(la prima parte è qui)
La riflessione della badessa di Viboldone non esita a confrontarsi con le questioni più scomode, ma a un certo punto sembra voler passare dalla difesa all’attacco. E così è lei, per così dire, a sollecitare lo scontro con la cultura postmoderna, a spingere il monachesimo a esporsi come testimonianza di salvezza possibile per l’essere umano contemporaneo. Il revival monastico è «legato alla dissoluzione della città moderna? O monaco dice la semplicità della fede che sfida la minaccia di dissoluzione del mondo? Il frantumarsi del reale nella coscienza dell’uomo postmoderno è l’orizzonte vero?» Il monachesimo potrebbe essere, «forse», una «piccola chiave» per aprire la strada che si allontana dall’«enfasi dell’io, in tutte le sue forme» verso una «vera intelligenza spirituale della realtà», che senza essere vuotamente sentimentale sia comunque evangelica. Con richiamo diretto a uno dei cardini della vita monastica, la lectio divina, m. Angelini ricorda che il Vangelo è anche, se non soprattutto, un messaggio che si ascolta. L’ascolto (senza mai dimenticare l’incipit della Regola benedettina) è la disposizione all’accoglimento – del mondo, dell’altro, del Signore –, e «la cultura contemporanea è incapace di nutrire un ascolto totale come espressione del desiderio e della ricerca di cogliere il senso deposto in ogni cosa, ma al tempo stesso soffre di questa impotenza».
Bisogna rileggere: un ascolto totale come espressione del desiderio e della ricerca di cogliere il senso deposto in ogni cosa. Anzitutto, che cos’è esattamente la «cultura contemporanea»? Da chi è rappresentata? Chi soffre di questa «impotenza»? E da chi sarebbe stato «deposto» questo senso in ogni cosa?
C’è, ovviamente, una punta di retorica in queste domande, perché, sì, la mia infinitesimale, anzi irrilevante, anzi sostituibile risposta se il frantumarsi del reale nella coscienza sia vero, è: sì, è vero. Non soltanto vero, connaturato. Quando poi la badessa avanzava la possibilità di una estinzione del monachesimo, «che – pur antico – non ha avuto promessa di indefettibilità», a me veniva da sostituire ai monaci noi esseri umani che, pure antichi, non abbiamo avuto promesse circa la nostra durata. Lo so, è una bestemmia, alla quale ne aggiungo un’altra: forse è proprio dal concetto di salvezza che devo affrancarmi, poiché salvezza non è data, è solo sperata e creduta, ed è un concetto troppo ramificato. Forse è proprio da un definitivo smantellamento di qualsiasi prospettiva ulteriore (c’è stato un periodo in cui mi ero imposto di non usare più il verbo «sperare»), che posso ricavare un’effimera e inconsistente presenza. Per ascoltare, e vedere, quello che c’è.
Non è una versione supponente di «qui e ora» o «momenti presenti», è anzi, mi pare, un atteggiamento la cui ispirazione viene dalla stessa stabilitas cui rivolge il suo sguardo la badessa: «[Dobbiamo riappropriarci] della stabilitas loci da intendere in paradossale controtendenza rispetto allo spirito di nomadismo della cultura moderna… La stabilitas è una forma di concentrazione del profilo viceversa essenziale per il quale la libertà dell’uomo ha la forma della ripresa di un inizio già posto, donato per grazia. La stabilitas intende rimediare alla libido dell’avventura sorprendente».
Anche qui bisogna rileggere: la forma della ripresa di un inizio già posto, donato per grazia. Non arrivo a tanto, in fondo, e il punto è ancora il medesimo, non m’interessa arrivarci.
(2-continua)
Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.