Sollecitato da un dotto articolo di Domenico Pezzini1, mi sono deciso ad avvicinarmi a Isacco della Stella, «il grande mistero di Cîteaux», come lo chiama Louis Bouyer, «unico tra i primi cistercensi per la libertà e l’arditezza con cui introduce nei suoi sermoni le discussioni metafisiche più tecniche» e al tempo stesso prodigo di «impreviste espressioni di un’umanità gustosa e di una familiarità inattesa». Sarà un percorso lungo, e l’ho cominiciato proprio con i tre sermoni analizzati da d. Pezzini, pronunciati da Isacco per la domenica di Quinquagesima, ossia la domenica precedente l’inizio della Quaresima (50 giorni prima di Pasqua), e dedicati alla dialettica tra terra e cielo, tra esteriorità e interiorità, tra figlio dell’uomo e Figlio di Dio, quindi a quella che sarebbe la dualità costitutiva della nostra condizione2.
Va da sé che questa dialettica è, dovrebbe essere, «ascensionale»: dalla terra dovremmo staccarci per ambire al cielo, e subito alla rete di citazioni dalla Scrittura, e all’argomentazione che ne consegue, si mescolano osservazioni «dal vero» e considerazioni personali, in un intreccio che restituisce il sapore di un discorso effettivamente pronunciato davanti a un gruppo di confratelli; confratelli nella fattispecie riuniti nel capitolo di un’abbazia su «un’isola piccola e perduta nel mare immenso»: l’abbazia di Notre-Dame des Châteliers sull’isola di Ré, di fronte a La Rochelle, dove Isacco volontariamente o no (non si sa con precisione) passò un periodo di ritiro o di esilio (non si sa quanto lungo) qualche anno dopo il 1150.
Dovremmo fare come gli uccelli, che, «per lanciarsi con le ali nell’aria, si appoggiano a fondo con tutto il corpo sul suolo dove si trovano»; dovremmo retrocedere «come fanno gli arieti per prendere la rincorsa, e lanciarci con ancora più forza verso ciò che ci sta davanti!» Sempre davanti, sempre verso l’alto, dimenticando il mondo e lasciando a terra, nella terra, tutto quello che crediamo di essere e di essere stati: «Cosa resta infatti di noi nel mondo, non dico in termini di stima, ma anche solo di memoria?» Giudichiamoci noi per primi, con durezza, in modo da non dover temere altro giudice: facciamolo qui, dice Isacco, in questo «inferno» che è il monastero, dopo aver abbandonato il mondo, laggiù, per giungere alla gloria, lassù, e aggiunge una chiosa abbastanza sorprendente: «E se l’abate, dilettissimi, fosse negligente nei nostri confronti, dobbiamo fare da abati a noi stessi».
Duro, preciso, mesto e disilluso, Isacco. Ma ecco che il giorno dopo (Sermone 28) il discorso prende una piega inattesa: «Io pure, fratelli, delle cose che ho detto ieri in tanti modi e in un mare di parole [finissima ripresa marina] sul come crocifiggere in me il figlio dell’uomo, a dire il vero non capisco niente». Come niente? E non è finita. «Confesso», prosegue Isacco, «che fatico a capire cosa davvero faccia in tutto ciò che faccio, e dopo aver fatto tutto il bene e sopportato tutto il male, non so se alla fine merito amore oppure odio.» Con un balzo di quasi novecento anni Isacco è improvvisamente al nostro fianco, incerto, dubbioso, e ci invita a non presumere di aver fatto, capito, definito tutto, di rimanere per così dire all’erta fino alla fine, perché «il senso di ciò che affermiamo dipende dalla fine del discorso. Ogni discorso resta sospeso sino alla fine, alla fine è applaudito, alla fine si risponde, alla fine si valuta; prima della fine tutte le cose oscillano.» Prima della fine tutte le cose oscillano: si può correggere, si può tagliare, si può sbagliare di nuovo, si può aggiungere inutilmente; «nel mezzo» le cose sono mobili, non hanno «un luogo fisso», sono incerte, forse saranno compiute, forse saranno tralasciate e resteranno incompiute: solo «la fine conclude tutto, sistema tutto, perfeziona tutto, al punto che prima della fine si corre un grosso rischio nel definire un qualcosa»3.
Accidenti, Isacco!
(1-segue)
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- Isacco della Stella su come comporre in unità la dualità della natura umana: un tema con sette variazioni, in «Vita Nostra» XI (2021), 2, pp. 65-92.
- Isacco della Stella, Sermoni 27, 28 e 29, in I sermoni, vol. I, dalla Settuagesima alla Pentecoste, a cura di D. Pezzini, Paoline 2006, pp. 204-26.
- Si può segnalare una interessante consonanza con le considerazioni svolte da Pasolini nel breve saggio Osservazioni sul piano-sequenza, del 1967, raccolto in Empirismo eretico. «L’uomo cioè si esprime soprattutto con la sua azione – non intesa in una mera accezione pragmatica – perché è con essa che modifica la raltà e incide nello spirito. Ma questa sua azione manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. […] Finché ha futuro, cioè un’incognita, un uomo è inespresso. […] Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita.»