Realismo, speranza e positivo umorismo (Parola di badessa, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Definito il quadro di riferimento, la badessa Rosaria Spreafico si addentra nell’illustrazione di quattro aspetti decisivi di quello che lei definisce il «nostro servizio di autorità». Non va dimenticato, infatti, che sta parlando a futuri superiori di comunità monastiche, ma, per quanto possano sembrare dedicate a un tema singolarmente specifico, le sue riflessioni sono molto interessanti, se si pensa ad esempio alla difficoltà di parlare di autorità nei rapporti interpersonali, al di fuori di situazioni molto codificate o di esplicito, se non addirittura odioso, esercizio del potere.

Questi quattro aspetti sono l’accompagnamento, l’obbedienza, il discernimento comunitario e la riconciliazione fraterna. Sono termini tecnici, per così dire, e tuttavia se si considera il discorso della badessa da una certa distanza non è impossibile leggerlo anche in relazione a una comunità laica. L’accompagnamento, che m. Spreafico considera sulla scorta di Benedetto il compito più difficile e arduo di un superiore, e al tempo stesso il primo, fa emergere la delicatezza di un concetto come quello di «guida»: come e perché si guida un’altra persona? Cosa si mette in gioco in questo tipo di relazione? Quali ne sono i rischi? Per la badessa «guidare vuol dire anzitutto avere a che fare con la libertà dell’altro» e con la consapevolezza di una base comune di imperfezione, là dove la pratica della correzione, implicita nella guida, può e deve essere prima di tutto correzione di se stessi; e i rischi dai quali bisogna guardarsi sono principlamente l’uguaglianza a tutti i costi1 e l’autoritarismo.

L’obbedienza è un concetto altrettanto scivoloso, e lo dimostrano le parole della badessa, tese a definire il cambiamento intervenuto: «Un tempo l’obbedienza era intesa come la fedele e puntuale esecuzione del comando e della volontà dell’Abate, e se da un lato questa concezione era il riflesso di una spiritualità che ha generato degli autentici santi, d’altro lato l’obbedienza poteva anche rimanere qualcosa di formale, quando non addirittura fonte di incomprensione o frustrazione. Oggi invece si cerca un’obbedienza più autentica e profonda». M. Spreafico parla di passaggio dall’obbedienza esecutiva all’obbedienza filiale, ma al di là della terminologia è interessante vedere come il concetto possa essere recuperato anche in ambito non religioso2. Nella ricerca di una forma di purezza dell’obbedienza, la badessa identifica dei «nemici», e per quanto in disaccordo rileggo le sue parole: «Questa è la mèta [l’obbedienza come fede e fiducia], raramente raggiunta in tutta la sua purezza, ma è importante intravederla e perseguirla. E additarla a noi stessi e ai nostri monaci… E combattere insieme contro tutte le sue contraffazioni: le false immagini di libertà come assenza di legami, autonomia di giudizio e tutte quelle posizioni egocentriche a volte così difficili da sradicare, specialmente in noi donne, o le altre forme di individualismo un po’ miope, tipico degli uomini». E in effetti, tralasciando per un momento l’ossessione negativa per l’«autonomia di giudizio», perché non riconoscere quanto può essere bello eseguire una disposizione data da una persona di cui si ha piena stima e fiducia?

Allo stesso modo il discernimento comunitario va a toccare quelle aree, ancora: assai delicate, dove si forma il consenso, dove prende corpo una visione collettiva, dove si condivide un indirizzo comune. La dimensione quantitativa, qui come altrove, determina dei mutamenti qualitativi, e non è immediatamente pensabile che certe decisioni possano essere prese nelle stesse forme in cui una comunità monastica ad esempio decide un aggiornamento della propria consuetudine liturgica. Nondimeno, perché non riconoscere una certa – vuota e forse un po’ stupida – nostalgia per tali o simili forme? Per non parlare, infine, della riconciliazione fraterna, di fronte alla quale non comincio nemmeno vacui tentativi di «esportazione» e lascio che siano i confratelli e le consorelle «a fare la pace prima del tramonto con chi si è avuta la lite», come insegna il padre Benedetto. E lascio l’ultima parola, non metaforica, alla badessa trappista: «Ormai non basta più il capitolo delle accuse, e sulle spalle dell’Abate grava la responsabilità di quest’opera lenta e costante [la ricerca di perdono e riconciliazione], che richiede una presenza attenta e discreta a tutto ciò che accade nella comunità. Richiede molto realismo e speranza, e spesso anche una buona dose di positivo umorismo»3.

(2-fine)

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  1. Rosaria Spreafico, Paternità filiale: alcuni aspetti del servizio di autorità, in «Vita Nostra» IX (2019), 1, pp. 15-25: «Il primo [rischio] è non fare il padre ma il fratello, mettendosi alla pari, ascoltando molto… non esigendo mai nulla… senza imporsi mai… Più si avanza su questa via, più il monastero diviene o un covo di individualisti, di moderni sarabaiti, che mascherano sotto una falsa tolleranza il menefreghismo e l’egoismo, oppure la comunità diviene un covo di vipere che si sbranano l’una con l’altra».
  2. Volendo poi evidenziare, con cautela, un tema ricorrente delle mie note di questi anni, dirò che mi interessa, mi preme, capire se e come sia possibile non lasciare il monopolio di certi concetti di certe idee al pensiero di ispirazione religiosa.
  3. E chi non vorrebbe una badessa o un abate realista, fiducioso nel futuro e spiritoso…?

 

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