Dice Anna Maria Cànopi, osb, badessa dell’Abbazia Mater Ecclesiae dell’Isola di San Giulio, con la consueta, lucida precisione, nel 2017:
In monastero – ma questo vale per monaci e laici – l’importante non è quello che si fa, ma «come» lo si fa, con quale atteggiamento interiore si vivono il lavoro e i vari servizi comunitari, le relazioni fraterne e la stessa preghiera. Alla base ci deve essere il «distacco da se stessi», che è libertà dalla preoccupazione di voler a ogni costo conservare, o comunque valorizzare capacità proprie – reali o presunte – secondo criteri personali di utilità o convenienza. Il monaco è utile quando è gratuito, quando si dà totalmente al Signore, dicendogli momento per momento: «Eccomi, fa’ di me quello che vuoi». Si entra in monastero non per fare questo o quello, ma per «essere del Signore», perdutamente dati a lui nell’offerta di se stessi, nella preghiera, nell’umiltà, nella povertà. Questa è la radice della fecondità della vita monastica. Non bisogna cercarla in nient’altro. È fondamentale non perdere mai la consapevolezza che si raggiungono i fratelli per soccorrerli anche, ad esempio, lavando i piatti o i pavimenti. Facendo quel lavoro noi, misteriosamente, laviamo le coscienze – a partire dalle nostre – e contribuiamo alla purificazione dell’intera umanità. Ogni più piccolo servizio fatto con amore è una testimonianza non solo del nostro amore per Dio e per i fratelli, ma dell’amore di Dio per gli uomini, perché Dio vuole servirsi di noi come di canali che egli sempre ricolma di grazia, affinché trabocchino a vantaggio di tutti.
(Ho messo una sottolineatura là dove pensiero monastico e psicologia, come spesso è accaduto e tuttora accade, mi sono sembrati particolarmente intrecciati. Molti sono peraltro gli echi che mi è parso di cogliere qui.)
♦ Anna Maria Cànopi, Nel «sì» di Maria. Una lettura spirituale della Regola di Benedetto, Paoline 2017, p. 140.
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