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«L’arte della vita comune» (Cecilia Falchini sulla Regola di Benedetto, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Il commento di Cecilia Falchini alla Regola di Benedetto1 è scandito dall’esame dei tre momenti cruciali della vita benedettina: l’obbedienza, la stabilità e la conversione, preceduto da un’analisi del ruolo dell’autorità nel monastero, cioè della figura che ne porta il peso, l’abate, e seguito da una riflessione sul rapporto tra «lettera» e «spirito» della Regola stessa. Non si tratta di una serie di glosse ai singoli capitoli della Regola, bensì di un commento che fluisce, come un unico discorso, da un argomento all’altro, con una ricchezza di spunti che è impossibile riassumere; ma, se mi pare di averne rintracciato il filo conduttore, questo è forse il costante riferimento dei vari aspetti e delle varie pratiche della vita monastica all’esercizio della carità fraterna, cioè a quella che sarebbe la forma più pura dell’amore, poiché priva di qualsiasi forma, anche minima, di «ritorno egoistico». La parola «esercizio» va letta in senso molto concreto, poiché anche «ad amare abbiamo di bisogno di imparare» e perché il «realismo» benedettino è cosa ben diversa dall’«ideologia della spontaneità». Il comportamento virtuoso non è una disposizione naturale, non basta «essere se stessi», anzi, si entra in un monastero perché vi si è chiamati e per imparare a essere se stessi.

Per imparare a vivere ogni cosa alla luce della carità. La rinuncia, ad esempio, che non è ascesi fine a se stessa, bensì strumento di avvicinamento, a Dio sicuramente, ma prim’ancora, forse, agli altri: «La vita cristiana», riassume Falchini, «monastica e umana non è anzitutto una chiamata a realizzare un progetto, neppure di santità, ma è una chiamata ad accogliere il dono di una relazione, di una comunione». Il monaco lascia la famiglia d’origine per abbracciare con pieno abbandono la sua nuova famiglia («La rinuncia a un amore o è motivata dal perseguimento di un altro amore, più grande, o perde di senso»). Il celibato, l’obbedienza, la stabilità2, la conversione, ma anche l’umiltà, il digiuno, il desiderio stesso, ogni cosa può e deve essere messa al servizio della comunità; meglio ancora, tutte le caratteristiche di un individuo, dalla sua voce terribilmente stonata alla pazienza ammirevole, dalla proverbiale smemoratezza alla semplice gentilezza, «possono essere inglobate nella corrente comunitaria dell’amore fraterno».

Prima di farsi travolgere da un entusiasmo ideologico, appunto, è importante sottolineare che tale «corrente comunitaria» non si stabilisce in astratto, ma all’interno di un gruppo definito di persone, ognuna col proprio nome e il proprio volto: si tratta «di quei precisi fratelli», come ricorda più volte Falchini, che non si sono scelti, gli unici che esistono realmente, si potrebbe dire, e che sono anche specchio, chiave e strumento della scoperta di sé: «Solo quando accetto quel fratello, con le sue qualità e debolezze, e sono disposto sia a portarlo, sia a mia volta a farmi portare da lui, allora vivo la carità e la stabilità in comunità, scopro chi io sono, e trovo me stesso in relazione con l’altro» (il corsivo è mio).

La vita monastica è dunque scuola e via maestra di comunione, molto più che di separazione. È un aspetto che può sembrare controintuitivo: ma come? – si potrebbe dire con un luogo comune assai diffuso – proprio voi monaci, che vi chiudete all’interno di un recinto, che ve ne state lì per conto vostro, affermate di aver scelto una vita di autentica comunione e non di separazione? Ammetto che faccio ancora fatica ad accettare in toto questa idea: spero di essermi liberato di quel luogo comune, di certo non credo che i suddetti mentano o si sbaglino, e non accredito alla vita nel mondo una garanzia di relazione, tuttavia non riesco a credere che nella scelta monastica non risuoni almeno un’eco lontana dell’idea di allontanamento dal mondo, nel quale mondo si avverte la mancanza di qualcosa.

E faccio fatica – per modo di dire – a privare il «soggettivismo» persino di qualsiasi possibilità di sviluppo positivo; fatico un po’ a seguire l’autrice nell’antitesi sistematica, che non è soltanto sua, tra il desiderio vero, autentico, profondo e quelli superficiali nei quali lasciamo che si smarrisca la nostra identità; fatico anche a non concedere ad altre forme di relazione una particella di autenticità, se così vogliamo dire; e faccio fatica infine ad accogliere del tutto l’acrobazia logica (mi si perdoni l’espressione) che allinea nello stesso movimento obbedienza e libertà.

D’altra parte la fatica, connessa proprio all’obbedienza, è un segnale che racchiude un importante insegnamento benedettino. L’obbedienza, infatti, è la fatica attraverso la quale il monaco può ritornare al Signore, ma non solo, come propone con cautela Cecilia Falchini: «Forse Benedetto ci vuol dire che in fondo ogni genere di fatica è una fatica a obbedire, ad assumere il dato che ci viene incontro, ad accogliere e custodire il dono della vita, della fede, della vocazione ricevuti, dei fratelli che ci sono stati dati».

Assumere il dato che ci viene incontro, questo lo sottolineo.

(2-fine)

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  1. Cecilia Falchini, L’arte della vita comune. Lettura spirituale della «Regola di Benedetto», Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2017.
  2. La stabilità è un concetto che, pur non essendo esclusivo, trova uno specifico sviluppo nella Regola di Benedetto. Osserverò qui che nel commento della monaca di Bose è molto interessante la segnalazione costante delle specifiche varianti di Benedetto rispetto alla sua fonte primaria, cioè la Regola del Maestro: a volte si tratta di una semplice sottolineatura, di una modifica di termini, altre volte di una differenza è più ampia. Da questa attenta ricognizione, tra l’altro, la studiosa ricava un’ipotesi interessante e, mi pare, inedita: mentre redige, e poi ritocca, la sua Regola, Benedetto avrebbe avuto in mente una comunità precisa, con un preciso livello di «maturazione spirituale», e non un’entità astratta e ideale.

 

1 Commento

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«L’arte della vita comune» (Cecilia Falchini sulla Regola di Benedetto, pt. 1/2)

Pur con tutte le cautele dovute da un lettore non specialista, mi sento di dire che alla Regola di Benedetto si possa assegnare una specie di primato, tuttora imbattuto e con ogni probabilità non più superabile, quello cioè del testo che più a lungo e più concretamente ha rappresentato il «ponte», la mediazione praticabile, tra il Vangelo e la sua «attuazione», il testo in cui la domanda: Come possiamo noi esseri umani (esseri umani, non santi) seguire l’insegnamento di Gesù? è stata affrontata col massimo di realismo possibile. Anche l’Imitazione di Cristo, nonostante la sua immensa diffusione, non mi pare approdata all’oggi con la stessa vitalità della Regola, una vitalità che si misura anche sul numero di commenti e riletture che ancora suscita1. È un po’ come con le grandi sinfonie: possiamo anche saperle a memoria, ma poi arriva un direttore d’orchestra che con una nuova interpretazione ci fa notare qualcosa cui non avevamo mai prestato attenzione; lo stesso accade con la Regola e i suoi commentatori.

E lo stesso è accaduto, puntualmente, con l’ultimo commento alla Regola che ho letto, quello pubblicato di recente da Cecilia Falchini2, monaca di Bose. Una «lettura spirituale», per essere precisi, che si pone come obiettivo, ancora, appunto, all’inizio del Ventunesimo secolo, di mettersi in ascolto «di come il vangelo stesso venga declinato, di come esso prenda forma nella RB e di come possa prendere forma per noi oggi». È una riflessione rivolta in primis ai monaci e alle monache, ma che l’autrice spera possa essere utile a tutti i cristiani, più esattamente ai seguaci di Gesù, e a chi «si pone in sincera ricerca […] di quanto possa contribuire a rendere più umana e piena di senso la vita». E dirò che può essere utile anche a chi, come me, si sente più a suo agio nel ristretto orizzonte della domanda sempre risorgente sul «Che fare?»

Alla Regola di Benedetto, e ai suoi commenti, torno spesso e volentieri per un aspetto che anche la studiosa di Bose mette subito in rilievo, e cioè l’adesione alla realtà della Regola, la radicale «assunzione della realtà della vita che conduce a discernere ciò che la favorisce e ciò che la ostacola»: un programma condivisibile, che evoca la virtù del discernimento (discretio) e riporta la questione nella dimensione del possibile. Commentando l’azione dell’abate, improntata ad oltranza alla discretio, Falchini sottolinea infatti come «la sequela del Signore Gesù e la vocazione monastica si giocano non su sublimi discorsi teorici, ma nella pratica quotidiana di ogni giorno».

Su quella sottile linea di confine tra «Cosa dobbiamo fare?» e «Cosa possiamo fare?», mi pare che la Regola imbocchi una terza via, di impensabile compromesso; impensabile da un punto di vista teorico, appunto, poiché nella pratica è ciò che accade3. E nel farlo apre la via alla piena accoglienza dell’altro, del fratello con cui si vive, con i suoi limiti e le sue debolezze – che sono le nostre. «Accoglienza» qui va inteso come reale percezione, assunzione, riconoscimento dell’altro, irriducibile alle innumerevoli funzioni di ascoltatore, specchio, alleato, avversario, collega, compagno, ecc., tralasciando il peggio. «Criterio dell’esercizio della discretio», sottolinea ancora Falchini, «diventa la carne e la vita del fratello e della comunità, l’accoglienza del volto e della persona del fratello e della sorella come si presenta a noi».

Voglio sperare che questa «accoglienza» non sia possibile soltanto in un monastero, e sotto una regola e un abate, nondimeno lì è stato fatto un tentativo concreto, ne è stato prodotto un «manuale di istruzioni» che generazioni di individui hanno provato a mettere in pratica. E questo è di estremo interesse.

(1-segue)

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  1. Forse si potrebbe obiettare che, da un punto di vista quantitativo, la Regola rappresenta ormai un fenomeno non di prima grandezza nel paesaggio religioso di oggi, che ha ceduto il passo ad altri testi-ponte, come gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, per fare un esempio, o altri che semplicemente io non conosco. È possibile, come è possibile che il mio interesse mi porti a sopravvalutare la «vitalità benedettina». Dirò allora che mi pare che la Regola possa parlare agli individui di oggi senza bisogno di particolari «traduzioni», oltre a quella dal latino.
  2. Cecilia Falchini, L’arte della vita comune. Lettura spirituale della «Regola di Benedetto», Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2017.
  3. Un po’ a sorpresa mi viene qui in mente un’osservazione di Massimo Cacciari che ho letto qualche giorno fa in un’intervista. Dice il filosofo: «Perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l’oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni? Possiamo riuscirci? Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s’incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il superuomo di cui parlava l’anticristiano Nietzsche: nell’impossibile. Ma se è impossibile, perché provarci? Perché l’impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L’impossibile è l’estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità». Cfr. «I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale», intervista a Massimo Cacciari, di Nicola Mirenzi, HuffPost 25-12-2017.

 

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«T’ho beccato!» (La ronda monastica, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

La figura dei circatores1 viene precisata e ampliata dai legislatori monastici nel giro di tre secoli, dall’VIII all’XI, soprattutto, come si diceva, a causa delle aumentate dimensioni delle comunità e anche dei più frequenti scambi da una comunità all’altra. I circatores sono in genere alle dipendenze del priore claustrale e nel linguaggio dei segni vengono indicati con un’eloquente rotazione del dito indice esteso. Caso pressoché unico in un vasto monastero, la loro attività, seppur regolata, non ha orari né posti assegnati, «in modo che non ci sia un luogo né un’ora in cui un fratello, che abbia commesso qualcosa di sbagliato, possa sentirsi al sicuro dall’essere visto e denunciato»2. Fioriscono anche gli elenchi di mancanze cui i circatores devono badare, e fa sorridere notare che quelle principali paiono essere il sonno fuori orario e la rottura del silenzio: in una grande abbazia ci sono cento angoli dove concedersi un pisolino o scambiare quattro chiacchiere con un confratello, e il circator li deve pattugliare. Nelle «Consuetudini» di Fleury si specifica anche che, trovato il dormiente, il circator lo sveglierà con una gomitata nel fianco o battendo sonoramente i piedi per terra. Se invece troverà due monaci intenti a parlare, dovrà anzitutto chiedere loro se ne hanno il permesso. Le guardie monastiche dovranno anche raccogliere gli oggetti dimenticati in giro – codici, vestiti, vasi e vasetti sottratti dal refettorio o dall’infermeria – e presentarli la mattina dopo al capitolo. Naturalmente dovranno prestare molta attenzione alla possibilità di mancanze ben più gravi, favorite dall’oscurità o dalla segretezza del luogo, e pertanto compiranno ronde notturne muniti di lanterne e ispezioneranno spesso i posti che possono nascondere attività sospette («caeteraque monaterii loca ubi suspicio poterit esse»).

Talvolta il raggio d’azione dei circatores si estende anche all’esterno del monastero, ad esempio al seguito dei monaci che lavorano nei campi. Tale circostanza è tramandata, indirettamente, da un divertente aneddoto narrato nel Casus Sancti Galli (ante 972) da un Eccheardo di San Gallo (il quarto, per la precisione). Vi si narra appunto che un giorno Tutilo, monaco di San Gallo, in viaggio verso Magonza, scorge un gruppo di monaci al lavoro su un campo e, poco distante, il loro circator. Costui, credendosi non visto, si avvicina a una locanda e ordina da bere: nel giro di tre bicchieri si ubriaca e cerca di abbracciare la moglie dell’oste: scandalizzato, Tutilo interviene e minaccia di denunciarlo al suo abate.

Quelle che a prima vista sono dunque delle vere e proprie spie, vanno più correttamente considerate quali «agenti del controllo sociale» (e alcuni studiosi ne traggono interessanti collegamenti con le osservazioni di Foucault sul Panopticon di Bentham), legittimi interpreti del delicato istituto della «correzione fraterna», privato in questo modo dai pericoli delle inimicizie personali: «La loro attività sollevava gli altri (in particolare quelli che vi erano portati) dall’obbligo di osservare con attenzione il comportamento dei confratelli. L’accusa e la correzione si svolgevano poi in una circostanza comunitaria e secondo un rituale preciso. Svolgendo una specie di pubblico servizio alternativo alla denuncia anonima, i circatores garantivano al monaco accusato la possibilità di affrontare il proprio accusatore» (Hugh Feiss).

I circatores tendono a scomparire alla fine del Medioevo quando, in pratica, cambiano nome e diventano observatores o exploratores, senza perdere tuttavia la loro funzione: «Sia che si aggirasse negli oscuri corridoi del monastero per conto del priore, sia che denunciasse le colpe al capitolo, quasi fosse il pubblico ministero della comunità3, il circator era una presenza costante e senza dubbio temuta nella vita quotidiana e nei pensieri dei monaci medievali» (Scott G. Bruce).

È infine interessante osservare come il nesso tra ronda militare e vigilanza monastica attraversi i secoli senza subire sostanziali modifiche, come in questo passo della famosa ottava lettera di Abelardo a Eloisa sulla Istituzione o Regola per le religiose, databile intorno al 1134-35: «Occorre quindi che la diaconessa perlustri sollecita il suo accampamento recandosi ora qua ora là come fa un generale previdente e infaticabile, e lo ispezioni accuratamente per evitare che la negligenza di qualcuno lasci libero l’accesso a colui che “simile a un leone si aggira cercando chi divorare”»4.

(2-fine)

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  1. Come detto, spunti e informazioni presenti in queste note derivano dai seguenti articoli: Hugh Feiss, Circatores. From Benedict of Nursia to Humbert of Romans, in «American Benedictine Review» 40 (1989), pp. 346-379; Scott G. Bruce, Lurking with Spiritual Intent: a Note on the Origin and Functions of the Monastic Roundsman (circator), in «Revue bénédictine» 109 (1999), pp. 75-89; Wojtek Jezierski, Monasterium Panopticum. On Surveillance in a Medieval Cloister: the Case of St. Gall, in «Frühmittelalterliche Studien» 40 (2006), pp. 167-182.
  2. Non capisco perfettamente il latino medioevale (per non parlare di quello classico), ma nel capitolo XXI del secondo libro delle Constitutiones Hirsaugienses di Guglielmo di Hirsau, redatte prima del 1200, ci si può orientare: De circatoribus.
  3. Traduco liberamente così la seguente espressione: the accusing voice of the entire community.
  4. Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo a Eloisa, a cura di F. Roncoroni, Garzanti 19834, p. 295.

 

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«Ti ho visto, sa’?» (La ronda monastica, pt. 1/2)

Dell’esistenza dei decani (seniores) nei monasteri altomedievali sapevo, tra le altre fonti, dalla Regola di Benedetto: monaci anziani, o comunque provati per «anzianità di servizio», con responsabilità di controllo, per così dire, sugli altri confratelli, con particolare riguardo alla lectio divina, all’ozio e alla chiacchiera. Nel capitolo 48 (cc. 17-18) vengono appunto evocati «uno o due monaci anziani che facciano il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nella lettura sacra, per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi alla lettura, perda tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere inutile a se stesso, distragga anche gli altri.» Quello che non sapevo, invece, è come dalla locuzione usata da Benedetto – «unus aut duo seniores qui circumeant monasterium» – sia derivata la figura più articolata del circator, vero e proprio sorvegliante del monastero1.

Il circator (detto anche circinnator, e talvolta abbreviato in circa) è un ruolo che emerge nell’VIII secolo nei commentari alla Regola e soprattutto nei costumari, cioè nelle raccolte di usi e regole tipiche di determinate abbazie. Le comunità progressivamente si allargano, e con esse l’estensione della superficie occupata dagli edifici abbaziali, le attività che vengono svolte nello stesso momento aumentano e spesso gli spazi che le ospitano sono distanti: è impensabile che un solo monaco (si pensi ad esempio al ruolo del priore claustrale, cui era affidato il giro serale per controllare che tutti i confratelli fossero nelle loro celle) possa essere ovunque in ogni tempo. Le necessità e gli incarichi si moltiplicano e così alcuni uffici stabiliti dalla prima legislazione benedettina tendono alla suddivisione e alla specializzazione.

Il ruolo del circator peraltro, secondo alcuni studiosi, trova un precedente diretto anche nelle consuetudini militari romane (cosa che non sorprende), come si può leggere nel De re militari di Vegezio dove si fa menzione di circumitores che fanno la ronda per verificare che le sentinelle notturne siano sveglie2. Oltre alla ronda, il loro compito è anche quello di denunciare le mancanze, esattamente quello che è richiesto ai circatores monastici.

Alcuni studiosi collegano la diffusione di questi «sorveglianti» anche a quella dell’istituto dell’oblazione, che riempie i monasteri di monaci che, seppur debitamente istruiti nei noviziati, non hanno scelto la vita monastica con piena consapevolezza, da adulti, e che quindi possono essere, diciamo così, più resistenti alle prescrizioni della Regola.

Dall’Ordo casinensis I, che viene datato intorno al 750, si apprende, ad esempio, che a Monte Cassino c’erano due circatores «che a ogni ora, controllavano i confratelli e facevano il giro del monastero [circuibant monasterium], per verificare che nessuno di loro non fosse al proprio posto. Se ciò accadeva, ne prendevano subito nota su tavolette [statim in tabulis notabatur]». Laddove è interessante notare che esisteva il concetto di «al proprio posto» [ne quis frater deesset proprio loco] e che il compito dei circatores era soltanto quello di osservare e prendere nota, per riferire poi al capitolo alla presenza dell’abate, unica autorità che poteva stabilire una penitenza per le mancanze. Ed è interessante notare le altre due circostanze che il costumario cassinese ricorda: «I predetti circatores osservavano anche se qualcuno rideva o parlottava [hoc observabant, si aliquem ridentem, vel aliquid susurrantem conspexerant]. Anche in questo caso ne prendevano immediatamente nota sulle loro tavolette, per accusare misericordiosamente i colpevoli al momento giusto [tempore oportuno].

(1-continua)

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  1. Figura che è stata studiata a più riprese, anche se mi pare con minore frequenza rispetto ad altri simili soggetti. Devo le notizie riportate in questi appunti ai seguenti articoli: Hugh Feiss, Circatores. From Benedict of Nursia to Humbert of Romans, in «American Benedictine Review» 40 (1989), pp. 346-379; Scott G. Bruce, Lurking with Spiritual Intent: a Note on the Origin and Functions of the Monastic Roundsman (circator), in «Revue bénédictine» 109 (1999), pp. 75-89; Wojtek Jezierski, Monasterium Panopticum. On Surveillance in a Medieval Cloister: the Case of St. Gall, in «Frühmittelalterliche Studien» 40 (2006), pp. 167-182.
  2. «Idoneos tamen tribuni et probatissimos eligunt, qui circumeant vigilias et renuntient, si qua emerserit culpa, quos circumitores appellabant; nunc militiae factus est gradus et circitores vocantur» De re militari, III, 8.

 

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Missio impossibilis

Senza avventurarsi troppo per similitudini, si può pensare alla Regola di Benedetto anche come a un giardino, poiché spesso cambia quello su cui ci si sofferma a guardare a seconda del momento nel quale lo si visita, e naturalmente a seconda che si sia accompagnati nella visita o no. In questi giorni la mia guida è Enzo Bianchi, del quale è stata da poco pubblicata un’ampia scelta delle «ammonizioni» che ha offerto alla comunità di Bose, durante la liturgia della domenica sera, nei suoi lunghi anni di priorato1. Non si tratta di un vero commento, ma «nelle pagine seguenti», avvisa il priore, «è comunque racchiusa la mia lettura della Regola del padre dei monaci d’occidente, al quale la nostra Regola di Bose fa riferimento continuo e del quale anche noi a Bose ci sentiamo figli spirituali». Forse, da un certo punto di vista – quello del «teorizzare pratico» tipicamente monastico, oggi per me davvero prezioso –, il testo, con la sua forte impronta orale, è persino meglio di un commento, per la quantità di esperienza comunitaria che vi è condensata.

Il tono «ammonitorio», pacatamente assertivo, risulta ancor più stimolante, anche per chi ora ascolta da esterno, là dove nella maniera più semplice possibile viene da fermarsi e dire: «Aspetta un momento». Come nel caso della meditazione sul capitolo LV della Regola, quello dedicato all’abito e alle calzature dei monaci. Qui Enzo Bianchi, ricordando il famoso passo degli Atti («Veniva dato a ciascuno secondo i suoi bisogni»), sottolinea le difficoltà che l’abate incontra nel «dire dei sì e dei no ai fratelli»2, tenendosi distante sia dall’egualitarismo, sia dal favoritismo. «All’interno della comunità benedettina», afferma infatti il priore, «se c’è una differenza è quella tra i forti e i deboli: ai forti si può chiedere con rigore, mentre verso i deboli bisogna avere delle disposizioni di misericordia, di accoglienza.»3

Per quanto sia chiara l’intenzione del priore, è un po’ delicato usare un termine di nobile ascendenza come «egualitarismo» per indicare un pericolo cui fare attenzione: come non convocare su questo snodo, almeno idealmente e a mo’ d’esempio, il primo capoverso dell’Articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Tutti i cittadini […] sono eguali davanti alla legge»? È vero, al di là della Legge-Regola è l’abate che deve osservare, commisurare, valutare, discernere, invocando sempre l’aiuto del Signore, e Benedetto lo ribadisce in continuazione: ma come gli si può chiedere di distinguere i forti dai deboli? Non è un compito impossibile, oltre che pericolosissmo? Forse la risposta è che «all’atto pratico», «sul campo», no, prima ancora che impossibile è necessario, e quindi, come si può, lo si fa, ma mentre è facile ergersi contro il favoritismo, trovo difficile salvaguardare la sfumatura4 presente nel discorso di Enzo Bianchi sull’egualitarismo, soprattutto volendo allargarne la portata.

Come trovare un punto di equidistanza tra il «sono fatto così», per certi versi inaccettabile, e il rigore che mastica qualsiasi differenza? Quale livello di «soggettività» è ammesso in una «scuola» nella quale la prima «materia» è l’umiltà? In una «officina» in cui, come dice lo stesso Bianchi, «se non ci fossimo stati noi, ci sarebbe stato qualcun altro che avrebbe fatto o le stesse cose o altre cose, ma per lo stesso bene della comunità»?

«Ita ergo et abbas consideret infirmitates indigentium», infirmitas, -atis: debolezza, cagionevolezza, mancanza di stabilità, indisposizione, impotenza, incapacità, anche dappocaggine e mancanza d’ingegno…; indigens, -entis: povero, bisognoso, che manca di qualcosa… Che l’abate consideri dunque la condizione di tutti noi.

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  1. Enzo Bianchi, Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2017.
  2. «Chiunque presiede o ha un compito prova varie tentazioni a seconda del suo carattere e deve molto vigilare perché, se è vero che non deve risolvere il suo ministero in egualitarismo, non deve però neanche finire per fare dei favori o comprare affetto verso di sé, o semplicemente accontentare quelli che gli sono più vicini o più simpatici», p. 170. Sembra un’ammonizione utilizzabile non soltanto entro le mura di un monastero…
  3. Le parole di Benedetto in questione sono molto belle: «In questo [nel distribuire le cose ai confratelli], però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che “Si dava a ciascuno secondo le sue necessità”. Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi. Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio» (LV, 20-22).
  4. Se poi non colgo che in questa sfumatura sta una grossa parte del cristianesimo, la colpa è solo mia.

 

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L’altra cucina, quella vera…

Devo a un saggio di Isabelle Cochelin l’aver appreso della probabile – più che probabile, secondo la professoressa dell’università di Toronto – esistenza di due distinte cucine nei monasteri europei altomedievali, per lo meno in quelli – aggiungerei – abitati da una comunità numerosa1. Come nel caso del «carcere», luogo monastico ancora poco esplorato e studiato, anche le cucine sono state un argomento sul quale gli studiosi, secondo Cochelin, si sono mossi con una certa superficialità, legata anche alla moderata importanza attribuita loro dai monaci stessi: «Nelle consuetudini monastiche la differenza di trattamento delle due cucine abbaziali, quella chiamata “regolare” e quella “laica”, offre un ottimo esempio della scarsa attenzione che gli estensori delle consuetudini medesime rivolgevano, o ritenevano di rivolgere, al mondo secolare che li circondava, anche a quegli aspetti tutt’altro che secondari per la vita quotidiana».

Eccole, dunque, le due cucine: la cucina «regolare» (coquina regularis), nella quale i monaci di coro svolgono il loro servizio a rotazione settimanale, come prevede anche Benedetto (cap. XXXV: De septimanariis coquinae), e l’altra cucina, il cui stesso nome nelle fonti è assai variabile: l’alia coquina, appunto, la cucina pubblica (coquina publica), laica, secolare, esterna, dei servi (coquina famulorum). Le tracce di questa seconda cucina vanno cercate, non tanto nelle regole, quanto nelle raccolte di consuetudini, che cominciano ad apparire verso la metà del IX secolo e vengono redatte in alcuni monasteri per esportare, a vario titolo, i propri usi verso altre comunità, oppure, come nel caso del famoso testo di Bernardo di Cluny, per istruire rapidamente i nuovi arrivati.

Questi testi, molto affascinanti per l’appassionato di regole, forniscono la base alla tesi di Cochelin e offrono piccoli ma indubitabili indizi. Nelle Consuetudines cluniacenses di Ulrico di Zell (metà XI sec.) si legge ad esempio: «È noto inoltre che in nessun caso nella cucina regolare si cuocerà altro che fave e verdure [aliud quid coquitur in coquina regularis praeter fabas et olera], né altro tipo di legumi. Le stesse fave, infatti, se sono novelle, e vengono quindi condite col pepe, non vengono cotte dai fratelli, ma dai servi nell’altra cucina [non coquuntur a fratribus, sed a famulis in alia coquina]».

fabas

La cucina regolare è un luogo di rilievo simbolico, poiché permette ai confratelli a turno di «servire», ma non può soddisfare completamente la richiesta di preparazioni alimentari che un grande monastero richiede: l’alto numero di monaci, la tavola dell’abate e dei suoi ospiti (talvolta con tempi ed esigenze particolari2), i lavoratori presenti presso l’abbazia, i pellegrini, i poveri, e così via. Ci vuole tempo, e personale, è un lavoro che richiede continuità, quindi ci vuole un’altra cucina.

Da un lato, infatti, è possibile ipotizzare che i monaci di coro volessero liberarsi da un incarico che era diventato assai gravoso, per via soprattutto delle quantità. Che qualcuno si lamentasse risulta con chiarezza, ad esempio da questo passo del Commentario di Ildemaro di Civate: «Ci sono molti che vorrebbero essere destinati ad altri incarichi che a quelli di cucina, perché sono molto faticosi [Nam sunt nonnulli, qui magis cupiant aliam obedientiam exercere, quam in coquina servire propter laborem]»3. Dall’altro si può anche pensare che un certo atteggiamento di sacralità nei confronti delle proprie attività, e dei relativi utensili, potesse spingere i monaci a delegare pratiche di cucina considerate impure, poiché prevedevano il contatto con determinati cibi, a un’«altra cucina», secolare.

Di questa altra cucina i testi monastici parlano poco, e indirettamente, anche per una forma di «clausura mentale» che, come detto, spingeva i monaci a non vedere, o a vedere confusamente, il mondo laico che li circondava. Ma che tale cucina fosse comunque collegata al refettorio, e rifornisse quindi anche la mensa dei monaci di coro, è confermato da altri testi, che parlano ad esempio di passaggi e finestre di collegamento, o della ricognizione serale del priore, nonché da ricerche cartografiche (molto interessante l’analisi condotta sulla planimentria conservata a San Gallo) e archeologiche.

Trovo infine molto gustoso che la studiosa non tralasci un’altra motivazione, più prosaica, per la diffusione di questa altra cucina (che, va ricordato, tendette a scomparire con l’avvento dell’istituto dei conversi): forse «i monaci non volevano mangiare male tutto l’anno, circostanza assai probabile se tutte le preparazioni fossero rimaste affidate alle loro mani inesperte e sempre diverse. Onde evitare tale rischio, avranno ritenuto più sensato assumere dei cuochi “professionisti” per la parte più sostanziosa del menù. Per contro, la cottura di fave e legumi sembrava alla portata anche di cucinieri poco esperti».

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  1. Deux cuisines pour les moines: coquinae dans les coutumiers du XIe siècle, in Enfermements II. Règles et dérèglements en milieu clos (IVe-XIXe siècle), sous la direction d’Isabelle Heullant-Donat, Julie Claustre, Élisabeth Lusset et Falk Bretschneider, Publications de la Sorbonne 2015, pp. 89-113 (che può essere letto qui).
  2. Si veda la Regola di Benedetto, LIII, 16-18: «La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall’arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero. Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve. A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n’è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l’obbedienza».
  3. Per il commento di Ildemaro alla Regola di Benedetto, si può consultare lo splendido sito a esso dedicato: The Hildemar Project).

 

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Come l’edera e le gramigne (Ildefonso Schuster e la Regola, pt. 2/2)

regula-monasteriorum(la prima parte è qui)

L’aspetto forse più interessante di questi appunti di Ildefonso Schuster1 è proprio la dovizia di riferimenti personali alla propria esperienza di abate: il cardinale rilegge l’amata Regola con la matita in mano, pronto ad annotare a margine le conferme e gli eventuali emendamenti che il mutare dell’epoca suggerisce2, e sempre animato dalla comprensione delle debolezze dei monaci e delle durezze della loro vita (su questo punto l’osservazione è semplice e precisa: «Per entrare in monastero si richiede indubbiamente un equilibrio di carattere ed una sana costituzione fisica. Senza di che, il cenobio si trasformerebbe in un sanatorio»3).

Quante volte lo Schuster usa l’espressione «quante volte», a riprova di una lunga esperienza accumulata: «Quante volte odonsi…», «Quante volte ho veduto…», e anche: «Quanti monasteri sono andati alla malora…» Nella maggior parte dei casi il suo sguardo è bonario, e allora si posa senza eccessivo rigore ad esempio sulle scuse dei dormiglioni, «ben note a chi ha pratica di comunità!»; o su qualche cedimento alimentare (peraltro non si dimentichi «quel proverbio popolare che ricordò piacevolmente una volta Pio X, ricevendo la comunità monastica di San Paolo e facendosi presentare il cuoco: buona cucina, buona disciplina!»); sui lettori «che non sanno farsi comprendere» e sui cantori «stonati»; su tutti quei piccoli difetti che sono degli esseri umani, e quindi sono anche dei monaci, e che anzi proprio nel monastero, come si diceva, non possono più essere nascosti.

Altrove prevale invece la fermezza, come nel caso di quei «monaci fantasiosi, continuamente preoccupati della propria salute», sui quali non si può mai contare per le necessità della vita comune; o dei «mormoratori», che «come l’edera e le gramigne aprono ed allargano le crepe entro i muri»; di quelli che si atteggiano a grandi riformatori e dei distratti; o degli incapaci arroganti: «Avverta bene l’abate, e non si lasci prendere la mano da qualcuno di quei caratteri prepotenti o presuntuosi, – ce ne sono dovunque [si noti questo inciso un po’ sconsolato] – che, pur di emergere, sacrificano la comunità ostinandosi in un ufficio pel quale non riescono punto utili».

Per certi versi, dunque, la comunità è un organismo vulnerabile e dinamico, soggetto a continue tensioni, e quindi bisognoso di un’attenzione costante da parte della sua guida. Ma è anche il frutto del costante impegno dei suoi componenti, che scegliendo l’obbedienza non cancellano la propria responsabilità e offrendosi al servizio non smarriscono la propria individualità. C’è qualcosa di ammirevole, anche da una prospettiva laica, in questo ideale continuamente rilanciato, soprattutto quando, come nel caso della testimonianza del cardinale, non ci si nasconde la sua irrealizzabilità, quando le parole, quelle di Benedetto e quelle dello Schuster, vengono scritte con tutta evidenza dopo l’osservazione della realtà, e non prima.

«I buoni monasteri», conclude allora il cardinale, «sono quelli, non già dove non si lamentano quotidiane miserie di carattere, d’ignoranza, di incomprensione reciproca; ma dove i monaci, allargando l’un l’altro le braccia nella carità di Cristo, scambievolmente si perdonano, scambievolmente si sopportano, scambievolmente si stimano e si amano.»

(2-fine)

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  1. San Benedetto Abb., La «Regula Monasteriorum», testo, introduzione, commento e note del card. A. Ildefonso Schuster, SEI 1942.
  2. Come accade sempre nella tradizione benedettina, si considerano anche gli aspetti più concreti: «Ben inteso che oggi il superiore dovrà tenere conto dei tempi mutati, ed allo stilo sostituire opportunamente una buona penna stilografica, o una macchina da scrivere; al temperino, un bravo rasoio Gillet [sic], o addirittura quello elettrico Roselet [sic], che va diventando ormai comune», p. 234.
  3. In monastero si entra per servire, «perciò chi non se la sente di servire, o chi per costituzione fisica, o morale, più che di servire Dio ed il cenobio, ha bisogno egli stesso di essere servito, vada pure per la sua strada», p. 385.

 

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La nostalgia del chiostro (Ildefonso Schuster e la Regola, pt. 1/2)

regula-monasteriorum«Lo scrivere sulla Santa Regola è stato per me uno sfogo del cuore. Non solo perché la nostalgia del chiostro mi accompagna dovunque […]; ma più ancora perché non so darmi pace che un libro sul quale si sono formate tante generazioni di giganti della santità, oggi, fuori dei chiostri, non sia quasi più conosciuto, neppure dal Clero.»

Dopo aver assaggiato le riflessioni benedettine del cardinale Ildefonso Schuster, grazie alla piccola ma efficace antologia curata da Pelagio Visentin1, ho recuperato uno dei volumi che vi erano citati: l’edizione della Regula Monasteriorum del 19422. Non si tratta di un commento teologico o storico-filologico, per ammissione dell’autore stesso, bensì di una serie di «semplici note», in cui vibra un tono personale che le rende assai più preziose e interessanti. A mano a mano che procedevo nella lettura ho avuto come l’impressione di avere tra le mani un quaderno di appunti privati, nel quale il cardinale aveva riportato i capitoli della Regola, nell’originale latino, facendoli seguire da riflessioni, promemoria, indicazioni, ricordi, sottolineature, disquisizioni liturgiche, annotazioni linguistiche, chiose storiche e così via – una Regola tutta piena di Post-it ed evidenziatori.

Sono appunti in cui si coglie anzitutto, come si può immaginare, il monaco, ma anche il novizio, il sacerdote, l’abate, il vescovo, l’uomo di governo della Chiesa, la personalità della vita pubblica, l’osservatore obiettivo: tanti volti uniti da un atteggiamento che si dirà di antiquata compostezza (la «signorilità benedettina», la definisce in generale il cardinale), severo, talvolta triste, comunque preoccupato, e che si traduce in un formalismo stilistico che suscita soggezione: «Quando la fiamma della divina carità avrà consumato e distrutto in noi l’umore dell’egoismo, cioè della superbia vitae nelle sue diverse tumefazioni descritte tanto bene dal Santo Legislatore nella sua mistica scala dell’umiltà, allora il monaco giungerà a quella pienezza di Cristo… che deve regnare sovrana nell’anima»3.

La tristezza del cardinale, che immagino io, è del presente e si scioglie quando lo sguardo si volge indietro e la nostalgia prende con discrezione il sopravvento; anche perché nel monastero non c’è posto per la tristezza: Benedetto lo ricorda nel capitolo XXXI e lo Schuster così commenta: «Il presente capitolo, derivato in gran parte dalla precedente tradizione dei Padri, termina con una massima da incidersi a caratteri d’oro nel chiostro della abbazia: “Nella Casa di Dio nessuno deve starci con tristezza e con turbamento di spirito”». Non può dirlo, ma è evidente come lo Schuster tornerebbe di corsa in un monastero, e non perché esso sia un’anticamera del paradiso abitata da angeli, al contrario: sembra che, nel pensiero del cardinale, proprio lì l’essere umano possa essere veramente tale e guardare senza maschere il proprio volto, poiché soltanto nel chiostro tutte le debolezze emergono senza occultamenti, insieme con la loro fondamentale medicina, l’umiltà: il capitolo VII, sull’umiltà «sta a tutta la Regola come il Sermone della montagna sta all’intero Vangelo. Se non si può propriamente chiamare un riassunto della Regola, ne costituisce tuttavia il fondamento».

Ed ecco che con la nostalgia arriva anche la dolcezza lenitiva del ricordo: «Ricordo d’un abbate della Trappa…», «Quando io ero abbate di San Paolo…»: i ricordi di vita monastica sono i momenti nei quali la severità del cardinale si stempera, in particolare quelli legati al suo maestro, d. Placido Riccardi, il quale, parlando appunto di umiltà, vedeva la propria anima «a guisa di un sasso sospeso nel vuoto».

(1-segue)

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  1. Alfredo Ildefonso Schuster, o.s.b., Sapientia cordis. Il racconto della vita monastica, Abbazia San Benedetto Seregno 1996 (20033).
  2. San Benedetto Abb., La «Regula Monasteriorum», testo, introduzione, commento e note del card. A. Ildefonso Schuster, SEI 1942.
  3. D’altra parte osservazioni più tecniche appaiono oggi belle e remote come certe rovine abbaziali: «L’acclamazione sacra Alleluia vale musicalmente un intero periodo melodico. Si conoscono degli Alleluiari Orientali, dove il vocalizzo può protrarsi per un breve quarto d’ora. Anche nell’abbazia di San Gallo, questi Alleluia dovevano essere ben prolissi se, un giorno, alle note dello iubilus alleluiatico furono sottoposti gli stichi delle sequenze Notcheriane» (p. 107).

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Una magnifica raccolta di Regole («Abitare come fratelli insieme»)

AbitareComeFratelliNon è soltanto l’interesse verso l’argomento storico che mi spinge irresistibilmente verso le regole monastiche, vi vedo anche, forse in maniera impropria, uno degli sforzi più prolungati e intensi di rispondere alla fatale domanda: «Cosa facciamo?», e a quella conseguente: «Come lo facciamo?», con una particolare enfasi sulla prima persona plurale. Osservandole da una posizione laica, inoltre, le regole sono uno straordinario strumento di semplificazione e concentrazione: servono a non distrarsi, a risolvere una volta per tutte gli aspetti pratico-organizzativi della vita quotidiana in modo che l’individuo possa dedicarsi a ciò che è importante, a ciò che è chiamato a fare.

Si può immaginare quindi il mio entusiasmo nel poter maneggiare Abitare come fratelli insieme, corposa raccolta delle «Regole monastiche d’occidente» da poco pubblicata dalle Edizioni Qiqajon della Comunità di Bose: 1116 pagine curate, come al solito, rigorosamente da Cecilia Falchini e aperte da un’Introduzione non di circostanza del priore Enzo Bianchi. Un libro che definirei eccezionale, di cui esser grati alla curatrice e all’editore, e il cui indice è già di per sé una grande epica e un’ancor più grande promessa.

Il volume raccoglie ventidue regole, «la quasi totalità delle regole monastiche cenobitiche maschili dell’occidente latino dei secoli IV-VII», suddivise in otto famiglie o generazioni, dalle regole africane, come quella di Agostino, fino alle regole spagnole e della seconda meà del VII secolo, come la Regola di Fruttuoso e la Regola di un padre ai monaci, alcune di esse in prima traduzione italiana. Al centro, oltre a quella di Benedetto, si staglia il masso ciclopico della Regola del Maestro, mentre la conclusione è affidata a un’appendice dedicata alle regole degli ordini mendicanti, in particolare a quelle francescane: pur non essendo strettamente monastiche, «il loro perdurante interagire dialettico con il monachesimo», scrive la curatrice, «e il loro ruolo di “cerniera” tra quest’ultimo e le successive forme di vita religiosa ci paiono giustificarne l’inserzione nel presente volume».

Tornando al «cosa facciamo?», non dimentico certo che nella fattispecie la «chiamata» è la ricerca di Dio, in se stessi e negli altri: nonostante la varietà, «le regole», scrive Enzo Bianchi, «fin dal loro nascere e quali che possano essere le influenze e le dipendenze reciproche, hanno tutte un elemento fondamentale in comune: […] fanno comunque  e sempre riferimento, attraverso il vangelo, all’amore di Dio e a quello del prossimo. Non solo, ma la fonte di tale amore e il modello da imitare è sempre la persona di Cristo». Il cosa fare insieme è il cuore delle regole cenobitiche, e in questo senso, come osserva ancora il priore Bianchi, il riferimento centrale alla «comunità» le rende argomento di «cogente attualità».

Devo anche ammettere che quando m’imbatto in una norma come questa (cito a caso dalla Regola del Maestro): «Per i letti abbiano, d’inverno, una stuoia, una coperta di tessuto spesso e una di lana; d’estate al posto di quella di lana facciano uso, per il caldo, di una coperta logora. Ai piedi del letto, poi, abbiano una pelle dove possano pulire i piedi dallo sporco e così salire sui loro letti», non posso fare a meno di sorridere di comprensione. Nella proliferazione normativa mi pare infatti di poter cogliere una vena profonda – talvolta ossessiva o addirittura nevrotica – di realismo, che porta gli autori delle regole a riconoscere la forza non trascurabile del caos che scaturisce dall’unione di più persone in un medesimo luogo (pianeta), ancorché «peccato» lo si voglia chiamare. Che cosa ha fatto in fondo san Francesco, anche con la sua regola, se non tentare di esorcizzare questo caos abbracciandolo, in virtù dell’amore e riducendo tutto all’unica prescrizione evangelica della sequela? Ma lui era solo o, al massimo, seguito da un pugno di compagni – una «banda» come Enzo Bianchi definisce il germe del gruppo che si raccoglie intorno al singolo che si avventura lungo una nuova strada di ricerca. Poi la banda diventa, appunto, un gruppo, poi una comunità, eventualmente un ordine: dobbiamo buttar giù una regola…

 

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Docile

La maggior parte delle traduzioni, arrivata a LXIV, 9 della Regola, là dove Benedetto comincia a illustrare le qualità del buon abate, dice più o meno: «Bisogna dunque che egli sia dotto nella legge divina, affinché sappia e abbia donde trarre il nuovo e il vecchio»; Oportet ergo eum esse doctum lege divina, ut sciat et sit unde proferat nova et vetera.

È una reminiscenza diretta di Matteo, 13, 52, che suggella il lungo resoconto sulle parabole del Regno di Gesù, il quale così conclude: «”Avete capito tutto questo?”. Rispondono “Sì”. Egli disse loro: “Per questo ogni scriba istruito [doctus] nel Regno dei cieli è simile a un padre di famiglia [homini patrifamilias, cioè un abba] che trae fuori dal suo scrigno cose nuove ed antiche [qui profert de thesauro suo nova et vetera]”».

Già è interessante notare che in altre traduzioni del Vangelo quel doctus diventa, ad esempio, «divenuto discepolo»; mentre in alcune versioni della Regola lo stesso doctum diventa «profondo conoscitore».

Ancor più interessante mi pare la sfumatura che Maria Ignazia Angelini, madre benedettina e badessa di Viboldone, introduce in uno dei suoi commenti alla Regola, raccolti nel volume – superdenso – Niente è senza voce. Ragionando proprio sul capitolo LXIV, m. Angelini osserva: «Quando Benedetto dice che l’abate deve essere “docile” (“doctum” deriva, come participio passivo, da doceri) alle Scritture, “ut sciat et sit unde proferat nova et vetera”, “perché sappia e abbia donde attingere cose antiche e nuove”, gli consegna un compito immane. Solo come discepolo delle Scritture, l’abate può “sapere ed essere” (il riferimento è a Mt 13, 52) l’oikodespotés, il “padrone di casa”».

Bello: doctus inteso non come dotto, che ha in sé, oggi, una staticità polverosa e immutabile, bensì come docile. E, giusto per il piacere di voltolarsi nelle parole, non il «docile» più comune, «di persona che si piega facilmente alla volontà di chi ha il compito di guidarla» (Treccani), ma quello dell’altroieri, cioè «disposto ad apprendere quel ch’altri insegna, e approfittarne. Aureo latino, ch’è contratto di Docibilis. Concerne la mente segnatamente; ma perchè la docilità esercita l’attenzione, non può la volontà non ci avere gran parte: onde nel docile è non solo disposizione naturale, ma merito» (Tommaseo).

Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007, pp.67-68.

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