Panni stesi (Dice il monaco, LXXXIX)

Dice Giuliana di Norwich, monaca (benedettina) reclusa, intorno al 1393, scrivendo della Passione di Cristo e «osservandone» da vicino il corpo sulla croce:

Io vidi quattro motivi per cui il corpo inaridiva. Il primo era la mancanza di sangue. Il secondo il dolore che ne seguiva. Il terzo era che il corpo stava appeso nell’aria come quando gli uomini appendono un panno ad asciugare. Il quarto era che la natura del corpo richiede umore, e non c’era alcun tipo di conforto che potesse essergli offerto.

♦ Giuliana di Norwich, Una rivelazione dell’amore, introduzione, traduzione del testo critico e note di D. Pezzini, Àncora 2015, cap. 17, p. 175. (Le letture recenti sul fenomeno della reclusione mi hanno spinto ad avvicinarmi al libro formidabile di Giuliana. Non avevo mai trovato l’immagine di Gesù appeso alla croce come un panno steso ad asciugare. All’improvviso molte «Crocifissioni» dipinte mi sono apparse sotto una luce diversa.)

 

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Silenziose e sommerse (La reclusione volontaria)

Il numero più recente dei «Quaderni di storia religiosa medievale» (24, 1/2021), curato da Frances Andrews ed Eleonora Rava, è dedicato a Ripensare la reclusione volontaria nell’Europa medievale ed è di eccezionale interesse. I dieci saggi che vi sono raccolti, di sintesi e di approfondimento di casi esemplari, coprono un arco temporale che va all’incirca dal XIII al XVI secolo e offrono un preciso orientamento su un fenomeno misterioso, affascinante, tutt’altro che omogeneo e prevalentemente femminile: «Occorre comunque distinguere tra due forme principali di vita solitaria, entrambe ordinate a un ritiro totale dal secolo: l’eremitismo, dai caratteri mobili e aperti, di ascendenza prevalentemente maschile, e la reclusione, un comportamento ascetico con una fisionomia tipicamente stanziale, praticata in luoghi chiusi soprattutto dalle donne» (Alessandra Bartolomei Romagnoli).

Ma prima di provare ad addentrarmi nelle meraviglie dell’erudizione, cioè dello studio profondo dei documenti sopravvissuti, devo sottolineare la potenza evocativa della «lista» che proprio la professoressa Bartolomei allega al suo saggio di ricognizione della letteratura agiografica1, una lista di «carattere puramente orientativo» che per ben sette pagine elenca in ordine cronologico nomi di donne, suddivise tra eremite e recluse e ulteriormente catalogate in sottocategorie: eremita in un monte, eremita in una grotta; reclusa presso una chiesa, reclusa domestica; eremita in un’isola, eremita un bosco, reclusa in una cella, in un lebbrosario, presso la cattedrale; reclusa vallombrosana, francescana e camaldolese; eremita in grotta poi badessa, badessa poi reclusa…

Wiborada (wikiwand)Donne esistite, con nome e luogo, e da un certo punto in poi anche cognome: Lutgarda di Tongres, Eliena di Laurino, Chelidonia di Subiaco e Verdiana di Castelfiorentino, «murata nella sua cella-sepolcro in un silenzio abissale e definitivo»; Monegonda di Chartres, Berta di Blangy, Liutbirga sassone, Viborada di Turgovia, martire della cella (in una miniatura sangallense si vedono i suoi uccisori penetrare dal tetto della cella, svellendo le tegole, per aggirare la porta sbarrata); Umiltà da Faenza, Cristina da Markyate e Cristina l’Ammirabile, Herluca di Bernried, Alpaide di Cudot, Marie Robine di Avignone, «reclusa stipendiata dal papa» Clemente VII; Benvenuta Boiani, Vanna da Orvieto e Gherardesca da Pisa, Filippa Mareri, Oringa Menabuoi e Diana Giuntini; e Giuliana di Norwich, «la donna inglese di cui si conosce soltanto il nome e che depone nel suo libro una dottrina di eccezionale densità speculativa»; e Ugolina da Vercelli, registrata come «eremita selvaggia»…

Una schiera impressionante che pare quasi di poter vedere, un «rivolo di sante donne», «una popolazione silenziosa e sommersa», donne di varia estrazione che rifiutano i ruoli assegnati, una rete di «ambienti collegati tra loro da una fitta trama di relazioni e scambi reciproci», un mare di testi agiografici (redatti esclusivamente da uomini, va da sé), rare «auto-agiografie, che sono memoriali e diari dell’anima», volti, gesti, aspirazioni, «libera e solitaria ricerca di Dio»…

Per non parlare di coloro che sono rimaste anonime, come la reclusa irlandese citata nella Vita di san Colombano di Giona da Bobbio:

Mentre [Colombano] è immerso in tali pensieri, gli accade di passare presso la cella di una donna consacrata a Dio. In un primo momento la saluta con tono umile, poi comincia a rivolgerle, secondo il suo stile, un’ardente esortazione. Questa, vedendo la veemenza crescente del giovane, gli dice: «Sono fuggita e sono partita per la guerra facendo tutto quanto mi era possibile. Ho lasciato la mia casa quindici anni fa e sono giunta in questo luogo di peregrinazione; mai, grazie all’aiuto di Cristo, dopo aver posto mano all’aratro, mi sono voltata indietro, e se la debolezza del mio sesso non mi fosse stata di ostacolo, avrei raggiunto, attraversando il mare, un luogo di peregrinazione ben più remoto. Ma tu, nel pieno ardore giovanile, ti attardi nella terra nativa…?»2

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  1. Alessandra Bartolomei Romagnoli, Le recluse nello specchio della letteratura agiografica. Appunti per una ricerca, in «Quaderni di storia religiosa medievale» 24, 1/2021, pp. 51-105.
  2. Giona, Vita di san Colombano, I, 3, Abbazia San Benedetto, Seregno, 1999, pp. 46-47 (il corsivo è mio).

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L’umile rendiconto («Un cammino ancora possibile?» di Jean-Claude Lavigne, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Cammino ancora possibileAperture, oscurità e luci: queste sono le categorie in cui il domenicano Jean-Claude Lavigne raccoglie i momenti distintivi del «percorso vocazionale»1. Le aperture, si diceva, sono prevalentemente incontri, anzitutto con la parola di Dio («Il cammino spirituale, se è cristiano, deve a un certo punto confrontarsi con la parola di Dio»), o con la parola di un altro («La nostra storia di salvezza è dinamica, un processo infinito di superamento che si nutre di incontri e dialoghi. […] L’avventura umana è questo viaggio tra le parole, con le parole»), o infine incontri con un luogo (dove la propria scelta può diventare radicale) o con altre persone («Uomini o donne che fanno venir voglia di imitarli»). Va sottolineato come queste circostanze, queste aperture, appunto, che in quanto tali, fanno pensare a un intervento, a un apporto, a un movimento dall’esterno verso l’interno, siano in realtà, secondo Lavigne, occasioni per dare forma a qualcosa che è già in noi, per risvegliare «il meglio di ciò che in noi è in attesa».

Sono parole molto confortanti (pensare che qualcosa di buono sia in attesa dentro di noi), come è molto confortante il riferimento alla cosiddetta «identità narrativa» di ciascuno, un concetto che il p. Lavigne mutua dal filosofo Paul Ricoeur: «L’identità di ciascuno passa attraverso una relazione con “l’altro” che si costituisce in una narrazione di sé incessantemente rinnovata; in gran parte noi siamo ciò che i racconti su noi stessi, condivisi con altri, ci aiutano a essere»; come ancora è confortante l’immagine dello Spirito Santo come «colui che apre delle brecce» attraverso le quali… Parole confortanti, ma che vanno respinte, o meglio: ascoltate, rispettate e lasciate nel loro giusto contesto di fede, senza avventurarsi in astrazioni.

In virtù, probabilmente, della medesima ostinazione intellettuale, sono le oscurità ad attirare con più forza, quelle che l’autore suddivide in notti e rigetti. Anche qui è bene resistere alla tentazione di astrarre e considerare quello che Lavigne elenca in relazione alla vita religiosa. E dunque: deliri (entusiasmi che sono in realtà turbamenti o vere e proprie turbe psicologiche), impotenze (le derive di un certo eroismo romantico), inquietudini (l’umana diffidenza), la paura dello sguardo degli altri, lo «sfasamento» (cioè una pericolosa estraneità alla propria epoca e un attaccamento ad arcaismi che sono soltanto «folclore»), e ancora monotonia, difficoltà e «macchine settarie», e ancora il richiamo della paternità e della maternità, della carriera e della libertà. A queste «obiezioni» il p. Lavigne risponde con un coraggioso ciononostante, con la pazienza di un lento discernimento, la consapevolezza dei propri limiti e fragilità, l’umiltà di chiedere aiuto (umano e divino), una serena aspirazione al bene possibile, l’insistenza a «osare domande che restano vive benché siano senza risposta».

Parole, ancora, molto confortanti, e anche illuminanti per chi cerca soltanto di capire e non di aderire, come questa cruciale distinzione che Lavigne mutua dal teologo Paul Tillich: «La fede non è un atto di conoscenza che comporti un qualche grado di certezza, forte o debole, perché allora sarebbe credenza, afferma Paul Tillich. La fede è certezza (concentrazione sull’infinito) e al tempo stesso incertezza radicale; il dubbio appartiene alla fede». E l’unica cosa che può affrontare il dubbio è, appunto, il coraggio.

Parole confortanti, che possono essere ascoltate, rispettate e lasciate nel loro contesto di fede, mentre si osserva con lucidità, e una punta di indulgenza, quello che Lavigne chiama «l’umile “rendiconto” di ciò che abbiamo fatto ogni giorno».

(2-fine)

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  1. Jean-Claude Lavigne, Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2021 (edizione originale 2012).

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Quei mattini in cui tutto sembra possibile («Un cammino ancora possibile?» di Jean-Claude Lavigne, pt. 1/2)

Cammino ancora possibileLa routine, consolidata, prevede una scorsa alle prime pagine del libro appena acquistato in modo da poterne valutare l’«urgenza» nell’ordine di lettura, i due momenti essendo da tempo separati, ma in questo caso l’introduzione ha prodotto la decisione di procedere senza dilazioni. Sì, perché raramente mi è capitato di leggere un’introduzione tanto onesta, precisa e invitante come quella che il p. domenicano Jean-Claude Lavigne ha anteposto al suo Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo1. Il titolo italiano, che si deve all’Editore (quello originale infatti, derivato da un versetto dell’Apocalisse, è «Voici, je viens». La vocation religieuse) è a suo modo un’introduzione all’introduzione e aggiunge una tonalità per così dire ancora più attraente.

Ebbene, questa introduzione parla di felicità, della felicità non come contrario dell’infelicità, bensì della mancanza di senso; della felicità che deriva «da una vita [quella religiosa] alla quale possiamo dire “sì” perché ci permette di divenire quello che siamo in potenza e di costituirci come soggetti della nostra storia». Parlare di questa felicità è la vera motivazione del libro, prim’ancora che quella di illustrare e spiegare le forme e i modi, le luci e le ombre della vocazione religiosa; certo, di quello alla fine si tratta, ma lo spunto primario è il momento «in cui la felicità chiede di esprimersi a parole», di essere raccontata anche a costo di essere schernita e addirittura commiserata e scartata come pia illusione. Appartengo, per semplificare, alla schiera di coloro che p. Lavigne chiama i «disincantati», e mi avvicino con circospezione a concetti come essere in potenza o soggetti della propria storia, nondimeno trovo assai prezioso poter ascoltare quello che il p. Lavigne ha da dire: «Ho sentito l’urgenza di parlare di questa forma di vita, la mia, che per me si è incarnata nell’ordine domenicano. […] Ho nutrito il desiderio di condividerla – probabilmente con una certa dose di ingenuità e di vanità – e di dire che è possibile e feconda, una possibilità vitale per uomini e donne del nostro tempo». Il domenicano si rivolge ai “compagni di strada”, a quelli che “ci stanno pensando”, a chi è agli inizi o chi quegli inizi ormai lontani vuole ricordare, ma il suo discorso, pacato, disteso, ragionevolmente sereno richiede soltanto disponibilità di ascolto e umana curiosità.

Posta questa premessa non trascurabile, Lavigne suddivide la sua esplorazione dell’esperienza della vocazione – il richiamo alla «dimensione esperienziale» è fondamentale poiché «l’avventura di ciascuno è singolare e non esiste una dimensione standard» e si può attingere, semmai, a un patrimonio di storie «di migliaia di uomini e donne [che] nel corso della storia hanno fatto questa strana esperienza» – in tre grandi momenti: le «aperture», cioè il momento iniziale, in cui «si tratta di discernere una deviazione» e che può coincidere con la lettura di una parola di Dio che propone una improvvisa rivelazione di se stessi; con l’ascolto di una parola umana, cioè la parola di un altro, sia esso un amico, un parente, un religioso; con un incontro, con un luogo, una persona, una comunità.

Poi le «oscurità», cioè i momenti di crisi, di dubbio, di incertezza; e infine le «luci», cioè le conferme, le lente conquiste, gli approdi, «quei mattini in cui tutto sembra possibile». Poiché la vocazione, oltre a non passare «attraverso parole chiaramente percepite» (e mi piace che ciò venga ricordato), non è un evento istantaneo bollato col timbro della certezza, bensì una vicenda che in certa misura si sovrappone all’intera estensione della vita religiosa che si è scelta: si prende un’altra strada, quella evangelica (rispetto a quale sarebbe troppo lungo qui approfondire), e nel mentre la si percorre la si verifica in continuazione o si è costretti a verificarla in continuazione.

E se le aperture e le luci sono interessanti ai fini, se così si può dire, di conoscenza, quanto più da vicino ci toccano le oscurità?

(1-segue)

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Jean-Claude Lavigne, Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2021 (edizione originale 2012).

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Un tratto pianeggiante (Isacco della Stella, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

«Tutta la nostra vita è un punto o un momento», ribadisce Isacco della Stella nel Sermone 281, invitando i suoi confratelli ad avanzare con umiltà nella tenebra del mondo, con l’unico conforto, se così lo si può chiamare, che il peccato, l’errore, non è difinitivo. «Tutto quello che facciamo in modi così diversi e variegati è una sola opera», che verrà giudicata alla fine, ed è per questo che durante siamo assaliti di continuo dal dubbio. Mentre, appunto, camminiamo nel buio, o ci fermiamo del tutto disorientati, vediamo e al tempo stesso non vediamo, dobbiamo riconoscere che «siamo una combinazione gemellare» di cecità e visione, figli della terra e figli del Cielo.

Da tale condizione deriva una tensione estrema e insanabile, in particolare per coloro che come lui hanno scelto la vita monastica. Se la grazia della fede, o più esattamente la discesa in terra del Figlio di Dio, ha «dimostrato» la nostra origine divina, «io confesso», dice Isacco, «di ritrovarmi ora come straniero e pellegrino quaggiù, vale a dire in tutto questo mondo, come se non provenissi per niente dal mondo né fossi figlio dell’uomo, ma figlio di Dio, nascosto sotto l’immagine e la somiglianza di un uomo» (il corsivo è mio). Se anche i suoi genitori, i suoi fratelli, portassero dei testimoni, o mostrassero persino «i segni nella pelle e nella carne», Isacco si opporrebbe: «Io sono cosciente della mia origine, e nego ostinatamente e contesto decisamente, dimostrando che io non sono quello che essi pensano, e che essi sono ingannati dall’immagine».

Quale «potenziale dissociativo» c’è in questo rifiuto! Tanto che si sarebbe quasi tentati di evocare il richiamo all’umiltà, se non fosse che lo stesso Isacco non può tralasciare di menzionare un grande, inaggirabile «però»: «Noi non siamo affatto terreni in quanto originari della terra, ma celesti perché originari del cielo, vestiti però di un sacco terreno». E il caro, vecchio sacco terreno è il «punto» dove si manifesta la nostra duplicità, in cui sperimentiamo con evidenza immediata2 la «combinazione gemellare»; è il sacco terreno che si sveglia, si addormenta, mangia, digiuna, soffre, gioisce, corre, si piega, spera e si dispera, ecc.: non si va mai da nessuna parte «senza questa compagnia».

Nelle frasi, mirabili, di Isacco la duplicità pare quasi assumere i tratti modernissimi della sindrome maniaco-depressiva: «Sono visitato all’alba e subito sono messo alla prova, vengo accolto e subito abbandonato; mi esalto e subito mi abbatto, come uno che sale su un sentiero di montagna e non trova un tratto piano». Letizia, dolcezza, luce, troppa luce, assenza di qualsiasi dubbio; e subito dopo paura, pianto e amarezza: «Mi consumo in una tale confusione di tedio e di accidia che tutto mi scoraggia dallo sperare un miglioramento e sono costretto a tacere». In tale alternanza, come dice il Salmista (106), «la mia anima si dissolve. Sono turbato e barcollo come un ubriaco, e tutta la mia saggezza è divorata».

«Io, lo confesso [ancora], non riesco mai a basarmi su me stesso, e sono sempre stramacinato [permolor] tra la speranza e il timore.» Isacco, nostro fratello.

(2-fine)

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  1. Isacco della Stella, Sermoni 27, 28 e 29, in I sermoni, vol. I, dalla Settuagesima alla Pentecoste, a cura di D. Pezzini, Paoline 2006, pp. 204-26.
  2. «Sono cose che proviamo con maggiore certezza nel libro dell’esperienza più che non impararle dalla voce del predicatore» (29, 13).

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Grazia e nichilismo (Dice il monaco, LXXXVIII)

Dice Aelredo di Rievaulx, monaco cisterciense, nel 1142:

Che cosa ti distingue, o uomo? Il libero arbitrio? Certamente, ma rispetto ai giumenti, non agli ingiusti. Poiché anche gli ingiusti hanno il libero arbitrio, senza il quale non potrebbero neanche essere ingiusti. Con l’unica eccezione del peccato originale, che per altro motivo lega anche quelli che non lo vogliono, nessuno è giusto se non per sua volontà, e nessuno può essere ingiusto se non per sua volontà, e dunque solo grazie al suo libero arbitrio. Ma la volontà è elevata alla giustizia solo dalla grazia; nell’ingiustizia invece sprofonda da sola.

* * *

Veda, dunque, chi può, creda chi non può vedere. Chi vede ne gioisca, ma nell’umiltà; chi non vede, creda, ma con preseveranza, perché «se non crederete non comprenderete». Veda, dico, che ogni creatura è fatta dal niente, ed è fatta mutevole, e che, spinta da questa mutabilità che fa parte della sua natura, continua a volgersi a ciò da cui è stata tratta, il niente.

♦ Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della carità, I, XII, 36; I, XIII, 40, a cura di D. Pezzini, Paoline 1999, p. 121, 123.

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Un due tre, Stella (Isacco della)! (pt. 1/2)

Sollecitato da un dotto articolo di Domenico Pezzini1, mi sono deciso ad avvicinarmi a Isacco della Stella, «il grande mistero di Cîteaux», come lo chiama Louis Bouyer, «unico tra i primi cistercensi per la libertà e l’arditezza con cui introduce nei suoi sermoni le discussioni metafisiche più tecniche» e al tempo stesso prodigo di «impreviste espressioni di un’umanità gustosa e di una familiarità inattesa». Sarà un percorso lungo, e l’ho cominiciato proprio con i tre sermoni analizzati da d. Pezzini, pronunciati da Isacco per la domenica di Quinquagesima, ossia la domenica precedente l’inizio della Quaresima (50 giorni prima di Pasqua), e dedicati alla dialettica tra terra e cielo, tra esteriorità e interiorità, tra figlio dell’uomo e Figlio di Dio, quindi a quella che sarebbe la dualità costitutiva della nostra condizione2.

Va da sé che questa dialettica è, dovrebbe essere, «ascensionale»: dalla terra dovremmo staccarci per ambire al cielo, e subito alla rete di citazioni dalla Scrittura, e all’argomentazione che ne consegue, si mescolano osservazioni «dal vero» e considerazioni personali, in un intreccio che restituisce il sapore di un discorso effettivamente pronunciato davanti a un gruppo di confratelli; confratelli nella fattispecie riuniti nel capitolo di un’abbazia su «un’isola piccola e perduta nel mare immenso»: l’abbazia di Notre-Dame des Châteliers sull’isola di Ré, di fronte a La Rochelle, dove Isacco volontariamente o no (non si sa con precisione) passò un periodo di ritiro o di esilio (non si sa quanto lungo) qualche anno dopo il 1150.

Dovremmo fare come gli uccelli, che, «per lanciarsi con le ali nell’aria, si appoggiano a fondo con tutto il corpo sul suolo dove si trovano»; dovremmo retrocedere «come fanno gli arieti per prendere la rincorsa, e lanciarci con ancora più forza verso ciò che ci sta davanti!» Sempre davanti, sempre verso l’alto, dimenticando il mondo e lasciando a terra, nella terra, tutto quello che crediamo di essere e di essere stati: «Cosa resta infatti di noi nel mondo, non dico in termini di stima, ma anche solo di memoria?» Giudichiamoci noi per primi, con durezza, in modo da non dover temere altro giudice: facciamolo qui, dice Isacco, in questo «inferno» che è il monastero, dopo aver abbandonato il mondo, laggiù, per giungere alla gloria, lassù, e aggiunge una chiosa abbastanza sorprendente: «E se l’abate, dilettissimi, fosse negligente nei nostri confronti, dobbiamo fare da abati a noi stessi».

Duro, preciso, mesto e disilluso, Isacco. Ma ecco che il giorno dopo (Sermone 28) il discorso prende una piega inattesa: «Io pure, fratelli, delle cose che ho detto ieri in tanti modi e in un mare di parole [finissima ripresa marina] sul come crocifiggere in me il figlio dell’uomo, a dire il vero non capisco niente». Come niente? E non è finita. «Confesso», prosegue Isacco, «che fatico a capire cosa davvero faccia in tutto ciò che faccio, e dopo aver fatto tutto il bene e sopportato tutto il male, non so se alla fine merito amore oppure odio.» Con un balzo di quasi novecento anni Isacco è improvvisamente al nostro fianco, incerto, dubbioso, e ci invita a non presumere di aver fatto, capito, definito tutto, di rimanere per così dire all’erta fino alla fine, perché «il senso di ciò che affermiamo dipende dalla fine del discorso. Ogni discorso resta sospeso sino alla fine, alla fine è applaudito, alla fine si risponde, alla fine si valuta; prima della fine tutte le cose oscillano.» Prima della fine tutte le cose oscillano: si può correggere, si può tagliare, si può sbagliare di nuovo, si può aggiungere inutilmente; «nel mezzo» le cose sono mobili, non hanno «un luogo fisso», sono incerte, forse saranno compiute, forse saranno tralasciate e resteranno incompiute: solo «la fine conclude tutto, sistema tutto, perfeziona tutto, al punto che prima della fine si corre un grosso rischio nel definire un qualcosa»3.

Accidenti, Isacco!

(1-segue)

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  1. Isacco della Stella su come comporre in unità la dualità della natura umana: un tema con sette variazioni, in «Vita Nostra» XI (2021), 2, pp. 65-92.
  2. Isacco della Stella, Sermoni 27, 28 e 29, in I sermoni, vol. I, dalla Settuagesima alla Pentecoste, a cura di D. Pezzini, Paoline 2006, pp. 204-26.
  3. Si può segnalare una interessante consonanza con le considerazioni svolte da Pasolini nel breve saggio Osservazioni sul piano-sequenza, del 1967, raccolto in Empirismo eretico. «L’uomo cioè si esprime soprattutto con la sua azione – non intesa in una mera accezione pragmatica – perché è con essa che modifica la raltà e incide nello spirito. Ma questa sua azione manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. […] Finché ha futuro, cioè un’incognita, un uomo è inespresso. […] Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita

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San Bernardo celo, Isacco della Stella manca

Il mio «interesse per le cose monastiche», credo di averlo già detto, è fatto anche di aspetti leggeri, molto leggeri, sui quali fantastico spesso, fiducioso che non si tratti di mancanza di rispetto, di ostinata secolarizzazione, ma, in fondo, di affettuosa adesione, di semplice gioco. E anche in qualche misura desiderio che queste «cose» conoscano più ampia diffusione.

Alcuni di tali aspetti non sono, forse, così leggeri, come ad esempio il sogno di una libreria superspecializzata in cui si trovi tutto quanto è stato pubblicato sul monachesimo, e nient’altro: scaffali e scaffali di volumi ordinati cronologicamente per ordine: il che produrrebbe, tra l’altro, un fantastico «ordine3», un ordine al cubo. Poi, naturalmente, ci vorrebbe una rivista, anch’essa specializzata, ma non di quelle, serie e bellissime, che già esistono, bensì un periodico di larga divulgazione, e non soltanto quei frequenti «speciali» (Scopri come viveva un monaco del Medioevo, aut similia, che dicono un po’ sempre le stesse cose): no, un bel mensile – chessò, «Famiglie monastiche», «Chiostri» – con tutte le sue belle rubriche.

Poi un supermercato di prodotti monastici! Ce n’è più d’uno online, benissimo, ma io m’immagino un iper di quelli che si vedono dalle tangenziali, con una grande insegna luminosa nella nebbia – MONKS & NUNS –, un comodo parcheggio, reparti ben segnalati e una caffetteria dove gustare il caffè leggero delle monache e sgranocchiare i mandorlati rosa e verdognoli che piacevano tanto al Principe di Salina (glisso sul relativo catalogo cartaceo dello store che conservo gelosamente). «Offerta lampo! 500 g di lavanda di Senanque al -30%». Va da sé che andrebbero previsti anche dei punti vendita più piccoli, più local, come vanno ora di moda, ma ugualmente ben forniti – «Padre, mi scusi, dove trovo la Chartreuse?», «Oh, mi spiace, purtroppo siamo rimasti senza; l’abbiamo già riordinata, ma sa, i certosini hanno i loro tempi…», «… che noi senz’altro rispettiamo»; «Scusi, sorella, è arrivato il miele millefiori di Finalpia?», «Oh sì! Giusto ieri, ed è buonissimo! Lo trova in fondo al secondo corridoio sulla destra».

Poi la Lego potrebbe mettere sul mercato un bel «Kit Mont-Saint-Michel»; e tutte le case produttrici di modellini dovrebbero fare altrettanto (in realtà c’è qualcosa del genere). Birre, caramelle, tisane e saponette ci sono già, quindi magari mazzi di carte, cancelleria, sticker e infinite emissioni filateliche (lo so, sono tutte cose un po’ novecentesche), e potrei andare avanti; il tutto però senza quella sottile distorsione del senso che si avverte nelle innumerevoli e stucchevoli raccolte di «Relaxing Gregorian». No, bisognerebbe che non si perdesse mai la profonda serietà di una scelta di vita e al tempo stesso si riuscisse a declinarla con l’ironia. Non so, questo è un punto delicato, tanto che talvolta comincio a diffidare della cosiddetta «chiave ironica» che tutte le porte dovrebbe aprire, ma adesso non è il momento…

Il culmine infine sarebbe raggiunto se un mattino, andando in edicola, trovassi l’annuncio di una nuova raccolta a fascicoli: «Monache e monaci. Scopri la vita di chi ha scelto il silenzio del chiostro. Prima uscita la figurina “Abate benedettino” e i primi tre pezzi per realizzare un vero chiostro in miniatura. Solo 1,99€». O forse, meglio ancora, se mi accorgessi che un editore illuminato ha appena lanciato l’Album delle figurine dei monaci: lo comincerei all’istante, dieci bustine per favore, grazie, anche a costo di ritrovarmi con sette san Bernardi e neanche un Isacco della Stella, che, lo si capirebbe subito, è rarissimo.

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Poveri esseri di un giorno (Dice il monaco, LXXXVII)

Mi capita spesso di leggere pagine di autori certosini come se fossero resoconti di viaggio in una terra lontana e ignota, se non – devo essere sincero – come descrizioni di un mondo alternativo, nel quale esseri viventi del tutto simili a noi, dotati forse solo di una più accesa autoconsapevolezza, fanno esperienza di una realtà che nella nostra dimensione, invece, non è data. Letteratura fantastica, in un certo senso. E qui la distanza per me è incolmabile, anche, se non soprattutto, quando la spesso incomparabile mitezza certosina di quei resoconti può spingere a dire sottovoce: «Se solo fosse vero…»

Anche quando… dice Augustin Guillerand, certosino, morto nel 1945:

Creature impotenti, poveri esseri di un giorno, piccoli fiori nati all’alba e già appassiti alla sera, eppure possiamo volgerci verso di lui e immediatamente ci dà ascolto, ci parla, ci accarezza, si dà a noi; si china sulla nostra miseria e la innalza fino al suo trono; ci fa entrare nella sua dimora, e questa dimora è il suo Amore, è il respiro stesso del suo Essere e della sua vita. Io stancherei il migliore e il meno occupato degli uomini presentandomi così a lui ad ogni momento con, purtroppo, una disinvoltura e una sfacciataggine che offenderebbero anche i più indulgenti; Dio mi riceve sempre, perdona e scusa i miei modi sfacciati. Egli mi riceve e mi coccola. Mi scopre gli splendori del suo palazzo, ha sempre qualche luce nuova da offrire alla mia intelligenza, qualche delizia per il mio cuore. E se la luce è antica, egli la riveste di freschezza come un fiore di una acerba primavera; e se crede utile lasciarmi nella notte, questa stessa notte si illumina di chiarezza e le tenebre più spesse si cambiano in vive luci. E se mi rifiuta le delizie sensibili, mi fa trovare nella preghiera del deserto delle dolcezze superiori che incantano la mia fede di bimbo che confida in suo Padre.

♦ Augustin Guillerand, in Alla scuola del silenzio. Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, prefazione di A. Matteo, Rubbettino 2021, pp. 193-94.

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Duemilaottocentoventi pagine posson bastare, per ora (Schedine: Bernardo di Chiaravalle; Benedettini; Certosini)

SermoniAnnoLiturgico 2Bernardo di Chiaravalle, Sermoni per l’anno liturgico / 2, introduzione, traduzione e note di D. Pezzini, Città Nuova 2021. Non si può passare sotto silenzio che lo scorso settembre, con la pubblicazione del secondo tomo del terzo volume dedicato ai Sermoni per l’anno liturgico, si è conclusa l’edizione delle «Opere di San Bernardo», avviata nel 1984 con il sostegno dell’Abbazia di Chiaravalle milanese e per la cura di Ferruccio Gastaldelli. Altre 950 pagine di san Bernardo, con testo latino a fronte, fitte delle sue parole più quotidiane, se così si può dire, quelle che rivolgeva ai «suoi» monaci quando poteva rientrare nella pace di Clairvaux «con l’animo affaticato da folle umane diverse che cercano cose diverse». A riprova del giacimento reso disponibile, apro (quasi) a caso una pagina, la 611, e cito dal Sermone agli abati: «Questo mare vasto – nel quale, in ogni caso, è certo che viene indicato niente altro se non il mondo presente, amaro e fluttuante – è transitabile da tre generi di uomini perché lo attraversino, ognuno a proprio modo, per uscirne liberi. Questi tre sono Noè, Daniele e Giobbe: di questi il primo lo attraversa in nave, il secondo su un ponte, il terzo a guado».

LesBenedictinsLes Bénédictins. La Règle de saint Benoît, traduction de la Règle réalisée par les moines de l’abbaye Saint-Wandrille, sous la direction de Daniel-Odon Hurel, Bouquins-Robert Laffont 2020. Volume ricchissimo che dà la Regola nel testo latino con traduzione francese e un assai esteso commento spirituale e storico, opera di un plotone di monaci benedettini e studiosi e studiose – quasi una raccolta di brevi e non tanto brevi saggi dedicati a ogni capitolo. 1340 pagine arricchite da un’utile «Chronologie de la dynamique bénédictine» e da un’utilissima «bibliografia cronologica» della Regola che, oltre all’elenco in ordine cronologico delle edizioni a stampa della medesima (40 pagine, dall’edizione tedesca del 1485/1490 di Memmingen, a quella italiana del 2011 a cura dei benedettini dell’Abbazia Madonna della Scala di Noci), offrono soprattutto l’elenco, sempre cronologico, dei commenti alla Regola, sempre a stampa (30 pagine scarse, dal commento di Juan de Torquemada, zio di quel Torquemada, stampato a Parigi nel 1491-94, a quello dottissimo di Aquinata Bockmann, in tre volumi, stampato a Parigi – toh – nel 2018 dalle Editions du Cerf) e l’elenco delle costituzioni degli ordini e delle congregazioni che «riconoscono Benedetto come patriarca» (altre 30 pagine affascinanti e utilissime di storia benedettina). Pur inserendosi nella lunga tradizione dei commenti, questo volume «segna un doppio scarto: non è firmato da un religioso o da un gruppo di monaci, ma è un’opera collettiva che riunisce docenti universitari e alcuni religiosi particolarmente competenti. Non è rivolto ai religiosi (senza che sia proibito loro di leggerlo!), bensì al pubblico il più vasto possibile, e per far ciò tenta una sintesi di undici secoli di riflessione sulla Regola con la percezione contemporanea del monachesimo cristiano» (dall’Introduzione di D.-O. Hurel).

 

AllaScuolaDelSilenzioAlla scuola del silenzio. Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, prefazione di A. Matteo, Rubbettino 2021. Graditissima nuova edizione, con titolo up to date, di un’antologia già apparsa nel 1987 dalle Paoline (e presentata allora dal cardinal Martini) e che inaugura la promettente collana dell’editore calabrese «Amore e silenzio. Voci», diretta da A. Cavallaro, T. Ceravolo e I. Iannizzotto. Il titolo parla da solo, il florilegio è organizzato per grandi aree tematiche, gli autori spaziano lungo gli oltre novecento anni di vita dell’Ordine e il volume (di 526 pagine) è corredato da estesi profili biografici e da un indice analitico degli argomenti singolare per precisione del dettaglio. Se cerco, ad esempio, «linguaggio», trovo che «la menzogna è il vuoto e il l. del nulla» e vengo rimandato a queste parole di Augustin Guillerand (dai suoi Ecrits spirituels, raccolti dopo la morte avvenuta nel 1945): «Si confonde il silenzio dell’Essere col silenzio del nulla. Ma il nulla non sa né parlare né tacere; sa soltanto agitarsi e mascherare, con dei movimenti superficiali, il vuoto che è in lui. Parole delle labbra alle quali non corrisponde alcun pensiero, atteggiamenti del corpo, mimica del volto che non traducono alcuna realtà o mentono realmente: ecco il linguaggio del nulla. Ed è per questo che lo moltiplica. Ci vogliono molte parole per non dire nulla o per dire ciò che non si pensa».

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