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Una specie di casa di salute: ammalarsi in un monastero (medioevale) – pt. 2/2

(la prima parte è qui)

Sebbene siano separati dal resto della comunità, i malati ricoverati in infermeria restano al centro delle attenzioni della medesima. Anzitutto nella vita pratica, la cui «gestione» è affidata all’infirmarius (o infirmorarius), che è il confratello più competente di questioni mediche e che deve provvedere a tutte le esigenze dei malati. Non da solo, per forza di cose, tanto che spesso è affiancato anche da laici che si occupano della pulizia, del riscaldamento e del servizio di mensa; costoro risiedono nell’infermeria ma sono tenuti a evitare qualsiasi contatto con i claustrali sani. L’infermiere peraltro svolge il suo incarico in collaborazione con il cellerario, spesso presente in infermeria, e non di rado dispone di una cucina e di un cuoco separati, in modo da vegliare con particolare attenzione sull’alimentazione dei ricoverati. Si sa, in infermeria si riposa, si dorme molto di più di quanto consentito dala Regola e soprattutto si mangia – si mangia la carne.

I malati, si diceva, non possono lavorare, ma in certi casi possono svolgere attività leggere e consone alla loro condizione: «Se sanno cantare, se conoscono la grammatica o qualsiasi altra arte utile al monastero possono insegnarla agli altri», oppure possono spazzare, o ancora mondare legumi e ortaggi, in modo da alleviare il più possibile il peso che la loro infermità scarica sulla comunità, il loro bisogno di assistenza.

Assistenza che, oltre che fisica, è sempre anche spirituale, una connessione che forse oggi ci è difficile cogliere nella sua pienezza. Spesso il fratello infermiere è anche sacerdote e quindi, ad esempio, può confessare o comunque affiancare i deboli e1 gli infermi nell’adempimento dei loro doveri spirituali, appunto. Ci sono poi le visite frequenti dei confratelli sani, che devono chiederne approvazione dal priore e cui è tuttavia proibito interrogare i malati su questioni riguardanti il corpo: se l’argomento della malattia in qualche modo emerge nella santa conversazione, il visitatore non dovrà rispondere nulla e rifernire successivamente al priore. In certe raccolte di consuetudini è contemplata anche la visita di laici, parenti e persino di un saecularem amicum, accompagnato da un testimone: tutto sempre in nome del valore terapeutico del conforto.

Altrettanto regolato è il ritorno in comunità del monaco guarito, che in primis si autodefinisce tale, alzandosi col permesso del priore e presentandosi al cospetto del capitolo. Qui il primo passo è di nuovo l’ammissione della colpa: «Mea culpa… sono stato in infermeria, non ho rispettato come avrei dovuto la nostra osservanza». Al che il priore lo assolve «per tutto ciò che in quella occasione hai offeso». Anzitutto aver mangiato carne («La carne, un pensiero inquietante, ossessivo», osserva Cristiani, che riporta consuetudini che distinguono addirittura i casi: malato carnivoro, malato non carnivoro); ma anche il sonno eccessivo, la rottura del silenzio e la temutissima mormorazione, poiché quanto è facile lamentarsi quando non si sta bene e il confratello non accorre… «Abbiamo mangiato, bevuto e dormito più di quanto abbia preteso la necessità, e tutto abbiamo fatto intempestivamente. Non abbiamo custodito il silenzio, ci siamo abbandonati al riso e alle parole inutili, Abbiamo mosso all’ira il fratello che devotamente ci ha servito con gli aiutanti, ma in tutto peggio di questo, abbiamo mormorato contro di lui». Il processo si compie, l’abate consente al pieno rientro in comunità, seppur «dal basso», e «il periodo di ricovero si conclude sullo sfondo solenne ancora di gesti e formule, di pentimento individuale e carità collettiva».

Lo stretto intreccio di dimensione fisica e spirituale (e collettiva) della malattia è, come si diceva, forse l’aspetto di più difficile comprensione allo sguardo moderno, che pure ne intuisce talvolta il pericoloso vuoto, pur riconoscendo la «benedizione» della medicina attuale. Un intreccio fondante, viene da dire, che i monaci hanno sempre custodito se ancora nel 1942 Ildefonso Schuster (citato da Cristiani)2, commentando la Regola di san Benedetto, osserva: «Il monastero, sotto un certo punto di vista potrebbe considerarsi una specie di casa di salute, di cui l’abbate è il medico direttore».

(2-fine)

 

  1. Molto interessante la discussione che si è svolta intorno a questa congiunzione, là dove san Benedetto al cap. 39 parla di debiles aegrotos, i commentatori hanno talvolta aggiunto un et: debiles et aegrotos, che amplia il cosiddetto campo di applicazione.
  2. Ricordo che le informazioni qui esposte e le citazioni riportate derivano in particolare da Riccardo Cristiani, «Infirmus sum, et non possum sequi conventum». L’esperienza della malattia nelle consuetudini cluniacensi dell’XI secolo, in «Studi Medievali» XLI (2000), pp. 777-807; «Essere o malessere»: il problema della malattia dalla Regola di Benedetto alle Consuetudini di Cluny, in Parva naturalia. Saperi medievali, natura e vita, Atti dell’11° convegno della Società Italiana per lo studio del pensiero medievale (Macerata, 7-9 dicembre 2001), Istituti Editoriali e Poligrafici 2004, pp. 305-320; Il rito della salute. Il salasso nelle consuetudini dei monaci di Cluny (secoli X-XI), in «Quaderni medievali» 60 (2005), pp. 10-26.

 

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Acqua calda: ammalarsi in un monastero (medioevale) – pt. 1/2

«Con diligente attenzione l’abate deve sapere o appurare se qualcuno non si dica malato per desiderio smodato di cibo. Perciò, a colui che tale si dichiarerà e non si alzerà per l’ufficio divino, restando a letto, si dia soltanto una tisana, qualche uovo o giusto un po’ di acqua calda [sucus vel ova aut calidam aquam]: se sta fingendo, sarà la fame a farlo alzare.» Gustose, ma soprattutto interessanti osservazioni come questa (di Smaragdo di Saint-Mihiel, cui si deve uno dei commenti più famosi alla Regola) ho tratto da alcuni studi che Riccardo Cristiani ha dedicato all’argomento della malattia e dei malati nei monasteri medievali, come viene affrontato nei principali commenti alla Regola benedettina e nelle raccolte di consuetudini (di Cluny, ma non solo)1.

L’asse portante della questione è il fatto che il monaco malato, che si sente malato, «non può stare con gli altri, non può fare quello che gli altri fanno regolarmente», dunque è anzitutto peccatore nei confronti della comunità. (Non va peraltro dimenticato che lo stesso Benedetto, per contrasto, fa un larghissimo uso di metafore mediche quando affronta il tema delle colpe e della loro correzione.) Il processo della malattia comincia così con l’ammissione di questa colpa al cospetto del capitolo: «Sono malato, e non posso seguire la comunità», al che l’abate dispone che il monaco indisposto si riposi per qualche giorno, rifocillato ed esentato dai suoi doveri, per così dire «in osservazione». Se il malessere non è passeggero, come tutti i confratelli si augurano nelle loro preghiere, la condizione di malattia diventa «ufficiale», e il monaco viene ricoverato in infermeria, luogo fisico e simbolico di separazione dalla comunità, dove vigono regole speciali, a cominciare soprattutto dall’alimentazione – la vera medicina, insieme con il riposo e il sonno.

I malati, ovviamente, non lavorano, ma posso avere anche problemi a rispettare la recita dell’ufficio divino, soprattutto là dove la liturgia è ricca ed estesa. I casi e i sottocasi sono molti: chi può andare in chiesa, ci va, magari con l’aiuto di un bastone (che spesso diventa il segno distintivo della sua condizione di infirmus, di imbecillis, insieme al cappuccio sempre rialzato per proteggersi da freddo e umido); chi non riesce a camminare da solo viene aiutato e talvolta persino trasportato; a chi proprio deve restare a letto viene dato un libro delle ore e a chi non riesce nemmeno a leggere viene affiancato un confratello. L’importante è che l’opus Dei non sia mai trascurato: alla peggio il priore «invita uno o due monaci a cantare le ore canoniche in infermeria». Nelle abbazie maggiori, poi, è presente un oratorio riservato agli infermi, dove l’ufficio viene cantato secondo le possibilità di ciascuno (ad esempio molto più lentamente o velocemente). Così, commenta Cristiani, aprendo una parentesi quasi narrativa, «bisogna immaginare l’assortimento dei malati riuniti negli oratori di Cluny e Hirsau: tra lettiere, giunchi per giacigli dove i più deboli possono stendersi tenendo la testa poggiata sulla pelliccia, podagrici seduti su sgabelli, zoppi forti del loro bastone, malati inginocchiati su “panchetti” (formulae), malati con il capo scoperto o coperto, con o senza bastone, monaci esausti per la fatica del servizio o riversi sul pavimento su ginocchia e gomiti».

Sempre nelle grandi abbazie, nella pratica, i malati sono sottratti alla vista dei sani, grazie a locali di servizio, corridoi e chiostri secondari, ma per temperare la «nostalgia» del chiostro principale e della vita comunitaria (che diventano pertanto simboli della guarigione) e «fugare l’anomalia di un quotidiano all’insegna della distanza», si concede loro qualche eccezione o attenuante, soprattutto nei casi di lunghi decorsi e cronicità. Gli zoppi, ad esempio, possono sedere in capitolo e in refettorio, seppure per ultimi: distinti ma non separati.

(1-segue)

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  1. Le informazioni qui esposte e le citazioni riportate derivano in particolare da «Infirmus sum, et non possum sequi conventum». L’esperienza della malattia nelle consuetudini cluniacensi dell’XI secolo, in «Studi Medievali» XLI (2000), pp. 777-807; «Essere o malessere»: il problema della malattia dalla Regola di Benedetto alle Consuetudini di Cluny, in Parva naturalia. Saperi medievali, natura e vita, Atti dell’11° convegno della Società Italiana per lo studio del pensiero medievale (Macerata, 7-9 dicembre 2001), Istituti Editoriali e Poligrafici 2004, pp. 305-320; Il rito della salute. Il salasso nelle consuetudini dei monaci di Cluny (secoli X-XI), in «Quaderni medievali» 60 (2005), pp. 10-26 (tutti consultati su Academia.edu).

 

 

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