(la prima parte è qui, la seconda qui)
Il futuro del monachesimo potrebbe contemplare anche la sua scomparsa, in particolare in Occidente, là dove la Rivoluzione industriale e l’Illuminismo hanno lasciato un marchio indelebile. Il benedettino Terrence Kardong si muove con cautela, ma non evita le ipotesi più dolorose: «Forse vale la pena di chiederci se la scomparsa del monachesimo possa essere contraria al volere divino». Molti sono gli aspetti del monachesimo che ci appaiono «meravigliosi», ma questo non significa che Dio voglia che esso necessariamente sopravviva. La Chiesa sì, noi monaci e monache no, «dobbiamo ammetterlo. Non dobbiamo farci prendere dalla nostra retorica. Non siamo indispensabili».
Punto e a capo. Detto questo, con coraggio, bisogna ammettere, Kardong prosegue analizzando in cosa i monaci possono contribuire al nuovo secolo. Che lo debbano fare è fuori discussione, «anche se monos vuol dire “da solo”, il monaco non è un solipsista», siamo in un mondo abitato da altre persone e facciamo parte di una Chiesa universale. È vero, la Regola dice che bisogna «estraniarsi dal modo di vivere del mondo» (IV, 20): dal modo, tuttavia, non dal mondo.
Anzitutto: comunità, e ciò non stupisce. Il monastero può ricordare a un mondo ultraindividualizzato e ultraprivatizzato che la comunità è un valore, un terreno di coltura di solidarietà, di fiducia e di apertura che deve essere mantenuto vivo. A patto, naturalmente, che non si trasformi anch’esso in «un condominio nel quale non sai neanche chi sia il tuo vicino». In secondo luogo: celibato, e qui l’indicazione è meno trasparente. Kardong non si sottrae affatto alla delicatezza del tema, in relazione alla Chiesa di oggi e alla questione degli abusi: «È una materia molto controversa, e molti pensano che la Chiesa stia commettendo un grave errore a imporre il celibato ai preti; ma non c’è controversia circa il celibato di monaci e monache. Il celibato rappresenta la nostra essenza». È un voto che fa riferimento al rapporto con Dio e, in un certo senso, al concetto stesso di rapporto, in contrasto con la «pan-sessualità» della società occidentale. «La nostra testimonianza monastica di celibato è anche un modo per dire (pacatamente) al mondo che il sesso non è così importante [sex is not such a “big deal”]». In realtà lo è, e la Chiesa lo ha scoperto in maniera devastante, chiosa Kardong, che un po’ genericamente conclude: «In questa atmosfera, mi sembra che il celibato monastico possa avere un influsso positivo e rasserenante anche sulla Chiesa». Infine: lectio divina, e quest’ultima indicazione non è chiarissima. Il riferimento primario sembra essere rappresentato dai monaci stessi, che non devono confondere altre forme di studio e approfondimento con la lectio («Cosa dobbiamo fare con la televisione e Internet?»); mentre, allargando la prospettiva, l’accento sembra cadere sul nutrimento spirituale e sulla capacità di concentrazione di contro alla potenziale dispersione prodotta dai nuovi media.
È lo stesso Kardong, concludendo, ad ammettere di essere forse un po’ pessimista, forse più per motivi personali che generali («Dopotutto, le mie aspettative di un tempo per l’istituzione monastica sono state in qualche misura deluse»): sarebbe precipitoso tuttavia pensare che il monachesimo non abbia più nulla da offrire alla Chiesa e al mondo; parafrasando Chesterton, «non è che il monachesimo sia stato messo alla prova e giudicato manchevole, non è stato realmente sperimentato. Quindi, ai monaci e alle monache del mondo dico: “Proviamolo veramente!”». Una battuta in fondo ingenerosa, che non riesce a nascondere un certo imbarazzo.
(3-continua)
Michael Casey, Thoughts on Monasticism’s Possible Futures; Terrence Kardong, Thoughts on the Future of Western Monasticism, in A Monastic Vision for the 21st Century a cura di P. Hart, ocso, Cistercian Publications 2006, pp. 23-42; 57-72.