La condanna al «non va mai bene niente» in una mirabile pagina di san Gregorio Magno, dal libro VIII dei suoi Moralia in Job (in un volgarizzamento trecentesco, ancorché un po’ «succinto»):
Questo [le conseguenze della superbia dell’uomo] vedremo noi più chiaramente se in questa natura atterrata noi consideriamo in prima la gravezza della carne, e appresso quella del corpo. E per questo mostrare non voglio che diciamo de’ diversi dolori che noi sostegnamo, né delle percussioni delle febbri dalle quali siamo continuamente affannati, né delle molte e varie infirmità corporali. Ma senza questo possiamo dire che ogni sanità del nostro corpo sia piuttosto infirmità. Or vedi questo chiaramente: se noi stiamo in ozio, o in pigrizia, il corpo si guasta; se stiamo in esercizio, vien meno per fatica; spesse volte il corpo ha fame, e allor conviene che col cibo sia sostentato; quando è troppo ripieno di cibo, o che è affannato per troppo mangiare, convien che sia alleggerito con astinenza. Spesse fiate si bagna, acciocchè non si guastasse per troppo umidore. Vedemo ancora che tale nostra natura convien che alcuna volta sia affaticata, acciochè non si corrompesse per troppo riposo; altra fiata conviene che si riposi, acciocchè non venisse meno per troppa fatica; dopo la fatica del vegghiare convien che si ripari col sonno. Quando è gravata di troppo dormire, s’aiuta col vegghiare. È coperta di vestimenti, acciocchè non si guasti per lo freddo; quando ha ricevuto troppo caldo prende il refrigerio del vento. E in questo modo riceve in sé medesima difetto per quella cosa per la quale ella si pensava fuggire. Sicché possiamo dire che la natura nostra, essendo così male ferita, sente sempre nuove infirmità per la medicina sua. Per la qualcosa ben possiamo dire che senza le febbri e i continui dolori ogni nostra sanità sia piuttosto da esser chiamata infirmità, dipoichè mai in essa non manca il bisogno della medicina: onde ogni consolazione che noi addomandiamo per utilità di nostra vita si può chiamare medicina contra alcuna infirmità che noi sentiamo. Sicchè quanti sono i diletti, ovvero sollazzi corporali, tante si può dire che sieno le nostre infirmitadi, e ogni medicina la quale noi prendiamo per fuggire tali infirmità, ritorna in infirmità nuova; perocchè usando noi un poco superchio il rimedio che noi prendiamo, ci ritorna in infirmità quello che noi abbiamo preso per medicina.
E certo ben fu convenevole che in questo modo fusse corretta la nostra presunzione e così abbattuta la nostra superbia. Onde perché una volta avemo lo spirito superbo, ecco che continuo portiamo con noi il loto, cioè la corruzione di questo corpo.
Ora veggiamo se noi siamo gravati d’infirmitadi della parte dell’anima. Certo non sono minori le sue gravezze che quelle del corpo. L’anima nostra, dipoichè fu schiusa da quella sicura allegrezza de’ veri beni, certo continuamente sente nuove afflizioni. Che ora è ingannata per speranza, ora è angosciata per paura; ora vien meno di dolore, ora è rilevata per falsa allegrezza. Con tutta sua pertinacia ama queste cose transitorie, e quando le perde è abbattuta senza consolazione, perocchè essendo essa sottoposta a queste cose mutabili conviene che si muti secondo la mutazione di quelle: onde quando ella addomanda quel che ella non ha, se lo prende alcuna fiata con sua fatica; e quando l’ha ricevuto, le incresce d’averlo addomandato con tanta sollecitudine. Spesse volte ama quello che essa aveva avuto in dispregio, e spesse volte dispregia quello che essa amava. Alcuna volta la mente con molta sua fatica riceve alcun conoscimento delle cose eterne, e subitamente le passano della memoria, se ella comincia punto a voler rimanere di tale fatica con molto affanno, e per lungo tempo va investigando di poter sentire alcuna particella di quelle cose di sopra; ma di poi l’è molto più agevole a ricadere tosto a quello ch’ella aveva usato di fare, e così non sa perseverare eziandio per picciol tempo in quello che essa aveva trovato. Desidera l’anima d’essere dirozzata, cioè di diventare savia, e con molto suo affanno vince in sé medesima alcuna volta la cecità della ignoranza: e dipoichè è diventata bene ammaestrata le conviene combattere contra la vanagloria della scienza sua. Affaticasi ancora l’anima, e appena si può sottomettere la iniqua tirannia della carne sua; e nientedimeno dopo questo si sente in sé medesima l’immagine della sua colpa, la quale essa aveva già vinta di fuori di sé coll’opera.
Levasi la mente a contemplare l’altezza del suo creatore, ma appresso ella è confusa della oscurità delle cose corporali. Vuole ancora la mente considerare di sé medesima, come ella, la quale è senza corpo, regga il corpo suo, e non può. Va ricercando quello che potesse rispondere a sé medesima, e a questo non è sufficiente: e così vien meno in quello che ella con molta prudenza addomandava. E in questo modo possiamo dire ch’ella si vede esser grande e piccola, larga e stretta; perocchè se ella non fusse larga, già non andrebbe cercando cose tanto malagevoli ad investigare: e dall’altra parte s’ella non fusse stretta, già troverebbe quello ch’ella addomanda. Ben dice adunque: Tu m’hai posto contrario a te, e sono fatto grave a me medesimo. E certo così è vero, perocchè l’uomo così discacciato sente in sé medesimo le contrarietà della carne e le questioni della mente, e così egli medesimo è a sé stesso grave peso: perocchè da ogni parte è aggravato di fatiche, e da ogni parte angosciato d’infirmitadi. Così, quello il quale partendosi da Domenedio si credette esser bastevole alla sua quiete, non trova in sè medesimo alcuna cosa se non continui affanni di turbazioni.
♦ I Morali del Pontefice S. Gregorio Magno sopra il Libro di Giobbe; volgarizzati da Zanobi da Strada, Protonotario Apostolico, e Poeta laureato contemporaneo del Petrarca, in Roma, per gli eredi Corbelletti, 1714.