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21st Century Monastic Man (pt. 3/4)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

Il futuro del monachesimo potrebbe contemplare anche la sua scomparsa, in particolare in Occidente, là dove la Rivoluzione industriale e l’Illuminismo hanno lasciato un marchio indelebile. Il benedettino Terrence Kardong si muove con cautela, ma non evita le ipotesi più dolorose: «Forse vale la pena di chiederci se la scomparsa del monachesimo possa essere contraria al volere divino». Molti sono gli aspetti del monachesimo che ci appaiono «meravigliosi», ma questo non significa che Dio voglia che esso necessariamente sopravviva. La Chiesa sì, noi monaci e monache no, «dobbiamo ammetterlo. Non dobbiamo farci prendere dalla nostra retorica. Non siamo indispensabili».

Punto e a capo. Detto questo, con coraggio, bisogna ammettere, Kardong prosegue analizzando in cosa i monaci possono contribuire al nuovo secolo. Che lo debbano fare è fuori discussione, «anche se monos vuol dire “da solo”, il monaco non è un solipsista», siamo in un mondo abitato da altre persone e facciamo parte di una Chiesa universale. È vero, la Regola dice che bisogna «estraniarsi dal modo di vivere del mondo» (IV, 20): dal modo, tuttavia, non dal mondo.

Anzitutto: comunità, e ciò non stupisce. Il monastero può ricordare a un mondo ultraindividualizzato e ultraprivatizzato che la comunità è un valore, un terreno di coltura di solidarietà, di fiducia e di apertura che deve essere mantenuto vivo. A patto, naturalmente, che non si trasformi anch’esso in «un condominio nel quale non sai neanche chi sia il tuo vicino». In secondo luogo: celibato, e qui l’indicazione è meno trasparente. Kardong non si sottrae affatto alla delicatezza del tema, in relazione alla Chiesa di oggi e alla questione degli abusi: «È una materia molto controversa, e molti pensano che la Chiesa stia commettendo un grave errore a imporre il celibato ai preti; ma non c’è controversia circa il celibato di monaci e monache. Il celibato rappresenta la nostra essenza». È un voto che fa riferimento al rapporto con Dio e, in un certo senso, al concetto stesso di rapporto, in contrasto con la «pan-sessualità» della società occidentale. «La nostra testimonianza monastica di celibato è anche un modo per dire (pacatamente) al mondo che il sesso non è così importante [sex is not such a “big deal”]». In realtà lo è, e la Chiesa lo ha scoperto in maniera devastante, chiosa Kardong, che un po’ genericamente conclude: «In questa atmosfera, mi sembra che il celibato monastico possa avere un influsso positivo e rasserenante anche sulla Chiesa». Infine: lectio divina, e quest’ultima indicazione non è chiarissima. Il riferimento primario sembra essere rappresentato dai monaci stessi, che non devono confondere altre forme di studio e approfondimento con la lectio («Cosa dobbiamo fare con la televisione e Internet?»); mentre, allargando la prospettiva, l’accento sembra cadere sul nutrimento spirituale e sulla capacità di concentrazione di contro alla potenziale dispersione prodotta dai nuovi media.

È lo stesso Kardong, concludendo, ad ammettere di essere forse un po’ pessimista, forse più per motivi personali che generali («Dopotutto, le mie aspettative di un tempo per l’istituzione monastica sono state in qualche misura deluse»): sarebbe precipitoso tuttavia pensare che il monachesimo non abbia più nulla da offrire alla Chiesa e al mondo; parafrasando Chesterton, «non è che il monachesimo sia stato messo alla prova e giudicato manchevole, non è stato realmente sperimentato. Quindi, ai monaci e alle monache del mondo dico: “Proviamolo veramente!”». Una battuta in fondo ingenerosa, che non riesce a nascondere un certo imbarazzo.

(3-continua)

Michael Casey, Thoughts on Monasticism’s Possible Futures; Terrence Kardong, Thoughts on the Future of Western Monasticism, in A Monastic Vision for the 21st Century a cura di P. Hart, ocso, Cistercian Publications 2006, pp. 23-42; 57-72.

 

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21st Century Monastic Man (pt. 2/4)

(la prima parte è qui)

Tornando alle quattro qualità indispensabili evidenziate da Michael Casey (ricerca di Dio, rinuncia, semplicità e tradizione), vediamo alcuni degli sviluppi abbozzati dal monaco e scrittore trappista.

La rinuncia anzitutto si modellerà sull’evoluzione della società circostante: «I modi che la rinuncia monastica adotterà saranno determinati dalle forme in cui l’ambiente sociale esprimerà l’alienazione o il disinteresse nei confronti di Dio». Ciò cui i novizi dovranno rinunciare determinerà la «forma esteriore della vita monastica»; se la società industriale, ipotizza Casey, continuerà a isolare vieppiù i suoi membri in una rete di circostanze e attività virtuali, i monasteri potrebbero ad esempio diventare «centri di realtà non-virtuale».

Alcuni monasteri sopravvivranno come «monumenti di meravigliosa irrilevanza», perché ci sarà sempre qualcuno che vorrà far parte di una tradizione gloriosa anche se ormai spenta. Saranno, questi, luoghi di conservazione della memoria, «parchi a tema devozionali, con alcuni veri monaci proprietari del luogo che parteciperanno part-time alle diverse attività condotte sul terreno del monastero» («pious theme parks»? Accidenti!). Ma la spinta innovativa verrà da altre comunità che sapranno mettere in discussione qualsiasi aspetto della tradizione. La tradizione va ripensata, reinventata in modi che sgorgheranno dai luoghi dove il monachesimo sarà più vitale, e «l’Europa non può reclamare alcun monopolio di decisione circa i modi nei quali la spinta monastica cercherà di esprimersi; probabilmente nemmeno circa l’interpretazione della tradizione benedettina». Apertura e inclusività dovranno essere le parole d’ordine, ed è qui che i toni di Casey si alzano e l’ottimismo contribuisce a colorare le visioni del futuro.

Tanto per cominciare, in questa prospettiva le comunità miste saranno all’ordine del giorno («non vedo come questo possa essere evitato una volta che accettiamo la premessa dell’uguaglianza di genere»): basterà essere un minimo attenti a strutture architettoniche e riti comunitari per non esporre a inutili rischi la castità, la quale peraltro ne risulterà padroneggiata con maggiore profondità.

Ma l’apertura potrebbe anche andare oltre. «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!» canta il Salmo 133, «certo», commenta Casey, «ma non sarebbe ancor meglio se insieme vivessero i fratelli e le sorelle, gli ebrei, i greci e i barbari, i giovani e i vecchi, i saggi e gli stupidi, gli innocenti e i recidivi?» Con l’amore, il lavoro e i leader carismatici, secondo lui si può fare.

Come dicevo, talvolta l’accento è spostato di più sulla preoccupazione. O meglio, lo sguardo verso il futuro si accompagna a toni meno brillanti, come nel caso dei Thoughts on the Future of Western Monasticism, del monaco benedettino Terrence Kardong, scrittore e curatore dell’American Benedictine Review. Dopo un breve excursus autobiografico, Kardong apre la sua riflessione sulla nota più evidente e dolente: «La parte più significativa del problema è il reclutamento. Le persone non chiedono più di entrare nei nostri monasteri. La mia congregazione, la più grande nel mondo sul versante maschile, conta la metà dei membri che aveva nel 1965… Certo, domani può presentarsi alla porta un san Bernardo con tutta la famiglia e ribaltare la tendenza, ma nel complesso il mondo monastico si sta restringendo». Qualcuno obietterà, ricorda Kardong, che ci sono comunità in piena fioritura. Sì, nel mondo in via di sviluppo la vita monastica possiede ancora un certo tipo di attrattiva, e d’altra parte in Occidente ci sono delle «nicchie» tradizionali destinate a sopravvivere senza problemi, «ma non vedo come questo possa essere il futuro di tutto il mondo monastico».

(2-continua)

Michael Casey, Thoughts on Monasticism’s Possible Futures; Terrence Kardong, Thoughts on the Future of Western Monasticism, in A Monastic Vision for the 21st Century a cura di P. Hart, ocso, Cistercian Publications 2006, pp. 23-42; 57-72.

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