(la prima parte è qui)
Non mi sembra il caso di riportare qui alcuni dei nomi delle monache di Santa Giustina, è più giusto che sia un libro così affettuoso (corredato di tante foto e anche di un cd, perché le agostiniane ferraresi avevano una lunghissima tradizione musicale di alto livello), a portare ampia e precisa testimonianza della loro esistenza. Un libro che riesce anche a unire in un solo filo narrativo abissi e leggerezze, tormenti e ironia.
L’ex ballerina che «si presentò al monastero con i suoi abiti più eleganti: un boa di piume e un cappellino esso pure con piuma» (che saranno conservati in un apposito armadio e riutilizzati anni dopo, un po’ appassiti, per una festa); la badessa che diceva di sé: «Sicuramente ho fatto qualcosa di male anche se non me ne sono accorta» e che per una diagnosi errata fu sottoposta persino all’elettroshock e accusata di «essersi scandalosamente ammalata con la “malattia della vanità femminile”»; la suora quasi completamente sorda che in parlatorio le consorelle tiravano per la manica della tonaca per farle abbassare il tono di voce; la rotara che un giorno preparò un impacco di sterco bollito di mucca (la loro mucca, la «Grigia»), asfissiando tutte quante; la suora che scriveva: «La mia grande ambizione è questa: riuscire con il divino aiuto a far rivivere in me proprio solo Gesù, e piano piano tutto ciò che può essere frutto di natura se ne vada al diavolo»; la reclusa «che si ritirò definitivamente nella sua cella all’inizio degli anni Cinquanta»; la monaca che, «come peraltro buona parte delle consorelle, se la cavava male con il latino della liturgia» e una sera esplose in un potentissimo «Furfum corda»; la suora che non voleva portare gli occhiali e «quando si muoveva era molto decisa, aveva una notevole energia e, non vedendo bene, rischiava di travolgere chi fosse lungo il suo tragitto»; la monaca che «coi conti era rimasta al 1918» e un giorno chiese al muratore: quant’è? «Il brav’uomo non volle dire una cifra e, confidando nel buon cuore delle monache, proferì un generico: “Faccia lei”» e si vide depositare sulla ruota 120 lire; la suora che s’incolpava di tutto e «non poteva permettersi di avere “zone di non amore”»; l’anziana sorella che non vedeva il proprio volto da più di sessant’anni e quando casualmente si specchiò, pensò di avere un’allucinazione: «Ma quella brutta vecchia?! Sono io!!!» E così via.
«Viste in prospettiva», conclude l’autore, «quello che più colpisce è proprio il loro rapporto con “sorella morte corporale”, come avrebbe detto san Francesco. Trascorsero la loro esistenza preparandosi senza cedimenti all’incontro finale con quel Dio che avevano tanto pregato e amato per tutta la vita.» Io non so cosa pensare, in realtà non penso niente, o quasi. Come in tanti altri casi durante le letture di questi anni, resto lì, veramente, in silenzio. Non scuoto la testa, non irrido, ma nemmeno ammiro, né tantomeno provo vaghe forme di invidia o nostalgia. Osservo e ascolto, con una scintilla di comprensione e con il pensiero, che mi è difficile reprimere, che alla base della loro scelta ci fosse anche un disagio potente nei confronti di questo mondo, una difficoltà verso i suoi modi che si stemperò in una soluzione depurata da aggressività e rivendicazione.
(2-fine)
Raffaele Talmelli, Il candido coro degli angeli. Ricordo delle monache agostiniane del monastero di Santa Giustina in Ferrara, Cantagalli 2005.