(la prima parte è qui)
La Regola, si diceva: «Essa è accolta da coloro che vivono in quel luogo e diventa la garanzia di una vita comunitaria di qualità». La Regola non è né subita né osservata, è scelta, questa volta sì, all’interno di un percorso che altri hanno già compiuto. Con una precisazione anche qui fondamentale: «La Regola di Benedetto non è stata scritta prima di essere stata vissuta», cioè è stata scritta dopo che ha dato i suoi frutti. Il punto della Regola è proprio nei frutti che ha dato e dà, oggi, ed è per questo che la lettera non deve prevalere, e non prevale, sull’esperienza. «La vita è sempre più forte… Per fare questo legame costante tra regola e vita è necessaria una parola autorevole, un responsabile: è l’abate» (qui Piovano cita B. Rollin).
L’abate, grazie a quel meccanismo – che talvolta mi sento di definire miracoloso – che è il discernimento, è la garanzia della «circolazione e della crescita di questa vita», è al tempo stesso il custode della Regola e il primo servitore della vita di tutti i giorni, colui che «rende fecondo lo scarto tra regola e vita». Vale la pena citare qui per esteso un passo che contiene tra l’altro, con il consueto garbo che vige tra i monaci di oggi, uno spunto polemico interessante.
«E in un certo senso non esiste la regola di Benedetto come modello di vita stretto, ma comunità che vivono, nella loro specificità e nelle condizioni di vita che costituiscono il loro tessuto storico, la regola di san Benedetto. La pretesa di vivere la regola sine glossa è, in qualche modo, un fallimento, perché rischia di uccidere la vita e di fatto tende ad eliminare questa quarta coordinata proposta da Benedetto.» L’abate è il fulcro dell’equilibrio tra obbendienza «infantile» e contestazione in nome della libertà: «Chi rifiuta di dipendere da una legge e di accettare di ricevere la vita da un altro, non può essere monaco secondo la RB. È un test importante le cui conseguenze sono antropologiche e spirituali».
Quindi. Insieme, per scelta ma senza scegliere i compagni di strada, e non da soli come i pur stimati eremiti (che peraltro, secondo Piovano, nella lettura di Benedetto sono cenobiti maturati. Non c’è eremitismo senza prima, e verrebbe da dire anche dopo, vita in comune). Nello stesso posto, e non come i girovaghi, che sono sempre soltanto ospiti del mondo e degli altri. Secondo uno stile prefissato, e non seguendo il proprio, isolato volere, come fanno i sarabaiti che «considerano santo tutto ciò che corrisponde al loro modo di pensare e ai loro desideri, mentre ritengono illecito ciò che non è di loro gradimento». Accogliendo infine le decisioni di una guida, che, Piovano tralascia di ricordare, viene comunque eletta.
Le assonanze sono molte e, come dicevo prima, mi pare che alla fine un grande sforzo sia profuso per ottenere adesso un risultato. Certo, rimane la domanda, implicita anche nel concetto di «guida»: per andare dove? Ma se invece di «alla vita eterna», si rispondesse «da nessuna parte», cambierebbe poi molto?
(2-fine)
Adalberto Piovano, Vivere insieme, sotto una regola e un abate (RB 1), in «Ora et Labora, LXVII (2012), 1 (gennaio-giugno), pp. 13-23.