(la prima parte è qui)
L’immagine del noviziato che scaturisce dalle pagine che vi dedica McCabe (siamo nel 1885) è quantomeno sorprendente: un luogo dove individui troppo giovani sono costretti ad affrontare «il tremendo problema di una scelta irrevocabile», sotto l’occhio vigile di un manipolo di frati che hanno smarrito da tempo, se mai l’hanno avuto, il fervore della loro vocazione, e al tempo stesso fanno di tutto per isolare e preservare il germe di quella dei novizi. Il noviziato: l’istituzione e il luogo «in cui si prova la nuova vita».
La nuova vita, la nuova giornata, comincia alle 4.45, con una sveglia che ricorda un po’, tanto, certe scene da caserma, con il«superiore» che passa battendo le porte delle celle con un bastone («In una circostanza un giovane confratello, profondamente addormentato, venne trascinato fuori della stanza sul materasso dai suoi compagni e lasciato in mezzo al corridoio»), e prosegue secondo un ritmo scandito dalla celebrazione dell’Ufficio in cappella. Niente di strano, anzi, se non fosse per lo squilibrio tra la lunghezza dei riti e l’effettiva capacità di concentrazione dei confratelli, soprattutto dei più giovani. Il freddo e il sonno al mattino, la fame verso mezzogiorno, la distrazione durante la meditazione silente, la difficoltà della lingua latina… tutte cose che fanno dire, tristemente, a McCabe come «nel complesso, sia stato subito chiaro che delle sette ore di preghiera che ci erano imposte, almeno sei fossero una assoluta perdita di tempo».
E anche le refezioni sono motivo di sorpresa, per lui e per chi legge. Certo non per il cibo, bensì per le bevande. Sia a pranzo che a cena, infatti, il pasto è accompagnato da una pinta di birra per ciascun confratello, novizi compresi. «Molti di noi avevano a mala pena raggiunto l’età del bere forte, ma eravamo costretti a prendere due boccali al giorno… insieme agli altri». E ogni scusa è buona per aggiungere una terza pinta quotidiana, per esempio sostituendola al tè delle 15.30. E poi il vino nei giorni festivi, «un bicchiere di sherry, seguito da due o tre di ottimo porto – talvolta persino champagne» (offerto dai parrocchiani ai «poveri frati»). «Non avevo mai bevuto birra, né vino, prima di entrare in monastero, ma un semplice calcolo mi dice che, nel mio sedicesimo anno, devo aver consumato cinquanta galloni di birra e una dozzina di bottiglie di buon vino durante il mio primo anno di vita monastica» (cinquanta galloni sono circa duecento litri). Già, i giorni festivi: l’occasione agognata per spezzare la routine, altrimenti alleviata soltanto da brevissimi periodi di «ricreazione» in cui è permesso anche ai novizi rompere il silenzio e magari giocare a cricket o con la palla…
McCabe osserva con disincanto, e direi senza malignità, l’effettivo contenuto di alcuni concetti chiave della vita monastica alla quale viene «preparato». Il digiuno per esempio, che in realtà significa un solo pasto («protratto fino alle quattro del pomeriggio», però), e che non tocca il bere (potus non frangit jejunium), magari con un pezzettino di formaggio, perché parum pro nihilo reputatur: il poco conta come il niente. O la mortificazione, sulla quale un frate portoghese «assetato di sangue» insisteva molto: dopo la cena i novizi devono ritirarsi nella propria stanza e somministrarsi la disciplina (una corda annodata) ma, «sapendo che il nostro maestro era solito restare in corridoio ad ascoltare durante la performance, spesso gli offrivamo esagerate manifestazioni del nostro fervore percuotendo la scrivania o un’altra superficie». Per non parlare dello studio, meccanico e basato sulla ripetizione. O dell’esempio dato dagli anziani, frati e sacerdoti, «sempre alla disperata ricerca di distrazioni». O infine la penitenza per le mancanze, duramente represse nei novizi: «Tutto è pensato», osserva amaramente McCabe, «per distruggere anche la minima particella di ciò che viene comunemente chiamato rispetto di sé, per distorcere e deformare il carattere in ossequio a uno stupido ideale medievale».
Alla fine dei dodici mesi, il capitolo si riunisce per ricevere i voti semplici dei novizi e accoglierli stabilmente nella comunità. La cerimonia è ricca di fascino e atmosfera, e i postulanti sembrano consapevoli della gravità di quello che stanno per promettere, ma, si chiede McCabe, «cosa sono il mondo e la carne per un ragazzo di sedici anni, o anche per un giovane di diciannove (età alla quale il passo finale e irrevocabile è compiuto), che è rimasto chiuso in un’istituzione ecclesiastica da quando ne aveva tredici?» Non sa niente della vita, non sa quasi niente di se stesso e, soprattutto, «quando mormora la promessa del celibato, [è] del tutto ignorante della passione che un giorno pulserà in ogni fibra del suo corpo e trasformerà il mondo al di là di quanto possa immaginare. Sta firmando un assegno in bianco sul quale la natura un giorno potrebbe scrivere una somma spaventosa». È un «cieco sacrificio» che non dovrebbe essere permesso a quell’età, preludio a un’insana guerra con le forze profonde dell’essere che potrebbe durare una vita: «Se è vero che la vita monastica è sempre sul punto di naufragare nella corruzione, dovremmo essere più inclini alla pietà nei confronti dei monaci, piuttosto che al biasimo».
(2-continua; la prima parte è qui)
Joseph McCabe, Twelve Years in a Monastery, third and revised edition, London, Watts and Co., 1912.
Un intenso spiraglio in un mondo che suscita fascino e inquieta ritrosia a immaginarsi in quel tormentato percorso. E’ notevole la svolta critica dell’ultimo pezzo: «Se è vero che la vita monastica è sempre sul punto di naufragare nella corruzione, dovremmo essere più inclini alla pietà nei confronti dei monaci, piuttosto che al biasimo». Mi viene da pensare allo spleen dei pionieri quando non hanno più nulla davanti da raggiungere ma troppo alle spalle da impedirgli di tornare indietro.
Se di certo non è giusto generalizzare a partire da questo libro, non credo nemmeno che sia frutto soltanto di un sentimento di rivalsa. È un documento di un preciso momento storico in un determinato luogo (ed è uno dei rarissimi documenti di questo tipo, per lo meno a mia conoscenza). Molte cose sono sicuramente cambiate da allora, ma penso anche che la fotografia di tale momento, appunto, sia nel complesso attendibile. Soprattutto per quanto riguarda il discorso sull’età, e sulla maturità, di chi professava i voti e sui problemi derivanti dal rifiuto della dimensione del corpo prima che si fosse interamente manifestata. Che uno spezzone del «monachesimo» sia potuto essere anche quello descritto da McCabe secondo me spinge soltanto ad approfondire l’analisi, in particolar modo della continua dialettica tra corruzione e riforma. L’immagine dei pionieri è molto giusta, anche perché alcuni successori di quei monaci sono stati capaci di rinnovare i loro gesti, i loro atteggiamenti, la loro via. Di partire di nuovo, per così dire.
San Benedetto e San Romualdo hanno subito persino dei tentativi di omicidio da parte di loro confratelli per aver proposto con forza l’ideale monastico, quindi McCabe non ci racconta nulla di nuovo. Persino tra i padri del deserto si trovavano cattivi monaci. La novità, se vogliamo, è che un tempo dell’esistenza di monaci indegni venivamo informati mentre attingevamo alla vita di monaci santi, ora i monaci indegni costituiscono futilmente argomento a sé. Quindi l’oggetto del testo non solo mi sembra trito, ma manca anche di ogni edificazione. Non ci vuole un trattato per sapere di quali infamie siamo capaci noi esseri umani… è per mostrare la grandezza che servono esempi.
Sapere che persino Benedetto o il mitico Romualdo siano stati oggetto di tentativi di omicidio, secondo me, oltre a non essere nozione diffusissima tra «tutti», non fa che «arricchire» l’immagine e la conoscenza che abbiamo del monachesimo. È proprio per l’interesse che nutro verso la «cosa», e perché ritengo che la storia del monachesimo contenga una lezione di umanità significativa potenzialmente per tutti, che ho letto e commentato il libro di McCabe, non certo per dire: ecco, vedete come stanno le cose. D’altra parte, seppur imprecisamente, credo che gli eventi compresi tra le due guerre mondiali, e il Concilio che le ha seguite, siano stati di grande rilievo e fonte di ripensamento e rinnovamento anche per gli Ordini monastici. Sbaglio?
Passo. La domanda richiederebbe una risposta troppo complessa, ci penso da qualche giorno, ma non riesco a mettere a fuoco con la dovuta sintesi.
Diciamo che quella del monachesimo è una storia di cadute e rinascite. La riforma (che spesso coincide con il ritorno alle origini, o almeno con l’aspirazione a tale ritorno) è un tema ricorrente.
Sul Concilio come momento di rinnovamento: sono stati in molti a sperarlo. Sul post-concilio: una disfatta.
Reggono solo le comunità con grandi carismi (v. Madre Canopi) o con grande rigore (v. le fondazioni di Fontgombault). Il peggio però non sono i cattivi monaci come McCabe, ma i monaci di cattiva dottrina, che rimangono a smantellare l’edificio dall’interno.
C’è più di un punto della tua replica che mi piacerebbe molto approfondire (in particolare quell'”una disfatta”), ma temo che non sia possibile qui.