Dodici anni in monastero (pt. 1)

Per quanto sia meglio resistere alla cattiva abitudine di considerare i transfughi soltanto quanto vengono dalla propria parte, ho letto con curiosità Twelve Years in a Monastery di Joseph McCabe (trovato per caso in una libreria di libri usati). Scrittore inglese, di formazione filosofica, e cosiddetto «campione» del libero pensiero, nonché sostenitore dell’ateismo in tempi assai diversi dai nostri, McCabe (1867-1955) fu frate francescano e sacerdote prima di «gettare il saio» e uscire dalla Chiesa cattolica nel 1896. L’anno successivo pubblicò questo libretto, forse il suo titolo più famoso, cominciando a scrivere a rotta di collo (molti suoi testi sono disponibili in rete e qualcosa sta riapparendo in ebook) e dando inizio a un’intensa attività di polemista, divulgatore e organizzatore.

È una fotografia ingiallita di un frammento della lunga storia del monachesimo: di un momento, di un luogo (un’Inghilterra in partibus infidelium, che i monaci cattolici vivevano come terra di missione) e di un individuo, a partire da quali non si può certo generalizzare, ma nemmeno considerare del tutto eccezionali. Un’immagine che sembra raccontare soprattutto di una fase di profondissima decadenza di un’ideale di vita che, dalla sua apparizione sino a oggi, ha attraversato periodi ricorrenti di «corruzione» e «rinnovamento», a dimostrazione, per i suoi sostenitori, dell’eterna aspirazione dell’uomo alla perfezione e, per i detrattori, a misura della sua incompatibilità con la natura umana.

Sin dall’inizio, per esempio, McCabe parla più di «reclutamento» che di «vocazione». Aveva quindici anni e gli piaceva molto la chiesa francescana di Manchester, i frati fecero qualche allusione e poi un converso si dedicò «a suscitare in me il desiderio di entrare nel loro Ordine». Dopo due tentativi andati a vuoto, costui lo convinse a iscriversi alla scuola del monastero («I missionari sono i tipici “sergenti da reclutamento”, [e hanno] il compito di procurare fondi e novizi per i loro conventi»).

«Eravamo in otto quell’anno e si può tranquillamente affermare che non ci fosse in tutto il Regno Unito un gruppo di collegiali più oziosi e furbi di noi. Il nostro degno professore sapeva poco della vita dei ragazzi, e ancor meno di quella delle ragazze. Aveva, inoltre, molti altri incarichi che lo distraevano dai suoi doveri di docente. Il rettore, un vecchio frate belga deliziosamente ottuso, avrebbe potuto assolvere i suoi compiti altrettanto bene che se fosse vissuto su Marte.»

Dopo un anno scarso – passato a studiare latino,  un po’ di francese e un po’ di greco – McCabe viene mandato nel monastero di Killarney per il noviziato, il cui racconto comincia su una nota quantomeno singolare: «Il primo sentimento che quel luogo mi ispirò quando vi entrai, alla fine del maggio 1885, fu un misto di profonda malinconia e scontentezza». Quella sera, seduto ai tavoli spogli di legno del refettorio, in totale silenzio e deprimente gravità, «sentii che la mia carriera monastica sarebbe stata molto breve».
(1-continua)
Joseph McCabe, Twelve Years in a Monastery, third and revised edition, London, Watts and Co., 1912.

3 commenti

Archiviato in Francescani, Libri

3 risposte a “Dodici anni in monastero (pt. 1)

  1. Complimenti, davvero un blog interessantissimo! Sono un appassionato di monachesimo e in generale di movimenti religiosi tardantichi e medievali, e da un po’ di anni, anche uno studente di questi argomenti. Davvero interessante leggere le tue riflessioni!

    A presto!

  2. perfectioconversationis

    Mah, se un uomo mi dicesse che prima del matrimonio provava “malinconia e profonda scontentezza”, se durante il fidanzamento si fosse riconosciuto “ozioso e furbo”, se avesse promesso di essere fedele a vita con un sacramento, se poi mi dicesse di aver divorziato dopo dodici anni… non gli chiederei una recensione della vita matrimoniale.

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