La badessa del monastero trappista di Vitorchiano, m. Rosaria Spreafico, ha tenuto più o meno un anno fa, nell’ambito del Corso per i Superiori dell’Ordine cisterciense, una conferenza sul tema della «Paternità filiale: alcuni aspetti del servizio di autorità». Ho potuto leggere il testo perché è stato pubblicato sul numero più recente di «Vita Nostra», la benemerita pubblicazione semestrale dell’Associazione «Nuova Citeaux», e se in un primo momento può sembrare molto specifico e «interno» e difficile da apprezzare, per chi osserva le cose monastiche dall’esterno, a una lettura lenta offre molti spunti non trascurabili. A cominciare dal contesto nel quale m. Spreafico inserisce le sue riflessioni e che ci mostra quale sia la visione del mondo di una badessa trappista: per taluni potrà essere cosa irrilevante, per me, proprio perché non la condivido, è invece assai interessante.
Secondo m. Spreafico il clima sociale e culturale odierno è caratterizzato da «frantumazione del tessuto familiare e sociale, assenza di legami generativi, clima di violenza e insicurezza, ecc.» (quanto è significativo quell’eccetera, indice di un quadro che viene dato per scontato da chi ascolta…) e «gli uomini che abitano questo nostro mondo… sono annebbiati e confusi», soprattutto perché hanno perso il contatto con le «categorie elementari dell’umano», la più centrale delle quali è l’«essere generati». Contro questa dimensione si sarebbe accanita «la grande e disastrosa tempesta che ha investito le nostre società nel corso dell’ultimo secolo», e contro la sua più sacra rappresentante, la Chiesa: «L’accanimento prima occulto e ora dichiarato contro di essa sta alla radice dell’attuale disfacimento dell’Occidente». (Mi permetto qui di osservare due cose. Anzitutto che è difficile vedere in quella «tempesta», che pur con tutte le possibili riserve potremmo forse meglio chiamare «movimento di emancipazione dell’umanità», una forza nata e sviluppatasi con l’obiettivo primario di distruggere proprio la Chiesa (cattolica), in quanto tale; inoltre che la dimensione «Occidente» mi pare oggi, per così dire, irrimediabilmente problematica.)
Osservando questa desolazione dal suo chiostro (di cui, va riconosciuto pienamente, non si nasconde problemi e rischi e difficoltà), e accogliendo chi si presenta alla porta della sua comunità, la badessa si chiede dove trovare una base solida sulla quale fondare la propria azione e se la Regola di san Benedetto possa ancora essere questa base: «Il suo carisma è in grado di parlare la lingua degli uomini di oggi? E parla a noi, Abati e Badesse del XXI secolo?» La risposta, naturalmente, è sì, se si considera in particolare come a tutto il mirabile codice benedettino sia sotteso un senso profondo di relazione tra gli individui: «Cos’è che non passa nei rapporti di autorità, nei rapporti tra padri e figli, tra abati e monaci, cosa c’è di indistruttibile nell’essere umano, che nemmeno la forza disgregante del nichilismo può eliminare? Risponderei semplicemente: noi… La nostra vera identità è relazionale».
Qui per il momento non osservo nulla. Da un lato perché questo pensiero è così solidamente attestato, anche in epoca precristiana, da risultare, se così si può dire, patrimonio mondiale dell’umanità e non solo monastico; dall’altro perché non sono capace di sottrarlo all’esclusiva cristiana cui lo assegna la badessa. Principio della relazione, dice infatti m. Spreafico, è la generazione, che è, come si ricordava sopra, «la categoria centrale dell’identità umana». La prova, ciò che ci «rendi sicuri» di questo, è il Cristo: «Il fondamento è la fede in lui, l’uomo vero e riuscito, colui che è venuto nel mondo per rivelare l’uomo all’uomo». Molto interessante, come dicevo, proprio perché non lo condivido.
(1-continua)