La routine, consolidata, prevede una scorsa alle prime pagine del libro appena acquistato in modo da poterne valutare l’«urgenza» nell’ordine di lettura, i due momenti essendo da tempo separati, ma in questo caso l’introduzione ha prodotto la decisione di procedere senza dilazioni. Sì, perché raramente mi è capitato di leggere un’introduzione tanto onesta, precisa e invitante come quella che il p. domenicano Jean-Claude Lavigne ha anteposto al suo Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo1. Il titolo italiano, che si deve all’Editore (quello originale infatti, derivato da un versetto dell’Apocalisse, è «Voici, je viens». La vocation religieuse) è a suo modo un’introduzione all’introduzione e aggiunge una tonalità per così dire ancora più attraente.
Ebbene, questa introduzione parla di felicità, della felicità non come contrario dell’infelicità, bensì della mancanza di senso; della felicità che deriva «da una vita [quella religiosa] alla quale possiamo dire “sì” perché ci permette di divenire quello che siamo in potenza e di costituirci come soggetti della nostra storia». Parlare di questa felicità è la vera motivazione del libro, prim’ancora che quella di illustrare e spiegare le forme e i modi, le luci e le ombre della vocazione religiosa; certo, di quello alla fine si tratta, ma lo spunto primario è il momento «in cui la felicità chiede di esprimersi a parole», di essere raccontata anche a costo di essere schernita e addirittura commiserata e scartata come pia illusione. Appartengo, per semplificare, alla schiera di coloro che p. Lavigne chiama i «disincantati», e mi avvicino con circospezione a concetti come essere in potenza o soggetti della propria storia, nondimeno trovo assai prezioso poter ascoltare quello che il p. Lavigne ha da dire: «Ho sentito l’urgenza di parlare di questa forma di vita, la mia, che per me si è incarnata nell’ordine domenicano. […] Ho nutrito il desiderio di condividerla – probabilmente con una certa dose di ingenuità e di vanità – e di dire che è possibile e feconda, una possibilità vitale per uomini e donne del nostro tempo». Il domenicano si rivolge ai “compagni di strada”, a quelli che “ci stanno pensando”, a chi è agli inizi o chi quegli inizi ormai lontani vuole ricordare, ma il suo discorso, pacato, disteso, ragionevolmente sereno richiede soltanto disponibilità di ascolto e umana curiosità.
Posta questa premessa non trascurabile, Lavigne suddivide la sua esplorazione dell’esperienza della vocazione – il richiamo alla «dimensione esperienziale» è fondamentale poiché «l’avventura di ciascuno è singolare e non esiste una dimensione standard» e si può attingere, semmai, a un patrimonio di storie «di migliaia di uomini e donne [che] nel corso della storia hanno fatto questa strana esperienza» – in tre grandi momenti: le «aperture», cioè il momento iniziale, in cui «si tratta di discernere una deviazione» e che può coincidere con la lettura di una parola di Dio che propone una improvvisa rivelazione di se stessi; con l’ascolto di una parola umana, cioè la parola di un altro, sia esso un amico, un parente, un religioso; con un incontro, con un luogo, una persona, una comunità.
Poi le «oscurità», cioè i momenti di crisi, di dubbio, di incertezza; e infine le «luci», cioè le conferme, le lente conquiste, gli approdi, «quei mattini in cui tutto sembra possibile». Poiché la vocazione, oltre a non passare «attraverso parole chiaramente percepite» (e mi piace che ciò venga ricordato), non è un evento istantaneo bollato col timbro della certezza, bensì una vicenda che in certa misura si sovrappone all’intera estensione della vita religiosa che si è scelta: si prende un’altra strada, quella evangelica (rispetto a quale sarebbe troppo lungo qui approfondire), e nel mentre la si percorre la si verifica in continuazione o si è costretti a verificarla in continuazione.
E se le aperture e le luci sono interessanti ai fini, se così si può dire, di conoscenza, quanto più da vicino ci toccano le oscurità?
(1-segue)
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Jean-Claude Lavigne, Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2021 (edizione originale 2012).