1746] nella Stamperia di Pietro Francesco Malatesta.

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Bernardo e Guglielmo, convalescenti (Voci, 22)

Non sono pochi gli studiosi (Alessia Vallarsa, Paul Verdeyen, Wendelien Bara, Jean Leclercq) che mi hanno invitato a guardare al periodo passato insieme da Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo di Chiaravalle, entrambi malati, nell’infermeria di Chiaravalle, come a «un avvenimento cruciale nella storia della spiritualità occidentale», che segna «la nascita della mistica dell’amore». Quattro settimane di convalescenza, tra la fine di gennaio e il febbraio del 1128, in cui, «senza dubbio favorito dal suo isolamento forzato, Bernardo acquista familiarità con questo libro della Bibbia», e in cui «per la prima volta nella storia della Chiesa occidentale la relazione personale tra Dio e l’uomo veniva portata nel discorso, e questo nella lingua e nelle immagini del Cantico dei Cantici». Ecco come lo stesso Guglielmo racconta, con trattenuta commozione, quei giorni.

Essendo poi io [Guglielmo di Saint-Thierry] una volta dal male aggravato nella nostra Casa, ed avendomi la troppo lunga infermità di molto maltrattato e consumato, egli [Bernardo di Chiaravalle] subito che ne ricevette l’avviso, mi spedì il suo fratello Gerardo, uomo di buona rammemoranza, chiamandomi col mezzo di questo a Chiara-valle, promettendomi che io ivi incontamente dovrei o risanarmi o morire. Io allora come se divinamente mi fosse stata offerita e concessa la facoltà o di morire appresso di lui, o di vivere con esso lui per qualche tempo (delle quali cose non so quale io mi avessi scelta), mi portai subitamente colà, sebbene con molto dolore e stento.

Mi venne ivi fatto ciò che da lui mi era stato promesso, e, a vero dire, anche come io aveva desiderato. Mi fu restituita la salute da una grande e pericolosa infermità; ma le forze del corpo a poco a poco mi si restituirono. Infatti, Dio buono! qual cosa mai non mi apportò quella infermità, quelle ferie, quella vacanza ch’io ebbi, in parte a ciò che io medesimo voleva? Imperciocché in tutto quel tempo della mia infermità cooperava alle mie necessità la infermità di lui, dalla quale anch’egli allora era aggravato.

Essendo adunque amendue infermi, facevamo tutto il giorno conferenze sopra la natura spirituale dell’anima, e dei medicamenti delle virtù contro le languidezze dei vizj. Per tanto fu allora ch’egli tenne lungo discorso, per quanto gliel permise il tempo della mia infermità, sopra il Cantico dei Cantici, ma però solamente secondo il senso morale, lasciati da parte i misterj di quel Sacro Libro, poiché io così aveva voluto, e da lui anche richiesto l’aveva.

Di giorno in giorno metteva per iscritto, per quanto Dio mi assisteva, e la memoria mi suggeriva, qualunque cosa io da lui aveva udita, acciocché non mi svanisse. Nel che benignamente, e senza veruna invidia esponendomi egli e comunicandomi le sentenze del suo intendimento, e i sentimenti della sua sperienza, e sforzandosi d’insegnare a me inesperto molte cose, le quali non si possono imparare se non colla sperienza; sebbene io non poteva per anco intendere quanto mi veniva somministrato, egli però mi faceva intendere più del solito ciò che a me mancava per ben intendere le cose che m’insegnava.

♦ Guglielmo di Saint-Thierry, Vita di San Bernardo, in La vita di San Bernardo primo abate di Chiara-valle, Scritta già in Latino da diversi contemporanei e accreditati Autori, e da essi pure in sette Libri divisa; Ora nel nostro Volgare tradotta ed accresciuta di una diffusa Prefazione, di varie Appendici, di molte Istoriche e Monastiche Annotazioni, e di un Indice dovizioso delle cose più ragguardevoli; da Pietro Magagnotti, Teologo del Collegio di Padova, e Parroco di Santa Caterina; Padova, presso G. Comino, 1744. (Libro I, cap. XII, 59. Di un’altercazione di S. Bernardo col Diavolo; della sanità a lui restituita dalla Santissima Vergine e parimenti dell’Abate Guglielmo da lui sanato.)

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Alcuna cosetta di più (Voci, 21)

Della colpa leggiera. Constit. XXXVIII

Quella Monaca che non facesse bene l’officio suo, che non dicesse bene in Choro l’Antifone, Responsorij o Lettioni, & nel cantare disturbasse il Choro o Dormitorio; se le cose assignatele non le ponesse al suo luogo, se rompesse boccali, scodelle, tazze o altre cose; se ridesse dissolutamente, se attendessee a opere otiose, & nell’andare o stare non osservasse la gravità: essendo corretta, non si humiliasse così presto, per penitenza le si diano a recitare salmi, corone, Pater noster & altre orationi.

 

Della colpa mezzana. Constit. XXXIX

Chi non sarà in Choro al Gloria Patri del primo salmo; chi riderà o farà ridere le Monache dissolutamente in Choro; chi non starà con gli occhi modesti, ma vagabondi in Choro; chi non sarà al principio della colpa; chi per negligenza rimarrà dalla Messa, o commune esercitio; se mangiarà senza benedittione; se risponderà a chi la riprende; chi nega la verità, o parla con giuramento: se le darà per penitenza salmi, discipline, prostrationi in Refettorio o altre cose simili.

 

Della colpa grave. Constit. XL

Chi contenderà con alcuna & gli dicesse villania, bestemmiasse, le rimproverasse le cose passate, havendone fatta la satisfattione; chi dicesse parole dishoneste o irreligiose malitiosamente; chi seminasse discordie fra le sorelle; chi dicesse male delle Monache a secolari; chi difendesse protervamente le colpe & errori di alcuna Monaca; chi mangiasse senza licenza & non osservasse li digiuni comandati; se pigliasse le cose dell’altre: per penitenza se le diano digiuni in pane & acqua, & discipline in Capitolo in presenza di tutte le Monache.

 

Della colpa più grave. Constit. XLI

Se alcuna Monaca fusse ribella & disobbediente alla Madre Priora o Madre Sottopriora, o protervamente contendesse con loro; se una Monaca percotesse un’altra, & malitiosamente pigliasse le cose dell’altra; et chi tenesse danari o altre cose in proprio; chi desse alcuna cosa fuor di casa, overo ricevesse, o mandasse, pollize senza licenza; se rivelasse o raccontasse le cose secrete & imperfettioni delle Monache a secolari; se commettesse furto o peccato di carne o congiurasse contro alla sua Prelata: per quelle & simili colpe per penitenza sarà denudata fino alla cinta, e da tutte le Monache le saranno date cinque battiture per ciascuna Monaca con la disciplina, mangiarà in Refettorio pane & acqua cinque volte un dì sì & l’altro non; le reliquie o residuo del suo mangiare non si mescolaranno con le altre, ma si serbaranno per lei; starà alla porta del Refettorio mentre le Monache entraranno o usciranno, prostrata in terra, & le metteranno il piede sopra la gola; sia privata della Communione mentre durarà questa penitenza. Potrà la Madre Priora, secondo vedrà sia emendata, darle, oltre il pane & acqua, alcuna cosetta di più & fare che alcuna Monaca la consoli, acciò non cadesse in desperatione. Se la Madre Priora o la Madre Sottopriora commettessero alcuno de sudetti delitti, quelle che lo sapranno lo faranno intendere al Prelato, sotto pena d’incorrere nelle medesime pene, acciò gli errori non rimanghino impuniti.

 

Della colpa gravissima. Constit. XLII

Quella Monaca che sarà incorriggibile & non vorrà fare le penitenze, se le levarà la patienza & il velo, & si metterà in prigione con pane & acqua per quel tempo che parerà alla Madre Priora & Prelato. Il simile si farà a quelle Monache che fussero sospette di fare qualche nocumento nella persona della Madre Priora o d’altre Monache o nella robba del Monasterio, & volesse fuggire o precipitarsi di qualche loggia; nelle carceri si potranno anco mettere quelle Monache che havessero fatti minori delitti secondo parerà alla Madre Priora & al Prelato, & non siano liberate senza saputa del Prelato.

Constitutioni del Monasterio delle Monache Convertite di S. Maria Maddalena di Roma. Sotto la Regola di S. Agostino. Approvate, confirmate & accresciute dall’Illustriss. & R.mo Sig. Cardinale Aldobrandino Camerlengo della Santa Romana Chiesa, protettore, Roma, appresso gli stampatori camerali, 1603, pp. 95-99.

 

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Il braccio di Gregorio (Voci, 20)

Rione di Campo Marzo. II. Di S. Maria in Campo Marzo

Per la persecutione cominciata da Leone Isaurico in Constantinopoli contro ’l culto delle sante Imagini, furono forzati molti Religiosi abbandonar i monasterij di Grecia, e vennero a ricoverarsi in queste parti, tra’ quali ci furono due monasterij di monache sotto la regola di S. Basilio, che fuggendo di là portarono seco le reliquie, & imagini, che nelle chiese loro conservavano. Uno di essi pigliò porto in Napoli, dove fecero una chiesa a San Gregorio Vescovo della grand’Armenia, il cui capo havevano portato seco, con altre reliquie: a queste poi succedendo altre Vergini di Napoli cangiarono la regola di S. Basilio in quella di S. Benedetto. Le monache dell’altro monasterio sbarcarono in Campagna, hora detta terra di lavoro, e di là vennero a Roma.

Queste sopra le schiene de’ cameli condussero il corpo di S. Gregorio Nazianzeno, & alcune imagini della Beatissima Vergine, e nel passare di qua, dove era una picciola chiesa della Beatissima Vergine, i cameli non puotero muovere pur un passo più oltre, come per lunga e continuata traditione si racconta da queste monache. Poi l’anno 750 presso della stessa chiesa della Madonna ne fabbricarono un’altra, e mettendoci il corpo del sudetto S. Gregorio, da lui n’hebbe il titolo; e Papa Leone III gl’offerse molti doni […], & infino al giorno d’hoggi dentro al monasterio si vede l’una, e l’altra chiesa. Da San Zaccaria Papa, Greco di natione, hebbero questo sito, governando egli la chiesa, quando esse vennero a Roma, e gl’unì ancora quella di S. Nicolò poco lontana, con molti altri beni stabili fuori di Roma.

L’imagini poi della Madonna le posero nell’altra chiesa a lei dedicata, tra le quali una ci era fatta da S. Luca; e pare ch’ella volesse confermarcelo con un miracolo, di cui parimenti n’hanno queste madri confermata la memoria; e fu che attaccandosi il fuoco nella chiesa, trovarono quella santa imagine dentro ad un pozzo, che pure nel monasterio si vede, sospesa nell’aria senza toccar l’acqua. Con quelle due chiese stettero senza clausura infino al Concilio di Trento, […] havendo anch’elle, come l’altre di Napoli, cangiata la regola di S. Basilio in quella di S. Benedetto. Sì che restando le dette chiese rinchiuse nel monasterio, Clarina Colonna, essendo all’hora Badessa, da’ fondamenti fece questa in honore dell’Immacolata Concettione della gloriosa Vergine, nella cui solennità si consacrò l’anno 1564, ma nella vigilia si celebra la dedicatione della Chiesa.

Un altro miracolo nella sudetta Imagine raccontano queste Madri; & è che havendosi a trasportare in questa nuova chiesa, e volendola mettere sopra l’altare maggiore, deliberarono di rinchiuderla in un bel tabernacolo da farsi per mano del più eccellente scultore ch’havessero quei tempi; né altro essendovi che Michel’Angelo Buonaroti, fu da una voce sconosciuta avvisato, che vi mettesse ogni sua diligenza & arte, perciò non volse con mercede alcuna temporale essere da queste Madri riconosciuto.

L’anno poi 1580 Papa Gregorio XIII, sì per l’affetione e pietà verso S. Gregorio Nazianzeno, sì perché il sacro suo corpo stava in una picciol chiesa dentro di questo monasterio nascosto, gli parve bene che dovesse uscire a maggior luce, per essere da tutti riverito; e doppo haver fabbricato nella chiesa di S. Pietro una dignissima cappella, là lo trasportò con gran solennità, e pompa, lasciando qui un braccio.

♦ Ottavio Panciroli, Tesori nascosti dell’alma città di Roma con nuovo ordine ristampati & in molti luoghi arricchiti, Roma, per gli eredi di Alessandro Zannetti, 1625, pp. 429-30.

 

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