Poco dopo aver seppellito il padre, il protagonista del Disperato – primo romanzo di Léon Bloy, pubblicato senza esiti di rilievo nel 18871 –, si presenta stremato alla porta della Grande Certosa («Si dice la Grande Certosa come si dice Carlo Magno») in cerca di pace e carità. Al monaco che lo accoglie così si rivolge: «Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Vi porto la mia anima da risuolare e lustrare. Vi prego di tollerare queste espressioni da calzolaio». La risposta del padre portinaio, sorridente, è di pari livello: «Signore, se siete infelice, siete il più caro dei nostri amici; les montagnes della Grande Certosa hanno orecchi, e i soccorsi che vi potranno dare non vi verranno meno. Quanto alla vostra calzatura spirituale, noi lavoriamo talvolta su cose vecchie e forse potremo soddisfarvi».
La seconda parte del corrusco romanzo2 dello scrittore cattolico francese è dedicata al soggiorno di Caino Marchenoir, il «disperato» in questione, presso la Certosa, episodio in cui si rispecchia, come peraltro in tutto il resto della vicenda narrata, una materia strettamente autobiografica: a conclusione del complicato rapporto con Anne-Marie Roulé, prostituta parigina da lui convertita a un cristianesimo acceso e visionario, Bloy aveva tentato infatti di essere accolto alla Trappa e poi tra i certosini, senza successo. Questa parentesi monastica rappresenta, sia nella storia del personaggio Marchenoir («Questo stilita intellettuale»), sia nel romanzo stesso, una parentesi di pace. Non vi mancano del tutto le esplosioni da artiglieria pesante che caratterizzano il resto del libro, e che meriterebbero un discorso a parte, ma sono in qualche modo attenuate al cospetto del silenzio certosino.
Lo stile, tuttavia, resta per così dire altisonante e ispirato, a cominciare dalla serie di definizioni che Bloy allinea descrivendo la Certosa e i suoi abitanti: «Alpestre alveare dei più sublimi operai della preghiera», «Metropoli della vita contemplativa», «Città della volontaria rinunzia e della vera gioia, oggi conosciuta da chiunque legge e pensa nel mondo», «Catacomba nei cieli» e infine «La grande scuola degli imitatori della solitudine di Dio» – espressione, quest’ultima, assai singolare, che Bloy deriva da un suo altrettanto singolare aforisma: «Dio è il grande solitario che non parla se non ai solitari».
Tra i diversi riti e liturgie della Certosa, due in particolare colpiscono Marchenoir: il funerale di un confratello e l’ufficio notturno. E se il primo, nella sua commossa semplicità, gli rammenta per contrasto le esequie pubbliche del politico Léon Gambetta («Marchenoir si ricordava di trecentomila teste di bestiame umano che accompagnavano alla dimora sotterranea il Serse putrescente della maggioranza, [… e] paragonò quella menzogna di funerale al seppellimento veridico del certosino sconosciuto»), nel secondo, cui assiste dalla «tribuna dei forestieri», riconosce il cuore della Certosa: «Visitare la Grande Certosa da cima a fondo è una cosa semplicissima… ma non si conosce il fiore del suo mistero, se non s’è assistito all’ufficio notturno. La è il vero profumo che trasfigura quel rigoroso ritiro… e quando lo si è visto, confessiamo che non sapevamo nulla della vita monastica».
Lasciato libero di fare «tutto quello che non era incompatibile con la regola del Monastero (finanche il permesso di fumare in camera; una concessione questa quasi senza esempio)», Marchenoir si aggira per la Certosa cercando di sedare le proprie intemperanze, pensando al libro che vuole scrivere e traendo insperata chiarezza interiore dai colloqui con p. Atanasio. Il monaco più che altro ascolta, e smantella infine le reiterate velleità del protagonista di vestire l’abito bianco con un discorso la cui conclusione merita una citazione estesa, tanto è concreta: «È una romantica sciocchezza, da cui dovete liberarvi, mio caro poeta, il credere che il disgusto della vita sia un segno della vocazione religiosa. Adesso voi siete qui nient’altro che un nostro ospite, andate e venite come vi piace, sognate sulla montagna e nella nostra bella foresta di verdi abeti, malgrado i cinquanta centimetri di neve che vi sembrano accrescere l’incanto; ma, credetemi, l’apparizione della nostra Regola vi riempirebbe di terrore».
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- Léon Bloy, Le Désespéré (1887), trad. ital. di G. Auletta: Il disperato, Edizioni Paoline 1957 (n° 13 della collana «Juventus», curata da V. Gambi).
- «Il romanzo autobiografico che presentiamo», si legge nella presentazione firmata dal traduttore, «ma è un vero romanzo come lo si intende oggi? – è tutto un corruscare di violenze verbali (che Bloy diceva prodotte dall’indignazione per amore), di espressioni iperboliche, di immagini talvolta barocche e lambiccate, di un certo fanatismo mistico, che potrebbe sconcertare più di un lettore abituato a ben altro linguaggio e a ben altri accomodamenti con la vita.»