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Seicento anni e non sentirli

«L’anno 2019 si apre per la nostra rivista, e per la congregazione monastica che la sostiene, sotto un felice auspicio, perché proprio il 1° gennaio si sono compiuti 600 anni dall’approvazione della Congregazione di S. Giustina di Padova (più tardi chiamata cassinese) da parte del neoeletto pontefice Martino V.»

Ho già detto di come il ricevimento di un nuovo fascicolo di «Benedictina», la Rivista del Centro storico benedettino italiano, rappresenti per me sempre una piccola festa. Oggi, scorrendo il sommario del primo numero dell’anno (LXVI, 1) e dando un’occhiata ai contributi raccolti, tale consueta festa si è arricchita di una sensazione che, credo, sia strettamente legata ai motivi del mio interesse per le cose monastiche.

È già lì, nell’incipit sopra citato dell’«Editoriale» (firmato, nella migliore tradizione monastica da «il redattore»): la riforma di Ludovico Barbo, abate di S. Giustina, culminata appunto con la creazione dell’omonima Congregazione benedettina, compie seicento anni. Per l’occasione, l’abbazia di S. Giustina ha promosso un convegno, che si terrà a Padova in settembre, e, in accordo con il Centro storico benedettino italiano, ha deciso di abbinare alla ricorrenza il primo centenario (1919) «del ritorno dei monaci nella loro antica dimora, lasciata da oltre un secolo in seguito all’espulsione napoleonica».

Sfogliando, ecco una tabella che dà conto della popolazione monastica femminile nei monasteri di clarisse, di santucce e di camaldolesi a Sansepolcro tra il XIII e il XIV secolo: comunità di trenta, venticinque, quindici, dieci e sette consorelle: Nicoluccia (badessa), Piera, Benedetta, Angela, Francesca, Giacoma e Nesina, le quali però nel 1366 «affermano che tra di loro sono sorte tante e tali discordie da non poter più vivere in comunione senza grave pericolo per le loro anime. Pertanto, volendo provvedere alla loro salvezza, suor Nicoluccia e suor Piera da una parte e tutte le altre suore dall’altra decidono che la metà del monastero verso levante possa essere utilizzata dalla badessa suor Nicoluccia e da suor Piera e la metà verso ponente possa essere utilizzata dalle altre suore».

Sfogliando ancora, s’incontra un’inedita cronotassi abbaziale del monastero dello Spirito Santo e di S. Gallo di Pavia: l’elenco di oltre tre secoli di priori e di abati, dal 1418 al 1754.

Sfogliando ancora, una breve comunicazione di Giulio Meiattini mi mette a conoscenza della pubblicazione di un’opera che va annoverata tra i capolavori della «teologia monastica» del XIII secolo e «che, stranamente è rimasta nascosta e dimenticata fra i codici dell’insigne biblioteca dell’Abbazia di Cava dei Tirreni per ben otto secoli». Si tratta del De septem sigillis di Benedetto da Bari, databile al 1227 e ora disponibile anche in traduzione italiana in un poderoso volume curato dal professor Giuseppe Micunco.

Credo sia evidente come la sostanza di quella sensazione non sia altro che il tempo. Un tempo lungo, remoto, eppure sempre in qualche misura presente, contemporaneo. Seicento anni fa: praticamente ieri, l’altroieri via… Non è una storia, quella del monachesimo, priva di discontinuità, anche forti, lo so, e so anche che monaci e monache credono senza incertezze di non essere soli nella loro «avventura» secolare. Ciò di cui voglio dar conto è soltanto quella sensazione che oggi, senza alcuna generalizzazione, provo quando mi avvicino ai chiostri di carta o di pietra: la sensazione di un’impresa umana capace di fronteggiare il tempo, quello terrestre almeno.

 

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Realismo, speranza e positivo umorismo (Parola di badessa, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Definito il quadro di riferimento, la badessa Rosaria Spreafico si addentra nell’illustrazione di quattro aspetti decisivi di quello che lei definisce il «nostro servizio di autorità». Non va dimenticato, infatti, che sta parlando a futuri superiori di comunità monastiche, ma, per quanto possano sembrare dedicate a un tema singolarmente specifico, le sue riflessioni sono molto interessanti, se si pensa ad esempio alla difficoltà di parlare di autorità nei rapporti interpersonali, al di fuori di situazioni molto codificate o di esplicito, se non addirittura odioso, esercizio del potere.

Questi quattro aspetti sono l’accompagnamento, l’obbedienza, il discernimento comunitario e la riconciliazione fraterna. Sono termini tecnici, per così dire, e tuttavia se si considera il discorso della badessa da una certa distanza non è impossibile leggerlo anche in relazione a una comunità laica. L’accompagnamento, che m. Spreafico considera sulla scorta di Benedetto il compito più difficile e arduo di un superiore, e al tempo stesso il primo, fa emergere la delicatezza di un concetto come quello di «guida»: come e perché si guida un’altra persona? Cosa si mette in gioco in questo tipo di relazione? Quali ne sono i rischi? Per la badessa «guidare vuol dire anzitutto avere a che fare con la libertà dell’altro» e con la consapevolezza di una base comune di imperfezione, là dove la pratica della correzione, implicita nella guida, può e deve essere prima di tutto correzione di se stessi; e i rischi dai quali bisogna guardarsi sono principlamente l’uguaglianza a tutti i costi1 e l’autoritarismo.

L’obbedienza è un concetto altrettanto scivoloso, e lo dimostrano le parole della badessa, tese a definire il cambiamento intervenuto: «Un tempo l’obbedienza era intesa come la fedele e puntuale esecuzione del comando e della volontà dell’Abate, e se da un lato questa concezione era il riflesso di una spiritualità che ha generato degli autentici santi, d’altro lato l’obbedienza poteva anche rimanere qualcosa di formale, quando non addirittura fonte di incomprensione o frustrazione. Oggi invece si cerca un’obbedienza più autentica e profonda». M. Spreafico parla di passaggio dall’obbedienza esecutiva all’obbedienza filiale, ma al di là della terminologia è interessante vedere come il concetto possa essere recuperato anche in ambito non religioso2. Nella ricerca di una forma di purezza dell’obbedienza, la badessa identifica dei «nemici», e per quanto in disaccordo rileggo le sue parole: «Questa è la mèta [l’obbedienza come fede e fiducia], raramente raggiunta in tutta la sua purezza, ma è importante intravederla e perseguirla. E additarla a noi stessi e ai nostri monaci… E combattere insieme contro tutte le sue contraffazioni: le false immagini di libertà come assenza di legami, autonomia di giudizio e tutte quelle posizioni egocentriche a volte così difficili da sradicare, specialmente in noi donne, o le altre forme di individualismo un po’ miope, tipico degli uomini». E in effetti, tralasciando per un momento l’ossessione negativa per l’«autonomia di giudizio», perché non riconoscere quanto può essere bello eseguire una disposizione data da una persona di cui si ha piena stima e fiducia?

Allo stesso modo il discernimento comunitario va a toccare quelle aree, ancora: assai delicate, dove si forma il consenso, dove prende corpo una visione collettiva, dove si condivide un indirizzo comune. La dimensione quantitativa, qui come altrove, determina dei mutamenti qualitativi, e non è immediatamente pensabile che certe decisioni possano essere prese nelle stesse forme in cui una comunità monastica ad esempio decide un aggiornamento della propria consuetudine liturgica. Nondimeno, perché non riconoscere una certa – vuota e forse un po’ stupida – nostalgia per tali o simili forme? Per non parlare, infine, della riconciliazione fraterna, di fronte alla quale non comincio nemmeno vacui tentativi di «esportazione» e lascio che siano i confratelli e le consorelle «a fare la pace prima del tramonto con chi si è avuta la lite», come insegna il padre Benedetto. E lascio l’ultima parola, non metaforica, alla badessa trappista: «Ormai non basta più il capitolo delle accuse, e sulle spalle dell’Abate grava la responsabilità di quest’opera lenta e costante [la ricerca di perdono e riconciliazione], che richiede una presenza attenta e discreta a tutto ciò che accade nella comunità. Richiede molto realismo e speranza, e spesso anche una buona dose di positivo umorismo»3.

(2-fine)

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  1. Rosaria Spreafico, Paternità filiale: alcuni aspetti del servizio di autorità, in «Vita Nostra» IX (2019), 1, pp. 15-25: «Il primo [rischio] è non fare il padre ma il fratello, mettendosi alla pari, ascoltando molto… non esigendo mai nulla… senza imporsi mai… Più si avanza su questa via, più il monastero diviene o un covo di individualisti, di moderni sarabaiti, che mascherano sotto una falsa tolleranza il menefreghismo e l’egoismo, oppure la comunità diviene un covo di vipere che si sbranano l’una con l’altra».
  2. Volendo poi evidenziare, con cautela, un tema ricorrente delle mie note di questi anni, dirò che mi interessa, mi preme, capire se e come sia possibile non lasciare il monopolio di certi concetti di certe idee al pensiero di ispirazione religiosa.
  3. E chi non vorrebbe una badessa o un abate realista, fiducioso nel futuro e spiritoso…?

 

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Annebbiati e confusi (Parola di badessa, pt. 1)

La badessa del monastero trappista di Vitorchiano, m. Rosaria Spreafico, ha tenuto più o meno un anno fa, nell’ambito del Corso per i Superiori dell’Ordine cisterciense, una conferenza sul tema della «Paternità filiale: alcuni aspetti del servizio di autorità». Ho potuto leggere il testo perché è stato pubblicato sul numero più recente di «Vita Nostra», la benemerita pubblicazione semestrale dell’Associazione «Nuova Citeaux», e se in un primo momento può sembrare molto specifico e «interno» e difficile da apprezzare, per chi osserva le cose monastiche dall’esterno, a una lettura lenta offre molti spunti non trascurabili. A cominciare dal contesto nel quale m. Spreafico inserisce le sue riflessioni e che ci mostra quale sia la visione del mondo di una badessa trappista: per taluni potrà essere cosa irrilevante, per me, proprio perché non la condivido, è invece assai interessante.

Secondo m. Spreafico il clima sociale e culturale odierno è caratterizzato da «frantumazione del tessuto familiare e sociale, assenza di legami generativi, clima di violenza e insicurezza, ecc.» (quanto è significativo quell’eccetera, indice di un quadro che viene dato per scontato da chi ascolta…) e «gli uomini che abitano questo nostro mondo… sono annebbiati e confusi», soprattutto perché hanno perso il contatto con le «categorie elementari dell’umano», la più centrale delle quali è l’«essere generati». Contro questa dimensione si sarebbe accanita «la grande e disastrosa tempesta che ha investito le nostre società nel corso dell’ultimo secolo», e contro la sua più sacra rappresentante, la Chiesa: «L’accanimento prima occulto e ora dichiarato contro di essa sta alla radice dell’attuale disfacimento dell’Occidente». (Mi permetto qui di osservare due cose. Anzitutto che è difficile vedere in quella «tempesta», che pur con tutte le possibili riserve potremmo forse meglio chiamare «movimento di emancipazione dell’umanità», una forza nata e sviluppatasi con l’obiettivo primario di distruggere proprio la Chiesa (cattolica), in quanto tale; inoltre che la dimensione «Occidente» mi pare oggi, per così dire, irrimediabilmente problematica.)

Osservando questa desolazione dal suo chiostro (di cui, va riconosciuto pienamente, non si nasconde problemi e rischi e difficoltà), e accogliendo chi si presenta alla porta della sua comunità, la badessa si chiede dove trovare una base solida sulla quale fondare la propria azione e se la Regola di san Benedetto possa ancora essere questa base: «Il suo carisma è in grado di parlare la lingua degli uomini di oggi? E parla a noi, Abati e Badesse del XXI secolo?» La risposta, naturalmente, è sì, se si considera in particolare come a tutto il mirabile codice benedettino sia sotteso un senso profondo di relazione tra gli individui: «Cos’è che non passa nei rapporti di autorità, nei rapporti tra padri e figli, tra abati e monaci, cosa c’è di indistruttibile nell’essere umano, che nemmeno la forza disgregante del nichilismo può eliminare? Risponderei semplicemente: noi… La nostra vera identità è relazionale».

Qui per il momento non osservo nulla. Da un lato perché questo pensiero è così solidamente attestato, anche in epoca precristiana, da risultare, se così si può dire, patrimonio mondiale dell’umanità e non solo monastico; dall’altro perché non sono capace di sottrarlo all’esclusiva cristiana cui lo assegna la badessa. Principio della relazione, dice infatti m. Spreafico, è la generazione, che è, come si ricordava sopra, «la categoria centrale dell’identità umana». La prova, ciò che ci «rendi sicuri» di questo, è il Cristo: «Il fondamento è la fede in lui, l’uomo vero e riuscito, colui che è venuto nel mondo per rivelare l’uomo all’uomo». Molto interessante, come dicevo, proprio perché non lo condivido.

(1-continua)

 

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Una notte buia e tempestosa

La prima parte del numero 15 di «Vita Nostra» (rivista dell’Associazione Nuova Citeaux)1, testé uscito, offre un ricco e prezioso ventaglio di interventi sui temi della formazione delle nuove generazioni di monaci e monache e del valore pedagogico della Regola di san Benedetto. Sono testi, non più vecchi dell’anno scorso, di persone direttamente coinvolte nel lavoro di formazione delle «nuove leve» e, per questo motivo, molto concreti e attenti agli aspetti più pratici. Sono assai utili, non foss’altro perché dissolvono quell’immagine stereotipata che talvolta affligge chi guarda al mondo monastico da fuori e vorrebbe i benedettini, le cisterciensi, le carmelitane e i certosini di oggi non molto diversi da quelli e quelle di seicento e più anni fa: si sa, i monaci sono sempre uguali, invariabili come le regole che seguono e i chiostri che abitano; noi ci agitiamo, inseguendo gli idoli del momento, mentre loro, per fortuna, restano fissi al modello, stabili (numquam reformati quia umquam deformati, estendendo a tutti un famoso motto certosino).

E invece, ovviamente, non è così. I giovani che si rivolgono alle comunità monastiche, ed eventualmente chiedono di farne parte, provengono da un «mondo» che in ogni caso ha lasciato su di loro una traccia profonda, e lo scontro con le strutture della vita monastica può a volte assomigliare a una deflagrazione. Strutture materiali – la vita in comune, il silenzio, gli orari – e strutture spirituali – il servizio, l’annullamento di sé, il riconoscimento del proprio limite: la situazione preoccupa i formatori, cioè i maestri e le maestre di novizi e novizie, anche perché, come scrivono sr. Alba Caminati e sr. Maria Giovanna Locatelli, alle prese con le giovani a Vitorchiano, «la tentazione, per la maestra, è quella di lasciarsi dominare dal desiderio che la persona rimanga e, per questo, cercare di eliminare le fatiche e gli ostacoli», ma l’esperienza dimostra il contrario, avvertono le due maestre. Il «lavoro» che va compiuto durante il noviziato è assai esteso, lo si intuisce solo vagamente all’inizio e può spaventare, e soprattutto è un assaggio di quello che sarà una modalità di vita ininterrotta. In monastero, infatti, si entra per cercare Dio, «una scuola in cui non si finirà neanche in cielo di imparare».

La situazione è preoccupante anche se riguardata dal versante opposto, se strappa all’abate generale dei cisterciensi, dom Mauro-Giuseppe Lepori, queste parole: «In questa ricezione di una tradizione che diventi esperienza di vita e vita di esperienza, oggi siamo in profonda crisi, in particolare e anzitutto nei monasteri… Oggi abbiamo bisogno più di chi ci insegni a imparare che di chi ci insegni qualcosa. I veri formatori sono quelli che costantemente si formano, i veri maestri sono i permanenti discepoli» – «formazione permanente», si diceva appunto qualche decennio fa.

La chiave di volta di una proposta formativa sempre rinnovata ed efficace è da tutti, non sorprende, individuata nella Regola, nella sua visione antropologica come nel suo indirizzo pratico, nella sua concreta attuazione da parte di «comunità monastiche vive, capaci di sostenere, pur nell’inevitabile fragilità, un confronto con l’apparente pre-potenza della cultura globalizzata mondana». Bene, se da un lato resto in rispettoso silenzio davanti a persone consacrate che riflettono sui modi di trasmissione della loro esperienza alle nuove generazioni, dall’altro, proprio davanti a quella formula usata da sr. Maria Francesca Righi (maestra del monasticato a Valserena), provo un sentimento misto di perplessità e rammarico.

«Pre-potenza della cultura globalizzata mondana»: espressioni come questa danno il tono dell’interpretazione del «mondo» che prevale in queste pagine, il «mondo» dal quale certi giovani si allontanano e al quale i monasteri devono saper opporre altri valori. Ne riporto qualche altra, perché questo sarebbe il panorama sociale, psicologico, ideologico nel quale io, ad esempio, cercherei di vivere: «La distruzione antropologica che la mentalità dittatoriale del relativismo e del pensiero intollerante e dominante ha operato nel XX secolo» (M.F. Righi); «Una società che spinge i singoli al risultato immediato e alla prestazione in vista del successo, dell’affermazione personale», «l’ozio dell’iperconnessione continua» (Angelo Fusaro); «Gli “studi esteriori”, la scienza mondana, che oggi trascina l’uomo in un baratro di non senso e di vuoto esistenziale (M.G. Lepori); «L’uomo che ormai concepisce se stesso solo come materia e come evoluzione della materia – il che di per sé è assurdo e irrazionale rispetto alla sola evidenza – si chiude in una trappola di dissociazione e angoscia» (Monica della Volpe) – un paesaggio apocalittico, di fronte al quale mi limito alla forma dubitativa: possibile che là fuori, insieme a tanto male, non ci sia nulla di buono, o almeno di non riprovevole? Possibile che in quella che m. della Volpe chiama una «terra oscura» e «senza cielo» siano accese soltanto le piccole luci della fede?

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  1. «Vita Nostra», Rivista periodica dell’Associazione Nuova Citeaux, VIII (2018), 2. La si può consultare qui.

 

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Di belve, rivolte e domande

Non posso negare come talvolta, in questa quotidiana frequentazione degli scritti di argomento monastico, io mi senta del tutto estraneo1. La sensazione è assai più comune nel caso di testi contemporanei, e la cosa non sorprende. Ciò accade spesso, e non senza ragione, quando cerco di avvicinare testi che non si rivolgono a tutti, ma che sono concepiti e scritti (o pronunciati) da monaci per monaci. Come nei congressi medici, tuttavia, anche se il linguaggio è specialistico, e anche se l’argomento del dibattito è la professione stessa, i pazienti vengono sempre evocati, così i non credenti non sono mai completamente assenti anche quando una delle più stimate badesse di oggi riflette sull’«Essenza e grazia della nostra vocazione contemplativa e profetica»2.

L’essenza della vita contemplativa, scrive s. Monica Della Volpe, badessa del monastero cisterciense di Valserena, è, da sempre, la ricerca di Dio. Il risultato dell’oblio di questa cruciale tensione è il mondo come lo vediamo oggi, colpito com’è dalla dimenticanza di Dio, dalla «silenziosa apostasia della fede». L’attuale deriva occidentale è «l’operazione diabolica nel mondo post-cristiano, che vorrebbe chiudere il cerchio iniziato con la rivolta primordiale di Satana a Dio, coinvolgendo con sé l’umanità e il creato tutto». Ecco, è qui che mi sento immediatamente proiettato all’interno di un disegno dai toni apocalittici, del quale sarei inconsapevole vittima e al tempo stesso attore. Et pour cause, direbbe la badessa.

«Il mondo è pieno di morte», continua Della Volpe, e di fronte alla «tenebrosa gloria di Satana» non possiamo restare indifferenti. Di certo non lo possono le contemplative, ma nel «noi» cui fa riferimento la badessa, parlando alle sue compagne di viaggio, si avverte spesso l’eco di una comunità più larga, quella degli esseri umani: «Siamo chiamate, da Colui che abbiamo incontrato e seguito, a una vita umana; ci spiega Lui cosa questo vuol dire e come e perché questo debba essere diverso dalla vita delle belve – per capirlo dovremo anche passare attraverso l’esperienza delle belve, passioni, tentazioni, che si trovano dentro di noi e attorno a noi». Ed eccomi qui fratello delle belve, trascinato da passioni e tentazioni, sordo al richiamo di «una vita degna del nome di umana», perché sordo alla domanda posta dalla Parola.

La Parola di cui parla la badessa, con toni ora ispirati, viene incontro all’individuo, lo soprende e lo interpella, e l’individuo si mette seduto e affronta il «lavoro di capirla e di interiorizzarla, di iniziare un dialogo, anche una lotta, un corpo a corpo» con uno scopo preciso, quello di rispondere. «L’essenza della nostra ricerca di Dio», conclude temporaneamente Della Volpe, «è in questa risposta; non c’è vita contemplativa se non c’è davvero, al centro dell’essere, questa risposta». Ed eccomi qui cittadino di «un mondo di chiasso e frastuono, per il quale anche la parola è altro», cioè, per lo più, chiacchiera superficiale.

Estraneo, sordo, distratto. Stando ai meccanismi retorici, adesso dovrei obiettare e avversare con un «ma» un discorso che, comunque, è scevro di aggressività e durezze. E invece non lo farò. Sia perché non potrei ribattere sullo stesso piano, non inserisco la «posizione esitenziale» della monaca cisterciense – e tantomeno la mia – in un disegno di cui sarebbe inconsapevole: non vedo infatti alcun disegno, né percepisco alcuna domanda; sia perché credo che l’obiezione a ogni costo non sia sinonimo di «dialogo», bensì un automatismo improduttivo.

Quindi mi limito a un sommesso «no», anche se probabilmente alla badessa proprio questo «no» suonerebbe come una conferma.

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  1. Non mi sfugge che il mio confronto di non credente con questa dimensione della fede cristiana si sia basato sinora soltanto sulla parola scritta. Tale parzialità mi pare almeno un po’ mitigata proprio dalla centralità che la parola (non soltanto la Parola) ha appunto in questa fede.
  2. Monica Della Volpe, ocso, Profezia della vita integralmente contemplativa, in «Forma Sororum» 2/2017, marzo-aprile, pp. 90-107.

 

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San Bernardo e la glasnost

Spesso ho pensato che mi sarebbero bastati pochi minuti, diciamo dieci, di piena intelligenza dei pensieri di un’altra persona, di un mio «simile», per mettere nella giusta prospettiva una serie di inutili preoccupazioni e contorcimenti mentali con i quali mi accompagno quasi da sempre.

Bernardo di Chiaravalle ha insegnato, anche a me non credente, che il luogo della più esatta conoscenza degli altri è la propria interiorità, e che da quello specchio buio possono scaturire – devono, secondo Bernardo – l’umiltà e la compassione. Ciò nonostante non ho mai spento quel desiderio di vivere qualche momento di assoluta trasparenza. Probabilmente si è trattato di un mito vacuo, cui però ero per così dire affezionato.

Oggi, citato in un bel saggio del monaco cisterciense Raffaele Fassetta1, Bernardo mi ha spiegato perché tale trasparenza è sconsigliabile: «Non è possibile ottenere in questa vita una conoscenza perfetta gli uni degli altri, e forse non sarebbe neppure opportuno. Perché nella casa del cielo la conoscenza è un incentivo dell’amore, mentre qui potrebbe essere un ostacolo. Chi infatti può gloriarsi di avere un cuore casto? (Pr 20, 9) Onde, per chi è conosciuto, il rischio di essere confuso, e per chi conosce, il rischio di essere scandalizzato. Ci sarà gioia nella conoscenza soltanto là dove non ci sarà più nessuna macchia»2.

Ha ragione. Anche se ciò significa, per me che non credo né spero in «case del cielo», veder allontanarsi, se non la gioia, almeno la quiete della conoscenza.

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  1. Clairvaux, «Scuola di amore» sotto l’abbaziato di san Bernardo, in «Vita Nostra» 10 (VI, 1 – 2016), pp. 67-81.
  2. Il brano è tratto dal secondo dei Sermoni per la dedicazione della chiesa.

 

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Il sociologo, il priore, il monsignore e lo studioso di esoterismo

Per una curiosa coincidenza quattro libri che ho letto di recente hanno prodotto, tra le altre cose, una specie di scambio di battute sulla questione della frammentazione dell’individuo nella tarda modernità (meglio specificare occidentale, e meglio specificare anche che uno di essi non fa riferimento a un determinato contesto storico). La risposta a questo fenomeno è, mi pare, uno degli assi intorno ai quali ruota l’identità del monachesimo contemporaneo, che spesso presenta se stesso come testimonianza di una concreta alternativa, in un preciso ambito di fede, s’intende. Lo riporto qui, questo scambio, perché sono convinto che una buona parte dell’attrazione che provo per le «cose monastiche» sia dovuta proprio a quell’immagine di unità della persona raccontata da monaci e monache di oggi.

Dice dunque il sociologo: «In una società competitiva con ritmi accelerati di mutamento sociale in tutte le sfere della vita, gli individui hanno sempre la sensazione di trovarsi su una “china scivolosa”: fare una lunga pausa significa diventare fuori moda, antiquati, anacronistici nell’esperienza e nella conoscenza […]. Stando così le cose, gli individui si sentono obbligati a tenersi al passo con la velocità di cambiamento di cui fanno esperienza nel loro mondo tecnologico e sociale per evitare di perdere opzioni e connessioni potenzialmente preziose e mantenere la propria competitività»1.

Ribatte il priore certosino: «Il monaco impara e addita – ma anzitutto ama – la semplicità della vita in un mondo troppo complicato. Il monaco, come fu detto un tempo di Bruno, “afferra l’Uno afferrato dall’Uno”, non volendo seguire “nulla di ciò che è molteplice e muta”. […] C’è un monaco in ogni cuore umano. Colui che desidera essere uno, unificato, integro, centrato, costui è un monaco»2.

Ribadisce il monsignore: «Noi percepiamo i protagonisti della vita monastica come persone pienamente umane, esigenti, che amano la vita, desiderose di pienezza e completezza […]. Sono soggetti che tendono a costruire attraverso la regola l’unità della loro persona, in un un mondo e in una cultura segnata dalla frammentazione»3.

Ricorda lo studioso di esoterismo, qui in effetti forse un po’ fuori posto: «Anzitutto l’uomo deve sapere di non essere uno, ma una moltitudine. Non possiede un Io unico, permanente e immutabile. L’uomo cambia continuamente. In un dato momento è una persona, il momento seguente un’altra, poco dopo una terza e così via, quasi senza fine»4.

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  1. Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda moderntà (2010), traduzione di E. Leonzio, Einaudi 2015, p. 31.
  2. Solo dinanzi all’Unico, Luigi Accattoli a colloquio con il priore della Certosa di Serra San Bruno (Jacques Dupont), Rubbettino 2011, pp. 20, 121.
  3. Dante Carolla, Introduzione a Patrizia Girolami, Sui passi di Dio. Testimonianza e profezia della vita monastica, Quaderni di Valserena, Nerbini 2016, p. 6.
  4. Peter D. Ouspensky, L’evoluzione interiore dell’uomo. Introduzione alla psicologia di Gurdjeff (1950), Edizioni Mediterranee 2010, pp. 29-30.

 

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«Una piccola chiave» (Maria Ignazia Angelini, «Niente è senza voce», pt. 2/4)

NienteSenzaVoce(la prima parte è qui)

La riflessione della badessa di Viboldone non esita a confrontarsi con le questioni più scomode, ma a un certo punto sembra voler passare dalla difesa all’attacco. E così è lei, per così dire, a sollecitare lo scontro con la cultura postmoderna, a spingere il monachesimo a esporsi come testimonianza di salvezza possibile per l’essere umano contemporaneo. Il revival monastico è «legato alla dissoluzione della città moderna? O monaco dice la semplicità della fede che sfida la minaccia di dissoluzione del mondo? Il frantumarsi del reale nella coscienza dell’uomo postmoderno è l’orizzonte vero?» Il monachesimo potrebbe essere, «forse», una «piccola chiave» per aprire la strada che si allontana dall’«enfasi dell’io, in tutte le sue forme» verso una «vera intelligenza spirituale della realtà», che senza essere vuotamente sentimentale sia comunque evangelica. Con richiamo diretto a uno dei cardini della vita monastica, la lectio divina, m. Angelini ricorda che il Vangelo è anche, se non soprattutto, un messaggio che si ascolta. L’ascolto (senza mai dimenticare l’incipit della Regola benedettina) è la disposizione all’accoglimento – del mondo, dell’altro, del Signore –, e «la cultura contemporanea è incapace di nutrire un ascolto totale come espressione del desiderio e della ricerca di cogliere il senso deposto in ogni cosa, ma al tempo stesso soffre di questa impotenza».

Bisogna rileggere: un ascolto totale come espressione del desiderio e della ricerca di cogliere il senso deposto in ogni cosa. Anzitutto, che cos’è esattamente la «cultura contemporanea»? Da chi è rappresentata? Chi soffre di questa «impotenza»? E da chi sarebbe stato «deposto» questo senso in ogni cosa?

C’è, ovviamente, una punta di retorica in queste domande, perché, sì, la mia infinitesimale, anzi irrilevante, anzi sostituibile risposta se il frantumarsi del reale nella coscienza sia vero, è: sì, è vero. Non soltanto vero, connaturato. Quando poi la badessa avanzava la possibilità di una estinzione del monachesimo, «che – pur antico – non ha avuto promessa di indefettibilità», a me veniva da sostituire ai monaci noi esseri umani che, pure antichi, non abbiamo avuto promesse circa la nostra durata. Lo so, è una bestemmia, alla quale ne aggiungo un’altra: forse è proprio dal concetto di salvezza che devo affrancarmi, poiché salvezza non è data, è solo sperata e creduta, ed è un concetto troppo ramificato. Forse è proprio da un definitivo smantellamento di qualsiasi prospettiva ulteriore (c’è stato un periodo in cui mi ero imposto di non usare più il verbo «sperare»), che posso ricavare un’effimera e inconsistente presenza. Per ascoltare, e vedere, quello che c’è.

Non è una versione supponente di «qui e ora» o «momenti presenti», è anzi, mi pare, un atteggiamento la cui ispirazione viene dalla stessa stabilitas cui rivolge il suo sguardo la badessa: «[Dobbiamo riappropriarci] della stabilitas loci da intendere in paradossale controtendenza rispetto allo spirito di nomadismo della cultura moderna… La stabilitas è una forma di concentrazione del profilo viceversa essenziale per il quale la libertà dell’uomo ha la forma della ripresa di un inizio già posto, donato per grazia. La stabilitas intende rimediare alla libido dell’avventura sorprendente».

Anche qui bisogna rileggere: la forma della ripresa di un inizio già posto, donato per grazia. Non arrivo a tanto, in fondo, e il punto è ancora il medesimo, non m’interessa arrivarci.

(2-continua)

Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.

 

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Preferenza esclusiva

«Non si può vivere la vita monastica senza dar ragione di una preferenza esclusiva.» Su questa frase mi sono fermato (stavo leggendo il testo di una conferenza recente e molto interessante dell’abate generale dei cistercensi Mauro Giuseppe Lepori). Sembra un concetto molto anticonformista (per mancanza di un termine migliore, che non sia «inattuale») quello di preferenza esclusiva, segno di una lealtà e di una dedizione ormai sempre più rare. Una nobile stabilità che tuttavia può anche cambiare di valore e diventare rigidità mentale, ottusità, ostilità al rinnovamento. (Questa ambiguità, tra l’altro, si rispecchia in una simile ambiguità tipica del mondo dei consumi: ogni produttore di merci sogna che il proprio cliente si assesti su una «preferenza esclusiva», e al tempo stesso è soltanto grazie al tradimento di questa preferenza che è possibile lanciare nuovi prodotti.)

Secondo l’abate Lepori tale preferenza è il distintivo della vocazione monastica, lo è verso la Chiesa, lo è verso le altre forme di vita cristiana, lo è anche verso il mondo. Il mondo, ribadisce con forza, deve vedere con chiarezza la differenza monastica, e deve essere spinto a chiederne il perché («Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro?», Cantico dei Cantici, 5, 9). «Non è solo una liturgia che suscita questa domanda. Né il vivere in luoghi tranquilli. E neppure un modo di vivere e vestire alternativo. Neanche l’essere all’avanguardia su certe tematiche, di vita sana, ecologiche, ecc.» Il perché della preferenza esclusiva, che diventa «consacrazione preferenziale», al Mistero manifestatosi nel Cristo è la vera testimonianza, «l’apporto più prezioso che il monachesimo è chiamato a offrire alla Chiesa e al mondo».

Io trovo che questo perché i monaci e le monache lo abbiano suscitato e lo suscitino con il loro essere, con la loro storia e con le loro testimonianze, più ancora con quelle concrete – gli edifici, gli oggetti, la nozione di comunità che si sono susseguite nei secoli – che con quelle concettuali. Per me spesso è più provocatorio un chiostro, o un ufficio notturno, che una confessione o una meditazione. Queste ultime sono preziose, senza dubbio, e ne consumo sempre in gran quantità, ma credo che si situino nella zona dove la comprensione si fa più difficile. Se mi soffermo ad esempio sulla descrizione che viene tentata di quella «preferenza esclusiva», la mia mente sente sapore di tautologia: «La preferenza di Dio è la preferenza di Dio. È anzitutto la preferenza di una relazione reale con Dio in quanto Dio, un reale fermarsi in sua presenza, un reale ascolto della sua parola, nel silenzio, e fino alla profondità del nostro cuore».

Non lo so. La nube della non conoscenza?

(Mauro Giuseppe Lepori, La vita monastica 50 anni dopo il Concilio Vaticano II, assemblea generale del Service des Moniales de France, Poissy, 11‐12 giugno 2014; il testo, ovviamente molto ampio nell’impianto e assai ricco di spunti, è disponibile sul sito dell’Ordine Cistercense, qui il link diretto alla versione italiana.)

 

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Come dovrebbe essere

Mi hanno fatto gentilmente notare che non ha molto senso chiedersi perché senza tentare almeno una risposta. È vero.

Credo che, oggi, la risposta più onesta, e ripulita dai tanti elementi di contorno che pure sono presenti, sia che nella vita monastica, nella forma cui ho accesso, cioè quella scritta, vedo un modello di comunità che mi attira. (Che poi non si tratti che dell’ennesimo vago disagio, di terza o quarta generazione, dell’individuo «sballottato dalla globalizzazione» non posso escluderlo.)

Mi avvicino a essa sia attraverso le testimonianze, che spesso contengono l’aspirazione prim’ancora che la realtà, sia attraverso quella somma espressione della vita «come dovrebbe essere» che è la Regola. La realtà è, ed è stata, un’altra cosa, lo so, ma l’aspirazione è quella, e i monaci la Regola l’hanno scritta. Ne hanno scritte centinaia, da quelle di pochi articoli ai codici estesissimi, sublimi nel vano sforzo di contemplare ogni possibile variante: tutte, però, almeno in linea di principio, ispirate a quel concetto di difficile manovrabilità che è la carità, altrimenti detta amore. Circostanza che separa ed eleva le regole al di sopra di ogni regolamento.

Una comunità regolata e non regolamentata. Una comunità di cui non può essere esaltato ogni tratto, nondimeno concretamente tentata e non solo teorizzata.

Una comunità, per fare un solo esempio, che reca in sé una radice di stabilità, che, trasposta in un contesto più allargato, diventa facilmente immobilismo. Io adoro, per così dire, la stabilità, ma con essa, appunto, non si va da nessuna parte. Per dirla in altro modo: lo scontro e la dialettica sono, tra le altre, fonti di progresso; senza carburanti che si chiamano desiderio, ambizione, sete di conoscenza, voglia di affermazione non esisterebbero tante cose e situazioni di cui anch’io, come anonimo confratello di geni, scopritori e ribelli, godo. Il tempo del monastero, invece, è un’attesa, dalla quale è stato bandito lo scontro; lo abita un’associazione paritaria in cui non si alza mai la voce (non si dovrebbe mai alzare la voce). Anche nel monastero si lotta e si progredisce, eccome, su un piano spirituale, però. Ma non è sul piano spirituale che…

Quanto più avanzo su questa linea, tanto mi sembrano necessarie ulteriori premesse e precisazioni. Forse avevo visto giusto a non rispondere a quel perché. Fermiamoci alla comunità e alla Regola, dunque, e alla tenace determinazione a metterle in pratica, ogni santo giorno. Noi ci proviamo, mi dicono i monaci, stiamo aspettando, ma intanto facciamo così. Per questo mi piacciono.

 

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