(la prima parte è qui)
Sebbene siano separati dal resto della comunità, i malati ricoverati in infermeria restano al centro delle attenzioni della medesima. Anzitutto nella vita pratica, la cui «gestione» è affidata all’infirmarius (o infirmorarius), che è il confratello più competente di questioni mediche e che deve provvedere a tutte le esigenze dei malati. Non da solo, per forza di cose, tanto che spesso è affiancato anche da laici che si occupano della pulizia, del riscaldamento e del servizio di mensa; costoro risiedono nell’infermeria ma sono tenuti a evitare qualsiasi contatto con i claustrali sani. L’infermiere peraltro svolge il suo incarico in collaborazione con il cellerario, spesso presente in infermeria, e non di rado dispone di una cucina e di un cuoco separati, in modo da vegliare con particolare attenzione sull’alimentazione dei ricoverati. Si sa, in infermeria si riposa, si dorme molto di più di quanto consentito dala Regola e soprattutto si mangia – si mangia la carne.
I malati, si diceva, non possono lavorare, ma in certi casi possono svolgere attività leggere e consone alla loro condizione: «Se sanno cantare, se conoscono la grammatica o qualsiasi altra arte utile al monastero possono insegnarla agli altri», oppure possono spazzare, o ancora mondare legumi e ortaggi, in modo da alleviare il più possibile il peso che la loro infermità scarica sulla comunità, il loro bisogno di assistenza.
Assistenza che, oltre che fisica, è sempre anche spirituale, una connessione che forse oggi ci è difficile cogliere nella sua pienezza. Spesso il fratello infermiere è anche sacerdote e quindi, ad esempio, può confessare o comunque affiancare i deboli e1 gli infermi nell’adempimento dei loro doveri spirituali, appunto. Ci sono poi le visite frequenti dei confratelli sani, che devono chiederne approvazione dal priore e cui è tuttavia proibito interrogare i malati su questioni riguardanti il corpo: se l’argomento della malattia in qualche modo emerge nella santa conversazione, il visitatore non dovrà rispondere nulla e rifernire successivamente al priore. In certe raccolte di consuetudini è contemplata anche la visita di laici, parenti e persino di un saecularem amicum, accompagnato da un testimone: tutto sempre in nome del valore terapeutico del conforto.
Altrettanto regolato è il ritorno in comunità del monaco guarito, che in primis si autodefinisce tale, alzandosi col permesso del priore e presentandosi al cospetto del capitolo. Qui il primo passo è di nuovo l’ammissione della colpa: «Mea culpa… sono stato in infermeria, non ho rispettato come avrei dovuto la nostra osservanza». Al che il priore lo assolve «per tutto ciò che in quella occasione hai offeso». Anzitutto aver mangiato carne («La carne, un pensiero inquietante, ossessivo», osserva Cristiani, che riporta consuetudini che distinguono addirittura i casi: malato carnivoro, malato non carnivoro); ma anche il sonno eccessivo, la rottura del silenzio e la temutissima mormorazione, poiché quanto è facile lamentarsi quando non si sta bene e il confratello non accorre… «Abbiamo mangiato, bevuto e dormito più di quanto abbia preteso la necessità, e tutto abbiamo fatto intempestivamente. Non abbiamo custodito il silenzio, ci siamo abbandonati al riso e alle parole inutili, Abbiamo mosso all’ira il fratello che devotamente ci ha servito con gli aiutanti, ma in tutto peggio di questo, abbiamo mormorato contro di lui». Il processo si compie, l’abate consente al pieno rientro in comunità, seppur «dal basso», e «il periodo di ricovero si conclude sullo sfondo solenne ancora di gesti e formule, di pentimento individuale e carità collettiva».
Lo stretto intreccio di dimensione fisica e spirituale (e collettiva) della malattia è, come si diceva, forse l’aspetto di più difficile comprensione allo sguardo moderno, che pure ne intuisce talvolta il pericoloso vuoto, pur riconoscendo la «benedizione» della medicina attuale. Un intreccio fondante, viene da dire, che i monaci hanno sempre custodito se ancora nel 1942 Ildefonso Schuster (citato da Cristiani)2, commentando la Regola di san Benedetto, osserva: «Il monastero, sotto un certo punto di vista potrebbe considerarsi una specie di casa di salute, di cui l’abbate è il medico direttore».
(2-fine)
- Molto interessante la discussione che si è svolta intorno a questa congiunzione, là dove san Benedetto al cap. 39 parla di debiles aegrotos, i commentatori hanno talvolta aggiunto un et: debiles et aegrotos, che amplia il cosiddetto campo di applicazione.
- Ricordo che le informazioni qui esposte e le citazioni riportate derivano in particolare da Riccardo Cristiani, «Infirmus sum, et non possum sequi conventum». L’esperienza della malattia nelle consuetudini cluniacensi dell’XI secolo, in «Studi Medievali» XLI (2000), pp. 777-807; «Essere o malessere»: il problema della malattia dalla Regola di Benedetto alle Consuetudini di Cluny, in Parva naturalia. Saperi medievali, natura e vita, Atti dell’11° convegno della Società Italiana per lo studio del pensiero medievale (Macerata, 7-9 dicembre 2001), Istituti Editoriali e Poligrafici 2004, pp. 305-320; Il rito della salute. Il salasso nelle consuetudini dei monaci di Cluny (secoli X-XI), in «Quaderni medievali» 60 (2005), pp. 10-26.