La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 1/3)

RegolaDelleRecluse Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.

Per molti secoli, tuttavia, la reclusione volontaria si appoggia, per così dire, ai monasteri, che ospitano al loro interno celle dalle quali, con il consenso della badessa o dell’abate, monache e monaci non escono mai, pur intrattenendo, per forza di cose, alcuni contatti con il resto delle comunità4. Per quanto «fuori dal mondo», le recluse devono pur mangiare (poco), devono pur fare qualcosa (oltre pregare), sono sepolte, sì, ma pur sempre vive. Si dà, quindi, la necessità di una «regola per le recluse», e Aelredo, secondo le ricostruzioni degli studiosi, arriva per terzo, dopo Grimlaico, egli stesso recluso, che redige una Regola dei solitari verso la fine del IX secolo, e Pietro il Venerabile, il sommo abate cluniacense, che qualche tempo dopo il 1134 scrive a Gisleberto (o Gilberto), recluso a Senlis, una lunga lettera, tradizionalmente tramandata come un trattato sulla vita eremitica.

La Regola di Aelredo, che viene datata intorno al 1160, è dedicata alla sorella maggiore (di cui purtroppo non si conosce il nome) e questo le conferisce un tono di particolare partecipazione emotiva che, insieme con le notazioni autobiografiche che Aelredo vi sparge, ha suscitato altrettanta partecipazione anche nei lettori più recenti. Anche senza considerare Aelredo come «il più poliedrico degli autori della prima generazione cistercense» (D. Pezzini), e che anch’egli ha vissuto un’esperienza di semi-reclusione (circostanza decisiva per un cistercense: si scrive e si parla di ciò di cui si ha esperienza) quando, da abate di Rievaulx, tormentato da una serie di malanni, si era fatto costruire una specie di eremo a lato del chiostro (il suo biografo lo chiama mausoleum, tugurium e secretarium) nel quale riceveva i confratelli, e mettendo infine da parte la sua fama di cantore dell’amicizia monastica, la lettura della Regola delle recluse, anche astraendo dal suo contesto storico, è interessantissima.

Anzitutto, forse, per la concretezza (anch’essa decisamente cistercense) con la quale Aelredo attacca il suo argomento. Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx…

(1-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003. L’estesa introduzione di Domenico Pezzini è quanto di più utile per un primo orientamento sul fenomeno della reclusione volontaria.
  2. Jean Leclercq sintetizza ottimamente come l’eremitismo rappresenti il paradosso di una vocazione «a praticare l’obbedienza senza superiore, la carità senza fratelli, e l’apostolato senza azione».
  3. Una dimensione che in varie forme si è perpetuata sino ai giorni nostri, ad esempio in realtà che vengono definite «monachesimo interiorizzato» o «eremitismo urbano».
  4. Scrive lo studioso inglese Giles Constable (citato da Pezzini) che la presenza di celle per reclusi nei monasteri «in certi casi funzionava come valvola di sfogo per attività religiose incompatibili con la vita di comunità, e anche, bisogna aggiungere, per membri della comunità che risultavano essi stessi incompatibili».

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