«Cosa hanno oggi da offrire i monaci e le monache?»

Sette sono i valori che il monaco trappista australiano Michael Casey estrae, per così dire, dalla tradizione benedettina per rispondere alla domanda posta dal titolo della sua conferenza1, e trovo molto interessante che non derivino dall’indagine di una ipotetica spiritualità monastica atemporale (benedettina nello specifico), bensì dal desiderio di corrispondere alle esigenze odierne degli «abitanti della postmodernità» – come se i monaci si chiedessero: il mondo oggi ha bisogno di questo, ne abbiamo, noi, da offrire?

Per impostare concretamente il discorso, p. Casey muove da una breve citazione di Baudrillard, che non ti aspetti fequentatissimo nei chiostri, e che vede nella «superficialità promiscua» del postmoderno l’evaporazione di una serie di qualità: profondità, coerenza, significato, originalità, autenticità. Ma, osserva p. Casey, «non sono queste caratteristiche che associamo alla tradizione di san Benedetto? E quindi… quale processo di apprendimento possiamo intraprendere per garantire che noi stessi viviamo tali valori e siamo, di conseguenza, in grado di trasmetterli ad altri?»

Ed eccoli questi «sette valori interconnessi che sostengono il nostro [di monaci] stile di vita»: gravitas, disciplina, ascetismo, misticismo, silenzio, testimonianza, cultura letteraria. Circola un’aria di sicuro cristiana, in questa compagine, ma non solo, numerosi sono gli echi classici, e colpisce come i suoi elementi appaiano al tempo stesso antiquati e «di moda», come se davvero la postmodernità fosse attratta da essi, a patto però di trasformarli in trucchi, «narrazioni» e prodotti senza effetti indesiderati, senza spine.

Va anche sottolineato come, nelle note che accompagnano la breve rassegna di questi valori, i riferimenti siano molti ampi, da Bernardo di Chiaravalle a Alasdair MacIntyre, da Charles Taylor a Thomas Merton, da Paolo VI a studi di sociologia e psicologia; e forse è proprio per questo che l’elenco di p. Casey attira e spinge a declinazioni laiche. Come non essere affascinati, ad esempio, da una gravitas che si presenta come una serietà/maturità «che dà la priorità alle misure pratiche che assicurano la realizzazione di obiettivi personali rispetto alle sollecitazioni più pressanti delle emozioni»? Come non acconsentire a una forma di disciplina che smonti «l’illusione postmodernista secondo cui una vita senza regole non è solo possibile, ma anche preferibile»? Come non prestare ascolto a un ascetismo che è essenzialmente autocontrollo a favore della comunità? E ancora, come non essere conquistati da un silenzio che è segno di distanza dall’immediatezza, di «passione per l’invisibile», di rifiuto del «moralismo intimidatorio»?2

Ancora una volta l’aspetto più importante è che i valori si incarnino, in gruppi di persone raccolte in luogo: «segni di speranza e possibilità per tutti coloro che li incontrano», «isole visibili» di umanità, «chiglie per controbilanciare i venti prevalenti dell’opinione popolare», «pozzi di silenzio in questa terra assetata»… Lo scetticismo, per quanto mi riguarda, è de rigueur, soprattutto quando un certo afflato sta per prendere il sopravvento, ma la mia opinione non toglie certo verità al tentativo di quelle persone di essere testimonianza viva di una Parola ricevuta: «C’è un ruolo per coloro che sono la prova vivente che il modo ordinario, oscuro e laborioso del Vangelo è anche un modo per l’autorealizzazione, il servizio reciproco e la creatività, e che è anche la strada verso la felicità, come le beatitudini suggeriscono».

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  1. Michael Casey, ocso, Cosa hanno oggi da offrire i monaci e le monache?, conferenza alla Australian Benedictine Union, 15 giugno 2019, in «Vita Nostra» 18 (2020, 1), pp. 19-40.
  2. «Se questo avviene, il silenzio monastico prende per mano la postmodernità, in quanto uno dei suoi effetti è il rifiuto del consenso a qualsiasi ideologia sia attualmente dilagante.»

 

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