Prefazione. Cap. VII. Ritratto di un vero Monaco Benedettino
Un Benedettino imbevuto dello spirito della sua Regola è un Uomo unicamente occupato in Dio e nelle cose del Cielo; egli sempre passa da esercizj in esercizj santi e serj, che lo mantengono nella pratica delle più sublimi virtù e nella considerazione delle principali verità della Religione; ardentemente acceso dall’amore delle verità eterne e delle perfezioni divine, impiega la maggior parte della notte in cantare le lodi del suo Creatore, in ascoltare la di lui parola ed in meditare le di lui grandezze. Le ore della tavola per esso lui non passano oziose, poiché anche in tal tempo egli pasce l’anima sua colla lezione che ascolta, frattanto che frugalmente pasce il corpo; dorme poco, mal agiato ed austeramente, imperocché dorme vestito e calzato, coricato sopra una nuda stuora o sopra un semplice pagliericcio, in mezzo a’ suoi Fratelli, osservato da’ Superiori, non potendo fare il menomo moto senza essere conosciuto e ripreso; fa lezioni lunghe e meritorie, non leggendo se non libri datigli dalla mano del Superiore, leggendoli da un capo all’altro, e sempre in pubblico ed in mezzo alla Comunità; osserva un continuo silenzio; affatica molte ore del giorno; vive in una dipendenza assoluta e generale; professa un’ubbidienza che va fino all’impossibile, e non solo si ristrigne ai comandamenti de’ Superiori, ma si estende ancora a quelli de’ suoi eguali, e de’ suoi inferiori; vive talmente alieno dalle cose mondane, da’ piaceri, da’ passatempi, che non gli è tampoco permesso di scrivere, né di ricevere una lettera; di dare, né di ricevere qualunque menomo donativo, senza licenza del suo Superiore; non può uscire dal Monistero senza il di lui consenso, né mangiare fuori del Chiostro ogni qualvolta possa dentro lo stesso giorno ritornare a casa [trovo questo «ritornare a casa» particolarmente, sì, dolce e significativo]; se falla, quantunque leggermente, è ripreso, e severamente castigato in pubblico; è obbligato agli esercizi più faticosi e più abietti della Cucina e del Refettorio; in tutta la giornata non ha un momento in cui non sia impiegato ed in cui possa dire di essere in sua libertà. Ecco il ritratto di un Monaco, quale ce lo descrive S. Benedetto, e quale in realtà fu egli medesimo, e lo furono i di lui Discepoli più perfetti.
Gli antichi Istitutori degli Ordini Monastici, ed in particolare del Benedettino ànno sempremai considerata la pace, la tranquillità, la solitudine, il silenzio e l’orazione come i mezzi più sicuri, per fomentare la buon’armonia e per mantenere ne’ Monisteri il buon ordine, il raccogliemento, la carità e la Religione. L’ospitalità nell’Ordine di S. Benedetto, tanto considerata e praticata con tanto zelo, non disturbava punto né la solitudine de’ Monaci, né la calma de’ loro Chiostri; questa si praticava al di fuori ed in appartamenti a tal effetto assegnati, dove eravi la cucina, e dove stavano i Monaci deputati per accogliere i forestieri; l’Abate mangiava con esso loro, faceva con esso loro conversazione, gli edificava e dava loro ogni contrassegno di gentilezza. L’arrivo loro, tuttoché molte volte in ore incomode e poco convenevoli, non arrivava alla notizia della Comunità; per ubbidire alla Regola si lavavano loro i piedi; e se l’ora lo permettea, v’intervenivano tutti i Monaci, altrimenti se ne scieglievano alcuni pochi, i quali senza disturbare gli altri adempivano tale incumbenza. Non si sa che S. Benedetto abbia parlato di Servitori Laici e Secolari per servizio de’ suoi Monisteri; io non vedo che ne sia mai stato assegnato alcuno né alla Foresteria, né all’Infermeria; da per tutto, tanto dentro, quanto fuori del Monistero, i soli Monaci adempievano tutte le faccende, anche per quanto riguarda le mietiture e le fabbriche. Al tempo di S. Benedetto non v’era la distinzione de’ Fratelli Conversi dai Cherici, come distinti in due ordini di Religiosi differenti; la professione Monastica rendea eguali tutti quelli che componeano la Comunità.
L’Ufizio Divino negli antichi Oratorj de’ Monaci era semplice, modesto, quieto e tale che muovea a compunzione; non era né frastornato dal concorso del popolo, né pieno di cerimonie lunghe e pompose, allettative a’ risguardanti ed atte a diminuirne l’attenzione. L’Oratorio era per fare orazione: Oratorium hoc sit, quod dicitur, come comanda S. Benedetto. Questo era una fabbrica semplice, senza fasto, comoda pel numero de’ Monaci della Comunità, e nulla più. Anche al giorno d’oggi sussistono alcuni di tali antichi Oratorj, per esempio vicino a Remiremont e a Vieux-Moncier, dove anticamente era il Monistero di San Michele, nell’antico Chiaravalle ed anche in altri luoghi. Non v’era cosa più semplice e più propria ad ispirare la compunzione ed il raccoglimento di cotesti Oratorj; ivi si adorava Dio in ispirito ed in verità; si meditava la di lui legge; si cantavano le di lui lodi, ed ogni cosa spirava pietà.
Il tumulto degli affari secolareschi non frastornava punto i Solitari, che per l’amore della povertà aveano abbandonato ogni cosa, e possedendo pochissimi beni di fortuna in comune, non ne desideravano davvantaggio; imperocché vivendo essi in vera spropriazione, attendeano a coltivare la terra, a guadagnarsi il vitto colla fatica delle proprie mani, senza ambizione, senza litigi, senza inquietudini; la loro frugalità, l’economia, la fatica ed i digiuni erano i loro fondi più doviziosi ed il loro più sicuro ristabilimento; essi non pensavano se non ad imitare Gesucristo povero, e crocifisso, nell’esercizio della mortificazione e della povertà cristiana ed evangelica. Subito che si sono lasciate coteste massime, e che si sono abbandonate le strade mostrateci e battute dai Santi, svanì lo spirito delle Regole e si è oscurato lo splendore e l’onore della vita Monastica.
♦ Commentario letterale, istorico, e morale sopra la Regola di S. Benedetto, Con alcune osservazioni sopra gli Ordini Religiosi che seguitano la stessa Regola, del Padre D. Agostino Calmet, Abate di Senona, in Arezzo, per Michele Bellotti all’insegna del Petrarca, 1751, pp. XIX-XXI.