(la prima parte è qui)
Il secondo capitolo del reportage di Onfray1 è dedicato al tema della comunità e svolge un’interessante genealogia, «non illegittima», che da Epicuro conduce a Rancé, via san Benedetto. Sulla scorta di un’osservazione di Chateaubriand, Onfray accomuna il «giardino» di Epicuro, «diffamato e calunniato» lungo la tarda antichità, l’alto e il basso Medioevo e oltre, alla trappa di Rancé (all’ideale monastico in generale) sotto il concetto di «arte di vivere le proprie idee fino al più minuto particolare». Come i monaci, infatti, gli epicurei praticano la frugalità, la continenza e una forma di ascesi che contempla soltanto i bisogni essenziali; rifuggono dalla proprietà privata, dagli onori, dal potere; considerano la filosofia come una pratica quotidiana comunitaria. E ancora, come i monaci, Epicuro considera il pensiero un esercizio di salvezza; indica una piccola comunità quale modello di azione; concentra la «vita filosofica» in un luogo preciso, dove ammette chiunque senza distinzione; stabilisce una regola di condotta, che prevede tra l’altro di essere vegetariani, astemi e casti. «Il Giardino», commenta Onfray, «è un embrione del monastero, cui manca la dimensione trascendentale.»
A Epicuro si possono poi affiancare, tra gli altri, Plutarco, Seneca, Cicerone, Marco Aurelio, in una lunga scia di pragmatismo esistenziale in cui san Benedetto si inserisce senza difficoltà. La saggezza antica, che sceglie l’essere e non l’avere, che si preoccupa della «costruzione di sé», che rifugge dalle passioni a vantaggio della tensione dell’anima, che si allontana dalla folla e dalla vanità delle troppe parole, attraversa i secoli e viene trasportata dai monaci «nella nostra modernità».
Quella «dimensione trascendentale» non mi pare tuttavia un semplice dettaglio di storia delle idee. O meglio, può senz’altro essere coniderato tale, a patto di attenuarne la portata, al pari di qualsiasi altro concetto che faccia la sua comparsa sulla scena del pensiero. In questo senso ciò che più mi ha colpito dell’esposizione di Onfray sono le due frasi che racchiudono la ricostruzione genealogica di cui si è detto.
Il capitolo si apre infatti con un’osservazione perentoria che mi pare contenere la sua stessa debolezza. Dice il filosofo francese che «nel monastero si vive da soli anche se ci si trova in gruppo. La vita del cenobita è falsamente comunitaria: è una somma di solitudini che si uniscono per realizzare una più grande solitudine che solo la presenza di Dio colma e turba al tempo stesso. Ma che accade se non si crede a quella presenza? Non rimane che la pura solitudine». Indubbiamente, ma è quel «ma» che non regge, poiché non è proficuo ipotizzare ciò che non si dà, o che si dà soltanto nelle crisi individuali più tormentose. In quel «ma» mi pare di cogliere proprio l’atteggiamento che, in quanto osservatore esterno, credo di dover mettere da parte per avere un’idea di ciò che sto osservando che non derivi dai miei preconcetti.
In chiusura Onfray ritorna sul tema della grande solitudine, traendone una conseguenza che non so quanti monaci potrebbero condividere. «Soli, ma in tanti», afferma il filosofo, «i monaci della Trappa non hanno che Dio come reale e unica compagnia. Per loro il mondo è una finzione, la realtà è una finzione, l’altro è una finzione, ciascuno di essi è una finzione, poiché solo Dio è reale.» Per me è esattamente l’opposto! esclama Onfray: soltanto Dio è una finzione, mentre tutto il resto è reale2.
Messa così, la chiusura – poiché di chiusura a questo punto si tratta – non può che essere una frase a effetto, un po’ scivolosa: «I monaci vivono in un mondo in cui il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte: un mondo chiuso lanciato come un missile nell’universo sconfinato»3. I monaci?
(2-fine)
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- Michel Onfray, La Stricte observance: avec Rancé à la Trappe, Gallimard 2018.
- «Ora, io penso esattamente il contario: il mondo è reale, la realtà è reale, l’altro è reale, ciascuno di noi è reale, poiché solo Dio è una finzione», p. 40.
- Ecco la chiusa del capitolo nella sua forma estesa: «Nel mio piccolo letto nel quale fatico a prendere sonno, letto d’ospedale e di collegio, letto di caserma e di solitudine, ho capito che questa comunità ha svuotato il mondo del mondo, e lo ha riempito di un mondo in cui l’unica presenza è un’assenza; o l’unica presenza di un’assenza – che è la definizione esatta della morte. I monaci vivono in un mondo in cui il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte: un mondo chiuso lanciato come un missile nell’universo sconfinato», p. 40.
“Come i monaci, infatti, gli epicurei praticano la frugalità, l’incontinenza” ????
Ho corretto, grazie!
Per i monaci cristiani tutto è reale, la realtà materiale è garantita appunto dalla realtà di Dio, che si è fatto appunto carne. Mi sembra che a Onfray manchi la comprensione di questo passaggio, del Natale.
Inoltre il Dio cristiano è nella sua essenza relazione, d’amore, per cui un monaco cristiano che vive come individuo singolo separato dalla comunità in cui è collocato rischia uno dei pericoli maggiori per un monaco: l’onanismo spirituale. Privandosi della relazione con gli altri e con il luogo in cui è inserito, appunto la realtà, si prova in un certo modo di Dio stesso finendo per attuare uno spiritualismo che nulla ha a che fare con il materialismo e la carnalità del Dio cristiano.
Infatti, la “lettura” di Onfray mi pare assai semplicistica, per non dire altro, tesa soprattutto al gioco di parole, allo slogan d’effetto.
Dovrei leggere il libro ma dai passi riportati Onfray non fa proprio una bella figura anzi si conferma, a parer mio, un filosofo superficiale e per nulla coraggioso, sembra abbia approcciato il monastero come fosse una spa spirituale un errore gravissimo.
Va detto, per correttezza, che nel mio commento mi sono limitato ai primi due capitoli: il libro non finisce lì, quella parte che mi ha lasciato un po’ perplesso non esaurisce i suoi contenuti. L’atteggiamento, tuttavia, mi è parso omogeneo.