(la prima parte è qui)
C’è un punto preciso nella riflessione del priore generale di Camaldoli Alessandro Barban1 sul quale mi sono sentito, se così si può dire, chiamato in causa in maniera più diretta, un punto che riguarda, come era prevedibile, il «dialogo possibile» con i non credenti, cui è dedicato uno specifico capitolo.
Dopo aver ripercorso i vari momenti di questo dialogo, ricordando in particolare famose iniziative come gli «Itinerari e incontri» di Monte Giove, o la «Cattedra dei non credenti» e il «Cortile dei Gentili», e stigmatizzando le posizioni dei cosiddetti «atei devoti», Alessandro Barban prende le mosse da una domanda emersa nel colloquio svoltosi a più riprese tra papa Francesco e Eugenio Scalfari, una domanda posta dal pontefice: «Lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede?»
E per darle il massimo peso il monaco se la rivolta contro: «Le esperienze di fede non sono mai uguali. Spesso mi sono trovato a camminare con dei credenti e poi mi sono reso conto che la mia esperienza di fede forse non era proprio uguale alla loro». Al tempo stesso Barban riconosce di aver sentito in certe occasioni maggiore affinità con dei non credenti, di averne condiviso gli stessi dubbi e le stesse domande. Ed ecco il punto cruciale: «Alcune volte ci sono dei non credenti che mi dicono: “Io non ho avuto il dono della fede”. Ma la fede non è un pacchetto che ci viene regalato, bensì è una risposta. E allora la differenza tra io che credo e tu che non credi è minima: io mi affido a questo Assoluto che non vedo e non tocco».
Una risposta. Dunque possiamo riconoscerci, ed essere vicini, nelle domande, e poi confrontarci, e talvolta anche separarci, nelle risposte. È una formula di innegabile qualità, cui va riconosciuta anche una forte concretezza. A patto, però, e anzitutto, di rimanere nel campo delle domande e delle risposte minuscole e plurali, e non della Domanda (che non esiste) e della Risposta, maiuscola e singolare, quale spesso è quella pronunciata dalla fede. «Partiamo tutti allo stesso livello», argomenta il priore. «Solo che la risposta alla vita, alle grandi questioni, comporta un affidamento, una percezione, un’intuizione rispetto a qualcosa che è sconosciuto, inedito», e il non credente sarebbe colui che non vince il «timore di consegnarsi», che vuole mantenere il controllo e basarsi su elementi certi e verificabili. «Lo rispetto», dice ancora Barban, «però è un impoverimento. Ecco perché credo che la differenza tra un credente e un non credente risieda proprio in questa esperienza di Dio che arricchisce la nostra umanità. Una differenza non di giustificazioni e di prove, ma di un deficit che chiamerei assenza di Assoluto.»
Assenza di Assoluto. Sì, posso essere d’accordo, e posso anche ammettere che certe volte questa assenza si faccia sentire, soprattutto sotto forma di una strana nostalgia che credo derivi da tanta cultura stratificata, ma mi sento anche di dire che non vi è alcun timore di consegnarsi a chicchessia. Mi pare invece che gran parte degli atteggiamenti che, assolutizzati, spesso ho incontrato nel discorso dei credenti, possano essere esercitati nella minima porzione di spazio e di tempo assegnataci, senza trascendenze. Anzi, è poprio lì che sono manchevole, è proprio lì che c’è molto da fare: non nell’ascolto di Qualcuno che non ho mai sentito, bensì nell’ascolto di persone di cui potrei fare nome e cognome; non nell’affidarsi a Qualcuno che non ho mai visto, bensì nell’avere fiducia in questo e quell’individuo che incontro ogni giorno.
L’assenza di assoluto non mi sembra allora un deficit, poiché è il frutto di una presenza di concreto: di un’incredibile, disarmante, disperante sovrabbondanza di concreto.
(2-fine)
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- Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014.
Ok la fede non è un “pacchetto” e presuppone un sicuramente un affidamento ma la mia esperienza personale è che una volta affidatisi la fede sia proprio un dono, nel senso che non appartiene a me o a te ma viene data, come un profumo, lo percepisci, lo segui perchè è di qualcun’altro, o come dice il Barzaghi si sta in scia come il ciclista sta in scia alla bici che lo precede e gli taglia l’aria. Condivido la bella espressione “incredibile, disarmante, disperante sovrabbondanza di concreto” che anche io provo e spesso mi chiedo: “Chi devo rigraziare per tutto questo?” nel bene e nel male.
L’importanza della condivisione delle esperienze di fede mi pare sia una delle convinzioni dell’autore; quindi credo che accetterebbe senz’altro una posizione in parte diversa dalla sua.
Magari qualche volta si fa fatica quando il battistrada allunga in salita…
“Esperienza”, peraltro, è un termine che trovo molto spesso nelle scritture monastiche contemporanee (non soltanto in quelle, a dire il vero), a riprova, forse, che proprio le declinazioni personali vengono messe oggi in primo piano (cosa che talvolta mi sembra crei tensioni con la dottrina).
Quanto al senso di “ringraziamento” dovuto “per tutto questo”, al momento devo ammettere di esserne lontano – di essere lontano dalla concezione della realtà come dono.
Grazie dell’intervento e saluti.
La realtà come dono è il passo successivo alla percezione del reale come dato, participio passato di dare.
Grazie a lei o a te per il tuo blog sempre interessante.
Forse la differenza sta nel fatto che per chi crede quell’Assoluto sorregge quel Concreto… ma nella sostanza concordo sulla priorità di quella sovrabbondanza di concreto sia per un credente che per un non credente… che è proprio il punto sul quale cadono i cosiddetti “atei devoti” come anche i credenti integralisti (tutti tesi a ostentare i principi assoluti e pronti a sacrificare o ignorare l’uomo concreto che bussa alla porta con tutte le sue sacrosante contraddizioni). Per quanto mi riguarda, più che tra credenti e non credenti vedo più la distinzione tra chi cerca e chi non cerca; credenti e non credenti che si mettono in cammino, alla ricerca di domande e poi forse di risposte, mai definitive; credenti e non credenti che si accomodano sulle loro certezze e non cercano oltre.
Grazie per l’intervento.
Il tema del “cercare” è molto importante e delicato al tempo stesso; attraversa entrambi i campi, se così li vogliamo chiamare, e quindi in un certo senso li unisce, anche se assume forme diverse.