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Catacombe nei cieli (Reperti, 32: Léon Bloy, «Il disperato»)

bloy-il-disperatoPoco dopo aver seppellito il padre, il protagonista del Disperato – primo romanzo di Léon Bloy, pubblicato senza esiti di rilievo nel 18871 –, si presenta stremato alla porta della Grande Certosa («Si dice la Grande Certosa come si dice Carlo Magno») in cerca di pace e carità. Al monaco che lo accoglie così si rivolge: «Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Vi porto la mia anima da risuolare e lustrare. Vi prego di tollerare queste espressioni da calzolaio». La risposta del padre portinaio, sorridente, è di pari livello: «Signore, se siete infelice, siete il più caro dei nostri amici; les montagnes della Grande Certosa hanno orecchi, e i soccorsi che vi potranno dare non vi verranno meno. Quanto alla vostra calzatura spirituale, noi lavoriamo talvolta su cose vecchie e forse potremo soddisfarvi».

La seconda parte del corrusco romanzo2 dello scrittore cattolico francese è dedicata al soggiorno di Caino Marchenoir, il «disperato» in questione, presso la Certosa, episodio in cui si rispecchia, come peraltro in tutto il resto della vicenda narrata, una materia strettamente autobiografica: a conclusione del complicato rapporto con Anne-Marie Roulé, prostituta parigina da lui convertita a un cristianesimo acceso e visionario, Bloy aveva tentato infatti di essere accolto alla Trappa e poi tra i certosini, senza successo. Questa parentesi monastica rappresenta, sia nella storia del personaggio Marchenoir («Questo stilita intellettuale»), sia nel romanzo stesso, una parentesi di pace. Non vi mancano del tutto le esplosioni da artiglieria pesante che caratterizzano il resto del libro, e che meriterebbero un discorso a parte, ma sono in qualche modo attenuate al cospetto del silenzio certosino.

Lo stile, tuttavia, resta per così dire altisonante e ispirato, a cominciare dalla serie di definizioni che Bloy allinea descrivendo la Certosa e i suoi abitanti: «Alpestre alveare dei più sublimi operai della preghiera», «Metropoli della vita contemplativa», «Città della volontaria rinunzia e della vera gioia, oggi conosciuta da chiunque legge e pensa nel mondo», «Catacomba nei cieli» e infine «La grande scuola degli imitatori della solitudine di Dio» – espressione, quest’ultima, assai singolare, che Bloy deriva da un suo altrettanto singolare aforisma: «Dio è il grande solitario che non parla se non ai solitari».

Tra i diversi riti e liturgie della Certosa, due in particolare colpiscono Marchenoir: il funerale di un confratello e l’ufficio notturno. E se il primo, nella sua commossa semplicità, gli rammenta per contrasto le esequie pubbliche del politico Léon Gambetta («Marchenoir si ricordava di trecentomila teste di bestiame umano che accompagnavano alla dimora sotterranea il Serse putrescente della maggioranza, [… e] paragonò quella menzogna di funerale al seppellimento veridico del certosino sconosciuto»), nel secondo, cui assiste dalla «tribuna dei forestieri», riconosce il cuore della Certosa: «Visitare la Grande Certosa da cima a fondo è una cosa semplicissima… ma non si conosce il fiore del suo mistero, se non s’è assistito all’ufficio notturno. La è il vero profumo che trasfigura quel rigoroso ritiro… e quando lo si è visto, confessiamo che non sapevamo nulla della vita monastica».

Lasciato libero di fare «tutto quello che non era incompatibile con la regola del Monastero (finanche il permesso di fumare in camera; una concessione questa quasi senza esempio)», Marchenoir si aggira per la Certosa cercando di sedare le proprie intemperanze, pensando al libro che vuole scrivere e traendo insperata chiarezza interiore dai colloqui con p. Atanasio. Il monaco più che altro ascolta, e smantella infine le reiterate velleità del protagonista di vestire l’abito bianco con un discorso la cui conclusione merita una citazione estesa, tanto è concreta: «È una romantica sciocchezza, da cui dovete liberarvi, mio caro poeta, il credere che il disgusto della vita sia un segno della vocazione religiosa. Adesso voi siete qui nient’altro che un nostro ospite, andate e venite come vi piace, sognate sulla montagna e nella nostra bella foresta di verdi abeti, malgrado i cinquanta centimetri di neve che vi sembrano accrescere l’incanto; ma, credetemi, l’apparizione della nostra Regola vi riempirebbe di terrore».

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  1. Léon Bloy, Le Désespéré (1887), trad. ital. di G. Auletta: Il disperato, Edizioni Paoline 1957 (n° 13 della collana «Juventus», curata da V. Gambi).
  2. «Il romanzo autobiografico che presentiamo», si legge nella presentazione firmata dal traduttore, «ma è un vero romanzo come lo si intende oggi? – è tutto un corruscare di violenze verbali (che Bloy diceva prodotte dall’indignazione per amore), di espressioni iperboliche, di immagini talvolta barocche e lambiccate, di un certo fanatismo mistico, che potrebbe sconcertare più di un lettore abituato a ben altro linguaggio e a ben altri accomodamenti con la vita.»

 

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Silenzio, deserto, notte

SoloDinanziBenché siano passati alcuni anni dalla sua pubblicazione la conversazione tra Luigi Accattoli e l’allora priore della Certosa di Serra San Bruno, Jacques Dupont1, mantiene intatto il suo interesse. Non si tratta solo di questo, in realtà; l’incontro ha prodotto un testo che non bisogna esitare a definire molto bello, nel quale spicca soprattutto, direi, lo sforzo del priore per superare la leggendaria «riservatezza» certosina e dire qualcosa sulla scelta di vita e sulla spiritualità di questo esiguo gruppo di individui. «Esiguo», per essere esatti, significa poco meno di 450, tra monaci e monache2.

La bellezza è il risultato, soprattutto, di una serie piuttosto ampia di immagini con le quali il priore risponde alle intelligenti sollecitazioni dell’intevistatore, cercando inoltre di dare una forma comunicabile alle proprie esperienze. Le immagini sono belle, e contemporaneamente ingannevoli, proprio perché belle, cioè cariche di una promessa di spiegazione che non può essere mantenuta in un contesto dialogico; forse in poesia, ma non qui. D’altra parte sin dall’inizio si avverte la difficoltà del priore a rispondere con qualcosa che non sia allusione, accenno, immagine appunto: «I certosini sono allo stesso tempo fuori del mondo e legati strettamente al mondo. Non hanno niente da dire di proprio al mondo, non sono modelli di vita per gli altri, ma sono segno» (corsivo mio).

Vediamo alcune di queste immagini, a partire da quella del mozzo: «Il monaco può essere paragonato al mozzo che […] si arrampicava sulla cima dell’albero maestro per scrutare l’orizzonte nella speranza di vedere profilarsi una riva sconosciuta». Il mozzo non è al timone, non deve soffrire di vertigine, è una vedetta che deve gridare «Terra!» quando gli altri ancora non possono vederla. È una vedetta che mantiene accesa la fede di questo futuro avvistamento. Il certosino, ancora, è l’uomo che si addentra nel deserto («a nome di tutti»), inseguendone il silenzio, condizione decisiva per l’ascolto più importante: «La pedagogia del deserto ci dovrebbe preparare a cogliere il “sussurro” della presenza di Dio. Esso resta un segno debole, ma noi infine siamo capaci di udirlo».

Ho già citato qualche giorno fa l’immagine della vita contemplativa come «presa di corrente», anche nascosta, nel grande edificio della Chiesa; aggiungo adesso quella assai singolare che il priore riprende dalla mistica e poetessa francese Madeleine Delbrêl (1904-1964): «Dio vuole danzare con me. Per essere un buon danzatore, occorre non sapere dove questo mi porti. Bisogna seguire, essere leggero, non rigido. Non si devono chiedere delle spiegazioni. Occorre essere come un prolungamento vivente dell’altro e ricevere la trasmissione del ritmo». E se «la vita è un ballo», poco oltre il priore dirà che la morte non è altro che un «cambio di patria» – niente di nuovo per lui che dalla Francia è venuto in Italia, cambiando pure nome.

Se talvolta la preghiera notturna diventa faticosa, «non potrò cogliere tutto», ammette il priore, «ma ecco che mi metto nella barca della Chiesa, nel fiume della sua preghiera che scorre e che mi trascina con la sua corrente. L’importante è rimanere nella barca, non scendere, e lasciare che il fiume scorra, da qualche parte mi porterà». Mentre a proposito della sempiterna dialettica tra ciò che è mutevole e ciò che è immutabile, il priore così parla della gioia: «La gioia che viene da fuori è come il sole che si alza alla mattina e tramonta la sera, come l’arcobaleno che appare e sparisce, come il caldo estivo che viene e che se ne va, come il fuoco che brucia e si spegne. Invece la gioia che viene da dentro non può finire: è come un ruscello tranquillo, sempre lo stesso, sempre presente, come la roccia, come il cielo e la terra che non passano». E ancora: «Il ministero del monaco si compie nell’ombra e nel segreto. Egli è come una falda d’acqua sotterranea. Silenzio, deserto, notte. Ma la notte prepara il giorno. Il nostro è un ministero di gestazione».

Mozzi, sussurri, danze, prese di corrente, arcobaleni, barche, ruscelli, falde… Subisco inevitabilmente il fascino di queste immagini e, come dicevo, le temo perché non sono la realtà (non lo sono mai). Va anche detto che per quanto sia ricco di tante immagini come queste, Solo dinanzi all’Unico è un libro che merita più di una lettura e sarebbe ingiusto ridurlo a una raccolta di metafore che dovrebbero «dare un’idea» del monachesimo certosino. Forse siamo noi a volerla avere, questa idea, e non tanto loro a volerla dare. In fondo, alla domanda diretta di Luigi Accattoli: «Lei pensa che il mondo d’oggi possa capirvi?», il priore risponde preciso: «Penso che in qualche misura una possibilità di comprensione tra i monaci e la restante umanità vi sia in ogni epoca storica, perché non vi sono epoche dimenticate da Dio. Ma non è questa la nostra prima preoccupazione». E, più ancora che in quel la nostra prima preoccupazione, è in quella restante umanità che mi pare risuonare la drammatica singolarità dei certosini.

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  1. Solo dinanzi all’Unico, Luigi Accattoli a colloquio con il priore della Certosa di Serra San Bruno, Rubbettino 2011. Il nome del priore, con scelta molto «certosina», non compare in copertina e nemmeno sul frontespizio, ma soltanto nelle note biografiche e nelle prime pagine. Dal 2014 dom Dupont ha lasciato Serra San Bruno e si dedica interamente al ruolo di procuratore generale dell’Ordine.
  2. «Oggi nel mondo vi sono 19 case di certosini (con circa 370 monaci) e 5 case di certosine (con circa 75 monache). Queste ultime si trovano in Francia, in Italia e in Spagna. Le case dei monaci si trovano in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina», www.chartreux.org.

 

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La presa di corrente (Dice il monaco, XL)

Dice dom Jacques Dupont, priore della Certosa di Serra San Bruno dal 1993 al 2014, e procuratore generale dell’Ordine dal 1999:

In questo grande edificio che è la Chiesa, la vita contemplativa ha il compito – o il posto – di una presa di corrente. Intendo proprio il dispositivo sistemato nel basso della parete dove infiliamo la spina, munita di una corda che la collega a una lampada. È essa – la presa – che assicura il contatto permanente con la fonte di luce, di calore e di forza, la Fonte eterna. [«Non è un ruolo esagerato, eccessivo?»] No, anzi è un ruolo umile e nascosto. Il contemplativo permette alla corrente di passare, ma egli a volte neanche vede la luce. Proprio come la presa, può trovarsi in una zona buia, dietro a un mobile o a una tenda. Non aspira a vedere o ad essere visto. Rimane nella pura fede. Veglia mentre è notte.

Da Solo dinanzi all’Unico, Luigi Accattoli a colloquio con il priore della Certosa di Serra San Bruno (Jacques Dupont), Rubbettino 2011, p. 30.

 

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«Cum cane unico». La stabilità di Gherardo Petrarca, monaco certosino

«Cenavo per caso presso quella santissima ed ottima persona che fu il vescovo di Padova Ildebrandino, […] quand’ecco che il caso portò da noi due priori del tuo ordine, uno italiano, l’altro francese.» Comincia così una lettera che Francesco Petrarca scrive al fratello Gherardo, probabilmente alla fine del 13521, per raccontargli del curioso incontro. Gherardo, minore di circa tre anni, aveva infatti pronunciati i voti presso la certosa provenzale di Montrieux (Mons Rivi) nel 1343: «con decisione improvvisa», si trova nei testi, dopo aver condiviso con il fratello poeta studi e spostamenti (compresa la famosa ascesa al Mont Ventoux2).

La conversazione si protrae a lungo e a un certo punto il vescovo comincia a interrogare i due monaci a proposito di Gherardo, «chiedendo loro quale vita conducessi, contento del tuo destino e della tua vocazione». I due priori si profondono in lodi di ogni tipo e infine raccontano quanto accaduto in occasione della grande pestilenza di qualche anno prima (la peste nera del 1348). Al primo manifestarsi del male il priore di Montrieux aveva esortato i trentacinque confratelli ad abbandonare la certosa e a mettersi in salvo, ma Gherardo si era opposto, e quando il priore aveva insistito, «tu gli rispondesti di nuovo, con più forza, che andasse pur egli dove credesse, ma che, quanto a te, saresti rimasto nel luogo affidatoti da Cristo». Il priore, che nel frattempo se n’era andato ed era morto poco dopo, non aveva del tutto torto: la peste si era abbattuta sul monastero, con estrema virulenza: uno dopo l’altro i certosini di Montrieux erano morti tutti.

Tutti tranne Gherardo, che, «solo nel monastero», aveva assistito all’agonia dei confratelli, «ricevendone le ultime parole e l’ultimo bacio»; ne aveva lavato i «gelidi corpi», li aveva preparati per le esequie e infine li aveva seppelliti, anche tre in un giorno, scavando da solo trentaquattro fosse e recitando l’ufficio dei defunti per ciascuno di essi; e alla fine, «solo in compagnia di un solo cane [solum te ad ultimum cum cane unico], sei rimasto a vegliare ogni notte dopo aver un pochino riposato durante il giorno».

«Trascorsa quella terribile estate», Gherardo era andato alla Grande Certosa e aveva chiesto nuovi confratelli e un nuovo priore per ripopolare Montrieux, cosa che i priori riuniti in capitolo gli avevano concesso, tributandogli insoliti onori: «Per la tua cura, la tua saggezza, la tua fede il monastero di Montrieux, un tempo venerando e poi reso deserto, era stato rifondato».

Alla fine del racconto il vescovo Ildebrandino è in lacrime e anche il Petrarca è visibilmente commosso. I due religiosi si volgono verso di lui e «ravvisando la mia somiglianza con te non so se per un monito di Dio o per un qualche intuito della mente, subito mi abbracciarono con pianto devoto e con gioia dicendo: “Te felice della pia devozione di tuo fratello!”» Viene in effetti da chiedersi come mai il Petrarca scriva al fratello per raccontargli nei particolari una vicenda che il fratello conosce bene, avendola vissuta, e forse la risposta non è così difficile. Ma ciò nonostante: che storia!

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  1. Le note alla lettera di Francesco Petrarca (Lettere familiari, XVI, 2, in Epistole, a cura di U. Dotti, Utet 19832, p. 354-61) ricordano per l’incipit – Cenabam forte – il famoso attacco di Orazio, «Ibam forte Via Sacra»; un’eco distorta del quale in fondo è arrivata sino agli odierni «ero a colazione l’altro giorno con Giandomenico».
  2. «Quando dovetti pensare a un compagno di viaggio, nessuno dei miei amici, meravigliati pure, mi parve in tutto adatto: tanto rara, anche tra persone care, è una perfetta concordia di volontà e di indoli. […] Finalmente mi rivolgo agli aiuti di casa e mi confidai con l’unico fratello, di me più giovane… Nulla avrebbe potuto ascoltare con maggiore letizia, felice di potersi considerare, verso di me, fratello ed amico», Familiari, IV, 1.

 

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«Tu ricordi, fratello» (Dice il monaco, XXXVII)

In realtà, dice il poeta fratello di un monaco. Scrive infatti Francesco Petrarca in una lettera del 25 settembre 1349 al fratello Gherardo, monaco della Certosa di Montrieux:

Se calcolo bene, nel servizio di Gesù Cristo e nella sua scuola, tu taci ormai da sette anni. È tempo ormai che cominci a parlare oppure, se il silenzio ti è dolce oltre ogni cosa, che mi risponda anche in silenzio. Tu ricordi, fratello, quale una volta era la nostra condizione e quanta faticosa dolcezza cosparsa di infinite amarezze tormentava il nostro animo. […] Tu ricordi quanto grande e quanto vano fosse in noi il desiderio di splendide vesti che ancora mi tiene, lo confesso, per quanto sempre meno ogni giorno; quel continuo affaccendarsi a vestirci e spogliarci, faticosamente ripetuto mattina e sera; quel timore che un capello potesse uscire di riga o che un lieve soffio di vento scomponesse la vanitosa acconciatura della chioma; quella cura che mettevamo nello schivare le bestie che ci venivano incontro o alle spalle perché la veste nitida e profumata non si macchiasse di uno schizzo di fango o, nell’urto, dovesse sgualcirsi. Stolte davvero preoccupazioni degli uomini, e dei giovinetti soprattutto!

Francesco Petrarca, Lettere familiari, X, 3, in Epistole, a cura di U. Dotti, Utet 19832, p. 265 (come assaggio di una storia bellissima del fratello certosino del Petrarca di prossima relazione).

 

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Racchiusi insieme protesi

«Custodiscimi come pupilla degli occhi, / proteggimi all’ombra delle tue ali, / di fronte agli empi che mi opprimono, / ai nemici che mi accerchiano» (Salmi, 17 [16], 8-9); «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali» (Matteo, 23, 37).

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Sano di Pietro, “Madonna della Misericordia” (Siena; 1440 ca.; coll. priv.)

Poche immagini come quella della Madonna della Misericordia si prestano così bene a sintetizzare il senso della comunità monastica: il senso dell’essere racchiusi in un luogo, dell’essere insieme, dell’essere protesi verso qualcuno che sta al di sopra di quel luogo. E il Cristo può essere più che degnamente sostituito, in quest’ultimo aspetto, da sua madre. Negli esempi medievali di questo potentissimo tema iconografico, assai diffuso anche tra i laici, c’è poi per me un tratto particolarmente significativo, cioè l’anonimato dei membri della comunità raccolti sotto il manto di Maria, un anonimato dovuto non soltanto allo sviluppo del linguaggio pittorico, ma anche all’acerbità del concetto di individuo.

Come nel caso, scegliendo un esempio tra i più belli, delle clarisse (?) di Sano di Pietro: sorelle distinte soltanto dai voti – si riconoscono chiaramente le due novizie più «piccole» anche nelle dimensioni – e da un codice del velo che, ahimè, non so decifrare. Oltre a quelle visibili, poi, ve ne sono altre quattro, sulla destra, di cui si scorge a malapena solo il contorno del capo: sorelle dell’anonimato perfetto.

Zurbaran_Sevilla

Francisco de Zurbarán, “La Virgen de las Cuevas” (1665; Sevilla, Museo de Bellas Artes)

Che differenza, giusto per fare un altro esempio, con gli immacolati certosini di Zurbarán, che hanno con tutta evidenza un nome e un cognome, una personalità e che il giorno prima che venisse il maestro per il quadro devono essersi ricordati di far stirare le loro tonache con particolare cura. (Anche qui d’altra parte ci sono tre confratelli completamente nascosti.)

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In mezzo a tanta neve (Dice il monaco, III)

Dice Guigo I, certosino:

E poiché, assieme a tutti gli altri compiti che si addicono a una vita povera e all’umiltà, ci cuciniamo da noi stessi i cibi, gli [a colui che abita nella cella] sono date anche due pentole, due ciotole, una terza ciotola per il pane, oppure, al suo posto, un tovagliolo; poi una quarta ciotola, un po’ più grande, per lavarvi il necessario. Poi due cucchiai, un coltello per il pane, una coppa, un bicchiere, una brocca per l’acqua, una saliera, un piatto, due sacchetti per i legumi, un asciugamano. Per il fuoco: un fornello, dell’esca, una pietra focaia, della legna, una scure. Per i lavori: una pialla.

A colui che leggerà queste cose chiediamo che non ci derida e non ci biasimi se prima, per un tempo abbastanza prolungato, egli non sarà rimasto in cella in mezzo a tanta neve e a un freddo così terribile.

Guigo I, Consuetudini della Certosa (1125 ca.), in Fratelli nel deserto. Fonti certosine, II, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon 2000, p. 148.

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Se il mondo crolla (Dice il monaco, II)

Dice un certosino:

Per un Certosino pensare ai suoi confratelli è spesso un ostacolo o una tentazione. […] Se siamo puri e fedeli, pazienti e lieti, possiamo essere certi che questa Vita preziosa sarà comunicata a tutti i nostri fratelli presenti e assenti… Lascia i tuoi confratelli a se stessi e quanto a te, pensa solo a mantenere la tua anima pura e in Dio e non permettere alle riflessioni su questa o quella cosa di turbarti. Vivi nel monastero come se non ci vivesse nessuno, non inquietarti se il mondo crolla e mantieni la calma dell’anima.

Dice un cisterciense:

E un contemplativo può affezionarsi alla sua contemplazione. Può pensare che la contemplazione sia la sola cosa che importa. Appena può rimanere solo e può gustare la calda dolcezza interiore del riposo al centro di se stesso – che è forse un’ombra illusoria della vera contemplazione – per lui il mondo potrebbe anche crollare, e con esso il monastero. Egli sacrificherà ogni altra cosa a questo piacere. L’obbedienza diventerà una questione priva di importanza. La carità sembrerà un assurdo. E nel suo cuore l’amore si essiccherà al calore letale del suo desiderio di auto-soddisfazione. Ed egli sarà schiavo non meno di un milionario.

Un certosino (Jean-Baptiste Porion), Scuole di silenzio, Edizioni San Clemente-Parole et Silence, senza data, ma prima del 2000, pp. 131, 120; Thomas Merton, Le acque di Siloe (1949), Garzanti 1992, p. 398.

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«Di certo, non era molto bella» (Vita di sant’Ugo di Grenoble, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Nonostante il rigore certosino, non mancano nelle brevi pagine di Guigo momenti meno drammatici e anche decisamente più lievi, che raccontano il contorno, fanno emergere particolari quotidiani, riecheggiano vicende collettive, sempre con quel tono personale e fermo non proprio consueto e a conferma di quei «paradossi dell’agiografia certosina» ricordati dal curatore: il bisogno di rinchiudersi nell’eremo che si scontra con la necessità di partecipare in qualche forma al mondo che sta cambiando.

Si possono così incontrare personaggi storici famosi, fissati in sei parole lapidarie, come Matilde di Canossa: «donna ma dalla tempra davvero virile»; leggere osservazioni sull’eccezionalità del padre di Ugo, che non ebbe alcuna donna al di fuori del matrimonio: «una cosa quasi incredibile al giorno d’oggi, soprattutto tra i potenti»; assistere a scene di folla, come quella, impressionante, che si raccoglie intorno alla bara del santo, portando ceri, offerte, bambini in fasce («Vi furono persino alcuni che, baciando i sandali con fede fin troppo ardente, li morsero con l’intenzione di portarsene via un frammento per il loro potere di guarigione»).

E l’esposizione degli episodi della vita del santo spesso dà luogo a immagini molto vivide e immediate, di gusto narrativo e di involontario umorismo. Uno dei carismi di Ugo, per esempio, erano le lacrime; detto in altre parole, e senza malizia, il benedett’uomo piangeva sempre, di gioia, di dolore, per sé, per gli altri, sempre. Anche quando mangiava, perché aveva preso l’abitudine di far leggere a mensa qualche testo sacro e spesso si commuoveva. Va da sé che il piacere del cibo ne risultasse compromesso, anche nei commensali, che talvolta si spazientivano: «Questi, sapendolo per esperienza, quando vedevano arrivare questa commozione, facevano cenno al lettore di interrompersi per un po’, per scansare almeno per il momento questo fastidio». Come dire: Già mangiamo poco, ci manca solo che Ugo scoppi in lacrime…

Per proteggere i sensi dalle tentazioni, poi, il santo aveva messo a punto una serie di stratagemmi. In realtà il gusto non rappresentava un problema, giacché un costante mal di stomaco preveniva qualsiasi eccesso; al tatto aveva rinunciato «prima ancora di ricevere l’ordinazione» (?); sul fronte dell’olfatto stava attento soltanto ai «cattivi odori», perché aveva spesso mal di testa e per l’udito aveva dichiarato guerra alla maldicenza («A ciascuno – diceva – bastano i suoi peccati. Non c’è bisogno di macchiare la propria coscienza o la propria lingua ascoltando o sparlando di quelli altrui»). Per la vista le attenzioni erano maggiori, dati anche i suoi incarichi pastorali. Nonostante questi, per esempio, il santo non guardava mai in faccia le donne, nemmeno quando si trattava di raccogliere una confessione o di porgere conforto. Una volta l’autore stesso, Guigo, apprende che sua madre ha incontrato il vescovo e, con spontaneità di figlio, chiede a lui come l’ha trovata, «se la vecchiaia l’aveva molto provata». Al che il santo «pensò un po’ tra sé e poi disse: “Non so se sia vecchia o no”». In realtà a questo bizzarro comportamento è sottesa un’osservazione non banale, perché, come dice lo stesso Ugo, «per la comune mutevolezza umana – come ognuno può capire dall’esperienza – i sentimenti dell’osservato spesso si trasferiscono con incredibile velocità all’osservatore», ed è già sufficiente avere a che fare con le proprie passioni senza farsi «contagiare» da quelle altrui (che è così umano, però, e così bello talvolta…).

A onor del vero, Guigo ricorda che per oltre cinquant’anni Ugo non conobbe mai volto femminile, «tranne uno». Lo dice due volte, anzi, ma per compensare tale eccezione si lascia scappare un commento, diciamo così, molto curioso, poiché costei, l’unica immagine di donna a imprimersi sulla retina del santo, era «una che, di certo, non era molto bella, ma molto bisognosa del suo consiglio». Non sia mai.

(2 – fine, la prima parte è qui)

Guigo I, Vita di Sant’Ugo vescovo di Grenoble, a cura di Daniele Solvi, in «Benedictina», gennaio-giugno 2010.

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«La pensi ciascuno come vuole» (Vita di sant’Ugo di Grenoble, pt. 1)

I certosini si distinguono anche quando si dedicano all’agiografia, un genere non statico e tuttavia dotato di regole durature. E lo fanno grazie a quel tono che altrove ho definito aristocratico e a quella serena consapevolezza di appartenere in un certo senso all’avanguardia delle schiere monastiche. Ne è un esempio la breve ed equilibrata Vita di Sant’Ugo vescovo di Grenoble di Guigo I, priore della Chartreuse, sollecitata da papa Innocenzo II pochi anni dopo la morte del vescovo (avvenuta nel 1132) per sostenerne la canonizzazione. Guigo, contemporaneo e testimone diretto di alcuni eventi, non si discosta nel complesso dallo standard, ma il suo testo non è privo di osservazioni personali e di espressioni che trovo notevoli e anche sorprendenti (segno di una solida autonomia di giudizio), se si considera soprattutto l’epoca in cui vennero scritte.

Sin dalle prime battute. Se da un lato, infatti, Guigo non si sottrae alla descrizione dei natali di Ugo (nato a Châteneuf-sur-Isère nel 1052, da famiglia nobile), tiene anche a sottolineare con forza che le origini di un individuo non significano nulla se non sono sostenute dalle virtù, e aggiunge: «E in fondo cosa importa di più: da che famiglia uno è nato, o in che modo è vissuto?» Oppure quando affronta il tema obbligato dei miracoli: a Ugo non ne viene attribuito neanche uno, ma che importa, era casto, avveduto, amorevole, umile, generoso, temperante, giusto. Il miracolo era che tali virtù si concentrassero in unico individuo, e pazienza per «quelli che non stimano la santità senza miracoli – noi invece non li consideriamo molto, perché sappiamo che ugualmente compiono prodigi gli eletti e i reprobi, e nei più grandi patriarchi e in tanti altri santi molto graditi a Dio ne abbiamo trovati poco o nulla». O ancora quando pone a confronto i meriti di Ugo con le «brutture dei nostri tempi», ricordando che «tutti bramano doni e cercano ricompense. Tutti, dal più piccolo al più grande, si votano all’avarizia»; avarizia «che è in cima a tutto, e ogni cosa obbedisce al denaro. Ma fermiamoci qui, dato che non è questo il nostro argomento».

E infine quando giunge al doloroso tema della malattia di Ugo, una forma degenerativa di demenza, manifestatasi in tutta evidenza a partire dal 1130 e accompagnata da un fenomeno insolito che Guigo attribuisce alla santità del vescovo. «Infatti», racconta, «a causa dell’aggressività della malattia quasi tutta la sua memoria fu rimossa o sconvolta, almeno per quella parte contenente le immagini dei luoghi e dei tempi, che è comune ai buoni e ai cattivi e che serve indifferentemente agli uni per il bene, agli altri per il male»; l’altra «parte», invece, quella spirituale, «risultò non solo immutata, ma talvolta più salda e agile». E se spesso «la perdita della memoria non gli faceva ricordare dove o con chi fosse», non aveva dimenticato una sola parola della Sacra Scrittura e le sue risposte su questioni religiose erano sempre «sagge e veritiere». Non è «contro natura, e perciò anche incredibile», chiede Guigo, che una mente umana smarrisca tutto ciò che è «materiale e familiare», ordinario e facile, ma non ciò che è più fragile perché meno comune e difficile da raggiungere, cioè il senso del divino? Non è un miracolo?

Quel «contro natura» mi ha colpito, anche se viene subito per così dire ricondotto sui binari di un’interpretazione consueta della sofferenza come dono di Dio e «occasione»: come aveva detto sin dall’inizio «quanto più era tribolato da essa, tanto più vigorosamente disprezzava le cose del mondo e si elevava a Dio, unico vero rifugio, attingendone un piacere – diceva – tanto più pieno e dolce, quanto più aspra era stata la sofferenza». Di certo mi illudo, ma, di fronte al complesso concettuale che trovo in assoluto più inaccettabile, mi è parso come un grido soffocato e sfuggito inavvertitamente, proprio alla fine della triste e realistica e, bisogna ammetterlo, un po’ imbarazzata descrizione degli ultimi tempi del santo: come può essere un bene questo scempio?

Niente più di un fiato, il notevole commento conclusivo è saldo: «La pensi ciascuno come vuole, a noi però – e come noi, crediamo, la penseranno i più esperti, soprattutto di medicina – sembra non meno grande e singolare… che tra tanti patimenti della mente, e così aspri e continui, non abbia perduto la conoscenza e l’invocazione di Dio».

(1 – continua)

Guigo I, Vita di Sant’Ugo vescovo di Grenoble, a cura di Daniele Solvi, in «Benedictina», gennaio-giugno 2010.

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