«Senza recite e senza reticenze» (Maria Ignazia Angelini, «Niente è senza voce», pt. 4/4)

NienteSenzaVoce(la prima parte è qui, la seconda qui e la terza qui)

Il quarto gradino indicato da Benedetto – la pazienza e la sopportazione a oltranza – rappresenta per m. Angelini («per quello che capisco») il vertice del capitolo: l’umiltà di scegliere la contraddizione, la sfida di trasformare la violenza stessa in relazione fraterna. Qui la badessa si lascia andare a un accenno di profezia: «Forse da una monaco e da una comunità monastica che si lascino plasmare dalla dinamica pasquale [di morte e resurrezione] descritta dal testo della Regola, può sorgere quella buona notizia di cui ha sete l’umanità odierna, assediata da infinite forme di violenza e di potenza».

Ancora, nel gradino successivo, l’umiltà monastica pare lanciare «una splendida sfida alla cultura dell’individualismo, della manipolazione, dell’immagine fantasiosa di sé reclamizzata per autoaffermarsi». L’apertura del cuore all’altro, infatti, tramite la confessio, fonda la relazione interpersonale che è l’unico luogo di una possibile maturazione della verità. Laddove, tuttavia, verrebbe da domandarsi quale sia la necessità della fede nel trascendente per accedere alla realtà dell’altro, già così presente di per sé.

Tutta la parte conclusiva del capitolo, che completa l’analisi dei gradi, sembra peraltro concentrarsi contro l’autoreferenzialità e l’autogestione dell’individuo moderno, autentico spauracchio di queste pagine molto dense, ma spesso anche di riflessioni assai più superficiali… C’è un tono tragico, quasi da scontro titanico, che caratterizza l’evocazione del confronto tra l’antropologia monastica (e cristiana) e quella che per semplicità possiamo definire post-moderna. «Potremmo dire che questo è il lavoro fondamentale del monaco, l’unità della persona, senza recite e reticenze, maturata dallo stare semplicemente al proprio posto, l’ultimo, nel senso che è accanto al Signore e Maestro unico» – una frase di notevole peso, che andrebbe sezionata parola per parola.

Il monastero è un luogo «radicalmente alternativo», avverte ancora m. Angelini, non è un’azienda di produzione nella quale ci si regola da sé; non è luogo di self made men, bensì casa di individui che si trasmettono un sapere e un’esperienza tramite una Regola vissuta generazione dopo generazione. Il monastero è un luogo dove «si diventa se stessi ricevendosi attraverso la relazione con altri», dove nessuno si inventa la sua figura o parte da sé («per questo», aggiunge l’autrice, «ha potuto varcare i secoli e i millenni senza mummificarsi e mummificare essere umani»). Io, che pure non sono insensibile a un concetto come «unità della persona», non riesco tuttavia a individuare con certezza il contenuto del cosiddetto «diventare se stessi», e non tanto perché subisco l’incertezza che risulterebbe dalla perdita di un centro, ma perché trovo ragionevole oggi interrogarsi sull’effettiva utilità di questo «diventare se stessi». Non è ormai evidente la possibilità che possano esistere diversi «se stessi»? Allo stesso modo, per quanto faccia della stabilità una pratica quotidiana, come posso non ammettere l’evidenza dell’instabilità, e la possibilità di una sua differente fertilità? E ancora, non riesco a scorgere l’abisso nell’«inventarsi la propria figura»…

Sono partito per la tangente. Intanto la badessa ha passato in rassegna gli ultimi gradi (generalizzando ancora, ingenerosamente, sul silenzio benedettino che ascolta contrapposto alla logorrea chiusa in se stessa dei moderni) per giungere all’immagine finale del «monaco arrivato al compimento del suo itinerario di fede e di amore»: individuo semplicissimo, espropriato di sé e in costante dialogo con il Signore. «È un uomo libero, ma di una libertà “diversa” da quella “usa e getta”.»

Un’altra frase assai problematica, come suggeriscono quelle virgolette.

(4-fine)

Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.

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