Un tratto pianeggiante (Isacco della Stella, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

«Tutta la nostra vita è un punto o un momento», ribadisce Isacco della Stella nel Sermone 281, invitando i suoi confratelli ad avanzare con umiltà nella tenebra del mondo, con l’unico conforto, se così lo si può chiamare, che il peccato, l’errore, non è difinitivo. «Tutto quello che facciamo in modi così diversi e variegati è una sola opera», che verrà giudicata alla fine, ed è per questo che durante siamo assaliti di continuo dal dubbio. Mentre, appunto, camminiamo nel buio, o ci fermiamo del tutto disorientati, vediamo e al tempo stesso non vediamo, dobbiamo riconoscere che «siamo una combinazione gemellare» di cecità e visione, figli della terra e figli del Cielo.

Da tale condizione deriva una tensione estrema e insanabile, in particolare per coloro che come lui hanno scelto la vita monastica. Se la grazia della fede, o più esattamente la discesa in terra del Figlio di Dio, ha «dimostrato» la nostra origine divina, «io confesso», dice Isacco, «di ritrovarmi ora come straniero e pellegrino quaggiù, vale a dire in tutto questo mondo, come se non provenissi per niente dal mondo né fossi figlio dell’uomo, ma figlio di Dio, nascosto sotto l’immagine e la somiglianza di un uomo» (il corsivo è mio). Se anche i suoi genitori, i suoi fratelli, portassero dei testimoni, o mostrassero persino «i segni nella pelle e nella carne», Isacco si opporrebbe: «Io sono cosciente della mia origine, e nego ostinatamente e contesto decisamente, dimostrando che io non sono quello che essi pensano, e che essi sono ingannati dall’immagine».

Quale «potenziale dissociativo» c’è in questo rifiuto! Tanto che si sarebbe quasi tentati di evocare il richiamo all’umiltà, se non fosse che lo stesso Isacco non può tralasciare di menzionare un grande, inaggirabile «però»: «Noi non siamo affatto terreni in quanto originari della terra, ma celesti perché originari del cielo, vestiti però di un sacco terreno». E il caro, vecchio sacco terreno è il «punto» dove si manifesta la nostra duplicità, in cui sperimentiamo con evidenza immediata2 la «combinazione gemellare»; è il sacco terreno che si sveglia, si addormenta, mangia, digiuna, soffre, gioisce, corre, si piega, spera e si dispera, ecc.: non si va mai da nessuna parte «senza questa compagnia».

Nelle frasi, mirabili, di Isacco la duplicità pare quasi assumere i tratti modernissimi della sindrome maniaco-depressiva: «Sono visitato all’alba e subito sono messo alla prova, vengo accolto e subito abbandonato; mi esalto e subito mi abbatto, come uno che sale su un sentiero di montagna e non trova un tratto piano». Letizia, dolcezza, luce, troppa luce, assenza di qualsiasi dubbio; e subito dopo paura, pianto e amarezza: «Mi consumo in una tale confusione di tedio e di accidia che tutto mi scoraggia dallo sperare un miglioramento e sono costretto a tacere». In tale alternanza, come dice il Salmista (106), «la mia anima si dissolve. Sono turbato e barcollo come un ubriaco, e tutta la mia saggezza è divorata».

«Io, lo confesso [ancora], non riesco mai a basarmi su me stesso, e sono sempre stramacinato [permolor] tra la speranza e il timore.» Isacco, nostro fratello.

(2-fine)

______

  1. Isacco della Stella, Sermoni 27, 28 e 29, in I sermoni, vol. I, dalla Settuagesima alla Pentecoste, a cura di D. Pezzini, Paoline 2006, pp. 204-26.
  2. «Sono cose che proviamo con maggiore certezza nel libro dell’esperienza più che non impararle dalla voce del predicatore» (29, 13).

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