La chiave della vita e delle cose (Gregorovius alla Certosa di Trisulti)

È il tardo pomeriggio del 28 agosto 1857 quando, proveniente da Alatri in compagnia del «villico Francesco Romano», il grande medievista tedesco Ferdinand Gregorovius giunge a cavallo nei presso della Certosa di Trisulti, ansioso di poterla visitare. Uno splendido bosco di quercie mi toglieva ancora la vista del convento. Andando avanti vidi da lontano due frati vestiti di bianco che passeggiavano su e giù nella fresca ombra di quegli alberi maestosi, ed invidiai la quiete filosofica che sembravano godere. Se vi è un luogo in cui lo spirito umano possa raccogliersi nella più seria ed elevata meditazione, dev’essere qui in una delle più sublimi solitudini che io abbia mai visto.

Si avvicina a un monaco, ben pasciuto, e, chiesta ospitalità, viene indirizzato al padre guardiano. Nel frattempo la vista sulla Certosa si è aperta, e quel piccolo paradiso, l’Eden di quei monaci, spiccava sul fondo delle foglie verdi, solitario, fantastico, meraviglioso, circondato da una vasta animazione di persone e animali. Il guardiano accoglie il viandante senza esitazioni e lo manda dal priore, il quale, accoltolo anch’egli senza esitazioni, lo affida a un converso che lo conduce alla foresteria. Le camere non sono tutte uguali, ve ne sono di prima o seconda classe secondo la condizione dell’ospite, e al Gregorovius ne viene data una, bella, con un letto pulito, cambiato di fresco, vicina al refettorio. In attesa della cena, cui non manca molto, l’ospite è libero di vistare il monastero.

Perfetto, andiamo. Peccato, però, che vi siano poche cose notevoli nella Certosa, poiché purtroppo tutto ciò che vi era di antico è sciupato o scomparso. C’è la memoria, tuttavia, la memoria dell’Ordine, della sua fioritura, dei rapporti con il territorio circostante, della sua ricchezza per quanto non individuale. Gregorovius visita il refettorio, la cucina, brillante di pulizia, ed il forno dove si prepara in grande abbondanza un pane gustoso di due qualità una fina e l’altra più ordinaria, e si sofferma nella magnifica spezieria, di cui i monaci sono molto orgogliosi: un bel frate con una lunga barba rossiccia che gli dava proprio l’aria di un mago del medio-evo, mi ricevette nel più lindo tempio di Esculapio che si possa immaginare. Mentre il certosino illustra al visitatore il suo regno, entrano parecchi contadini per chiedere pareri o medicine (che sono date gratuitamente). La farmacia di Trisulti è assai nota ai laici, anche in terre decisamente lontane. Pare, invece, che i monaci vi ricorrano raramente: non mi ricordo di aver trovato facilmente dei frati di aspetto più robusto. La tranquillità d’animo, una dieta sempre ugualmente severa e soprattutto l’aria eccellente di quei monti li conservano in salute.

Dalla farmacia Gregorovius passa alla biblioteca, ma dopo qualche domanda che provoca l’imbarazzo del bibliotecario, lo studioso torna nel vasto chiostro e si siede a osservare i monaci e a meditare sulla loro forma di vita. Essi apparivano veramente maestosi nelle loro tonache bianche come la neve. […] Vi sono molti gradi fra i monaci, simili a quelli dei mistici seguaci di Pitagora. Non vidi i frati più elevati in grado perché erano nelle loro celle. Il silenzio nel quale si racchiudono, può esser considerato come il sacrifizio supremo a cui possa giungere il fanatismo umano spinto dalla religione. Rinunciando alla parola, la chiave della vita e delle cose, essi confinano l’anima in una quiete quasi spaventosa che equivale ad una completa cecità morale: Memento mori è il raccapricciante saluto col quale essi interrompono il silenzio incontrandosi.

Spettri viventi, li chiama, e considera le poche cose che sono loro concesse per abbellire le celle dove vivono reclusi. E considera l’immane silenzio che li avvolge, più sopportabile perché consente l’ascolto della voce di Dio, che parla nello stormire del vento, fra le foglie del bosco, nello scrosciare impetuoso del Cosa selvaggio, nella bufera che imperversa fra lampi e tuoni, su quelle alte cime. Che spiriti tetri e melanconici, conclude, devono giungere a plasmare la natura, le celle e la regola del convento! Se lo sguardo avesse la potenza di penetrare in queste anime chiuse certamente vedrebbe le cose più straordinarie.

Da queste riflessioni mi liberò felicemente la cena: si va a tavola, di buon grado (l’appetito e la curiosità erano ugualmente grandi). Il menù serale prevede: maccaroni all’olio, senza formaggio, cucinati alla perfezione, insieme con erbe squisite cresciute in quei monti, fagioli verdi, freddi, conditi con olio e aceto, un fiasco di vino, più che mediocre con una punta di aceto, e per finire un pezzo di torta cotta coll’olio.

Rientrato infine nella sua camera, il primo sonno del rispettosissimo protestante è interrotto dalla campana che chiama i monaci all’ufficio notturno. Ascoltai i rintocchi della campana, che parevano risuonare strani e fantastici nell’aria, e sarei sceso volentieri in chiesa se non avessi temuto di turbare le preghiere di quei santi uomini. Mi addormentai al suono dei loro canti e appena spuntò il giorno la mia guida venne a bussare alla porta della mia cella, per avvertirmi che era l’ora di partire.

♦ Ferdinand Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, versione dal tedesco, vol. I, Ulisse Carboni, Libraio Editore, Roma, 1906, pp. 123-34.

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