L’impressione generale che ho ricavato dal volume curato dal trappista Patrick Hart e dedicato ai possibili sviluppi del monachesimo nel XXI secolo è quella di una preoccupata serenità. Va ricordato anzitutto che i monaci e le monache (e i pochi laici) convocati da Hart a esprimere il loro parere su where do we go from here? (come recita il sottotitolo, che potrebbe anche essere reso con un «che fine faremo?») sono tutti nordamericani, e questo dà un tono particolare alle riflessioni; va detto inoltre che questa «serena preoccupazione» è il risultato di una media tra atteggiamenti spostati sul primo termine e sul secondo. (In generale si può anche dire che sono i laici a essere più entusiasti sulla magnifiche prospettive del monachesimo, mentre è dai monaci che giungono le riflessioni più serie su un futuro non privo di ombre.)
Dal versante di coloro che pensano che «dài, ce la faremo anche se non sappiamo ancora come» prendiamo il trappista Michael Casey, che, con una cautela e un’apertura tipiche da «pensiero debole», muove da quattro aspetti fondamentali per tentare di definire i monaci e il monachesimo del futuro: 1. I monaci devono essere cercatori di Dio, «in qualsiasi modo la realtà divina sia definita» («however the divine reality is described», precisazione che trovo sorprendente l’autore abbia ritenuto di dover fare); 2. Questa ricerca esige una rinuncia radicale e pertanto un certo livello di «separazione» dal mondo; 3. La vita monastica dev’essere semplice, non perché rifiuti la complessità del mondo, né perché persegua un «inautentico neo-primitivismo», bensì poiché unico e «semplice» è il suo obiettivo; 4. Un monaco deve inserirsi in una tradizione, non esiste il monachesimo fai-da-te: «L’autentico monachesimo non si autogenera; non può essere il risultato dell’espressione di un individuo, proprio perché il suo obiettivo fondamentale è il superamento dell’individualità».
Tra l’altro, essendo il carattere paradossale del monachesimo, e più esattamente della comunità monastica, uno dei pochi risultati certi dell’esplorazione che sto registrando su questo blog, osservo che uno dei punti di più vivo paradosso in generale è il rapporto non risolto tra individuo e comunità. Non parlo del concreto rapporto che si può instaurare e di fatto si instaura tra un individuo e una comunità (sono esistiti ed esistono milioni di monaci anonimi che si sono per così dire «disciolti» nelle loro comunità – come miliardi di persone sciolte nelle rispettive società), ma quello ideale tra il principio dello smantellamento dell’individualità, indicato ancora oggi, come si è visto, tra i fondamenti della vita monastica, e la realtà di un fenomeno creato e mantenuto vivo grazie all’azione di spiccate individualità. I libri sono stati scritti e si scrivono su Bernardo e Rancé, per fare due nomi a caso, non su fratello Cimabue, che pure probabilmente è «più monaco» dei grandi fondatori e riformatori di Ordini.
Bernardo e Rancé – non dico nulla di nuovo – si scagliavano contro l’individualità perché era la loro individualità che rappresentava anzitutto un problema, o un ostacolo, o una fonte inesauribile di peccato. E ciò facendo la riaffermavano nella pratica, di contro alla teoria. Quanto più predicavano l’obbedienza a oltranza, la spersonalizzazione, tanto più si presentavano come guide, come leader, capaci di portare nel futuro i propri confratelli. Lo stesso Casey dedica un paradossale paragrafo conclusivo proprio al tema della leadership: «Ci saranno leader monastici capaci di portarci con coraggio e creatività nel futuro?» Come se il destino del monachesimo fosse nelle mani di monaci che ne disattenderanno l’obiettivo primario…
(1-continua)
Michael Casey, Thoughts on Monasticism’s Possible Futures, in A Monastic Vision for the 21st Century, a cura di P. Hart, ocso, Cistercian Publications 2006, pp. 23-42.