Giorgio Agamben, Altissima povertà (pt. 3)

(la prima parte è qui, la seconda parte qui)

Nel lungo processo di definizione dello status giuridico della regola il caso francescano, e sarebbe più corretto dire di Francesco, si situa per così dire in un punto estremo di radicalità, e a esso è dedicata la terza, densissima parte del volume di Agamben.

Non è un caso che la radicalità francescana emerga all’inizio del XIII secolo, in un momento di forte effervescenza di movimenti religiosi, ed ereticali, in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche, o più esattamente visti da esse come una minaccia mortale, non tanto sul piano dottrinale quanto su quello della vita stessa, del modo di vivere. Proprio su questo aspetto, da un punto di vista monastico, il concetto che per eccellenza è legato al modo di vivere, cioè la regola, diventa terreno di scontri e contraddizioni. La particolare tensione che si era creata tra i due estremi di regola e vita, in direzione di una sostanziale identificazione, si fa massima in Francesco, le cui poche parole sembrano indicare una «terza via», la forma-di-vita.

Come nell’incipit della «Regola non bollata» del 1221 (cioè confermata senza bolla), in quello che si ritiene il residuo della prima regola presentata a Innocenzo III nel 1210, il Prologo e il Capitolo I, laddove (I, 1) si legge «La regola e vita dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e l’esempio del Signore Nostro Gesù Cristo». Regola e vita, che quindi non sono la stessa cosa, e che si uniscono a formare una terza cosa, una forma-di-vita, appunto, che altro non è che l’imitazione della vita di Gesù raccontata dal Vangelo: «Come avversari e seguaci intesero immediatamente, la “forma del Santo Vangelo” non è in alcun modo riconducibile a un codice normativo», e ancora: «È chiaro che Francesco ha qui [R.n.b., II] in mente qualcosa che non può semplicemente chiamare “vita”, ma che nemmeno si lascia classificare come “regola”». Non è una legge che possa essere infranta (non per niente Francesco rifiuta di impegnarsi personalmente nell’esercizio della disciplina verso chi non rispetta la regola), è una zona extragiuridica, è il tentativo immane di «realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto». Un tentativo che, ricorda A., ovviamente infiammerà la reazione della curia e che per la sua spinta rivoluzionaria non potrà che fallire.

È alla luce di questo tentativo che, ad esempio, bisogna leggere il nome che Francesco ha dato ai suoi frati: minori, anche cioè minorenni, soggetti privi di potestas, sottomessi alla potestà di un paterfamilias (Dio padre e, in subordine, il papa). E la chiave di questo tentativo, il fondamento di questa «neutralizzazione del diritto rispetto alla vita», è la rinuncia alla proprietà, la povertà (l’altissima paupertas, il «senza nulla di proprio»), sulle orme di Gesù (Figlio minorenne del Padre?). I francescani sono bambini che rinunciano al possesso delle cose senza però rinunciare all’uso di esse, all’uso di fatto: «L’abdicatio iuris (con il ritorno che essa implica allo stato di natura precedente alla caduta) e la separazione della proprietà dall’uso costituiscono il dispositivo essenziale di cui i francescani si servono per definire tecnicamente al peculiare condizione che essi chiamano “povertà”». Non rinunciano all’uso perché si trovano in uno stato di necessità che precede qualsiasi legge (mangiare per sopravvivere, ad esempio, come gli animali che tanto rilievo hanno nella predicazione di Francesco): «L’uso e lo stato di necessità sono i due estremi che definiscono la forma di vita francescana».

Sul concetto di «uso» si scatena la guerra, uno scontro durissimo che si concluderà con la vittoria del papato, nella persona di Giovanni XXII (e della sua bolla Ad conditorem canonum), a riprova del potenziale eversivo del messaggio francescano. Le questioni si faranno sottilissime e coinvolgeranno alcuni dei cervelli più fini del tempo (nel campo campo francescano, che ben presto si dividerà tra spirituali e conventuali, per esempio Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Bonagrazia, Bonaventura, Olivi, ecc.): uso contro proprietà, come nel caso dei «beni di consumo» – un pezzo di pane? – che nel momento in cui vengono usati – cioè mangiato – diventano «proprietà» di chi li usa; o ancora uso di fatto e uso di diritto, cioè da un lato il «puro esercizio fattuale di una prassi umana» [mangiare] e dall’altro il «diritto di usare» una cosa fondato su un diritto positivo di origine umana.

Il mite e preveggente Francesco, suggerisce A., si era saggiamente tenuto fuori queste complicazioni «rifiutando di articolare in una concettualità giuridica e lasciando affatto indeterminato il suo vivere sine proprio», affidando il suo messaggio a una forma di vita che poté manifestarsi in tutta la sua potenza soltanto nell’esperienza di un solo individuo e dei suoi primi, pochissimi seguaci, anche per via del suo profondo significato escatologico: «La forma di vita francescana è la fine di tutte le vite…, l’ultimo modus, dopo il quale non è più possibile la molteplice dispensazione di modi vivendi. L'”altissima povertà”, col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica».

Con Francesco, sembra di capire, si sarebbe salvata la vita stessa, e non soltanto le persone.

(3- fine)

Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Homo sacer IV, 1), Neri Pozza 2011.

4 commenti

Archiviato in Francescani, Libri, Regole

4 risposte a “Giorgio Agamben, Altissima povertà (pt. 3)

  1. nicola

    Grazie per questo bellissimo estratto! Era un po’ che aspettavo la terza parte, quella Francescana! 🙂

  2. Marisa

    Questo altro sunto, completa la mia comprensione e mio intimo modo
    di aderire a questi concetti fondamentali per dare senso al vivere
    dell’umano con l’attenzione al divino. Grazie.

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