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Tre guerre, tre paradisi, tre inferni (e finale con tamburelli)

Non si sa mai dove si va a finire quando si segue il filo delle note e delle citazioni…

Stavo leggendo, finalmente, la Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx quando, seguendo appunto il concetto di «reclusione», «esclusione», «separazione», e il richiamo del numero 3, sono finito su un breve detto del «padre» del monachesimo, che alla dimora nel deserto, forma primaria di separazione dal «mondo», associa la fine di tre delle grandi «guerre» che ci devono impegnare. «Chi abita nel deserto e vive nella quiete», dice infatti abba Antonio, «è liberato da tre guerre: quella dell’udito, quella della parola e quella della vista. Gliene resta una sola: quella del cuore.» La reclusione è quindi strumento efficacissimo per concentrarsi sul «combattimento spirituale» decisivo. Favorendo il quale, la cella e il chiostro, allora, derivazioni dirette del deserto delle origini, rappresentano una parziale anticipazione della condizione di beatitudine che attende il fedele penitente. Sono in qualche misura una forma di paradiso. Anzi tre, come dice un anonimo del XII secolo scovato da Jean Leclercq: «Il paradiso della Chiesa ha tre paradisi: il paradiso dell’eremo, il paradiso del chiostro e il paradiso della reclusione, cioè del recluso». E possono anche essere chiamati paradiso «perché in essi ci si dà alla lectio, alla meditazione, all’orazione, alla compunzione e alla contemplazione». In pieno accordo con Guglielmo di Saint-Thierry, che accomuna cielo e cella alla medesima sorgente, precisando che «sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle. E che cos’è? È dedicarsi a Dio, godere di Dio». Antonio non sarebbe stato d’accordo con questo sviluppo, e non lo era san Bernardo, che ci richiama invece alla moltiplicazione degli inferni, compreso quello claustrale. In uno dei Sermoni vari, quello per l’Avvento, l’abate di Chiaravalle dice che «c’è infatti un triplice inferno». Il primo è quello della punizione, della pena senza remissione, dove non si condona niente a chi ha offeso Dio: è quello dell’esazione, «perché vi si esige fino all’ultimo spicciolo». Il secondo è quello dell’espiazione, in altre parole il purgatorio, «destinato alle anime che devono purificarsi». Infine il terzo, quello dell’afflizione e della «povertà volontaria», dove chi rinuncia al mondo anticipa la penitenza «così da non passare dalla morte al giudizio, ma dalla morte alla vita». In questo «inferno beato della povertà» nacque, visse e morì Gesù stesso, e vi raduna quelli che sottrae alla perdizione. Ma non solo: «In questo inferno ci sono giovani adolescenti [adulescentulae novae], cioè le anime degli incipienti, fanciulle che suonano tamburelli [iuvenculae profecto tympanistriae], con gli Angeli principati che le precedono con cembali armoniosi e le seguono con cembali di giubilo».

E così, partito dal deserto, sono finito in mezzo a un corteo di ragazze e angeli musicanti…1

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  1. La citazione di Antonio viene dai Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, II, 2, a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2013, p. 95; l’anonimo del XII secolo è citato da J. Leclercq in un articolo del 1943 segnalato da Domenico Pezzini nell’introduzione a Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, Paoline 2003, p. 11; il parallelismo di Guglielmo di Saint-Thierry si trova nella Lettera d’oro. Lettera ai fratelli del Monte di Dio¸ introduzione e note di G. Como, traduzione di D.  Coppini, Paoline 2004, p. 158; il sermone di san Bernardo si può leggere in Sermoni diversi e vari, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di D. Pezzini (Opere di San Bernardo, IV), Scriptorium Claravallense, Città Nuova, 2000, pp. 631-647.

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Lascia stare quella gallina («Storia di sant’Antonio abate e del suo culto»)

dalleremoallastalla«Del 1513. Il giorno di S. Pietro il Sig. Prospero Colonna alloggiò nel borgo di S. Iacobo con lo campo de’ Spagnoli fuori della Città di Brescia: & uno di quelli Spagnoli tolse una galina ad una casa dove era dipinta la figura di S. Antonio, e una donna li disse lassa star quella gallina che ella è di S. Antonio & questo Spagnolo fece le fiche a ditta figura, dispreciando S. Antonio con parole, & il Signor Iddio volendo dimostrare parte della sua possanza in questo Spagnolo ad essempio che gli altri non debbano far disprecio ai suoi servi fece che questo Spagnolo cominciò subitamente ad ardere, & si vedeva visibilmente a uscirli il fumo de la bocca, & la cener da li occhi & in breve morì miseramente, talmente che quel corpo stette doi giorni che tutti lo potevano vedere in la Chiesa de S. Antonio di Brescia.»

Al libro di Laura Fenelli dedicato alla storia di sant’Antonio e all’evoluzione del suo culto e della sua iconografia1 devo molte citazioni curiose come questa, devo una gran quantità di informazioni interessanti e di suggerimenti per altre letture, ma devo soprattutto un percorso ricchissimo e in effetti avvincente attraverso le varie forme assunte dall’identità e dall’immagine del santo: dall’anziano eremita che fugge nel deserto e viene attaccato dai demoni, al patrono degli animali da stalla e da cortile che inganna il diavolo; dalle tavole di metà del secolo XIV, ai santini ancora oggi in stampa.

Come questa straordinaria metamorfosi sia accaduta è il filo conduttore del volume, che affronta con coraggio una mole di materiale storico vasta e multiforme. Nella vicenda di Antonio, che solo a un certo punto diventa sant’Antonio abate, s’intrecciano infatti agiografia e iconografia, in un rapporto che non è sempre a senso unico, dalla prima alla seconda, ma talvolta si inverte; storia degli ordini religiosi e della spiritualità laica (nascita, diffusione e declino dell’ordine ospitaliero degli antoniani, eretti ordine di canonici regolari nel 1297 da Bonifacio VIII, ma cui già da prima era affidata la «gestione dell’ambulanza papale», cioè «un ospedale mobile per la corte papale, che aveva il compito di seguire il pontefice nei suoi spostamenti»; e dei quali ebbero a ridire con toni piuttosto duri o ironici, tra gli altri, Dante, Boccaccio e Sacchetti); storia delle reliquie e del loro ruolo simbolico ed economico (intorno alla fine del Quattrocento i corpi di sant’Antonio, perfettamente conservati, diventano due – poi anche tre –, e la controversia che ne deriva giunge fino al 1859, con un pronunciamento finale della Congregazione dei riti); storia della medicina (l’esclusività della cura del fuoco di sant’Antonio, il fuoco sacro da intendersi come l’intossicazione da segale cornuta e non come l’odierno herpes zooster, da parte degli antoniani si affermò tra Trecento e Quattrocento, ed è molto interessante il fatto che, una volta ammessi negli ospedali, i pazienti dovessero assumere uno stile di vita simile a quello dei canonici, nel cibo – cosa che faceva parte della terapia –, nelle vesti e nei doveri liturgici. Sempre da un punto di vista terapeutico, e collegata al possesso delle reliquie «autentiche», è altrettanto interessante la questione del saint vinage – la «bevanda ricavata ogni anno, il giorno dell’Ascensione, versando vino nella cassa contenente le ossa di sant’Antonio – e del grasso di maiale utilizzato come eccipiente nel balsamo di sant’Antonio per lenire le ulcere cutanee – cosa che si collega al privilegio degli antoniani di allevare i maiali anche in città, e alla singolare e stabile presenza del maiale tra gli attributi del santo nelle sue rappresentazioni); e ancora storia dell’arte, filologia (la Vita di Antonio di Atanasio, la Leggenda di Patras, la Leggenda di Teofilo), storia del folclore e delle tradizioni popolari (l’abruzzese Stòrije di sand’Anduone e le innumerevoli canzoni popolari) …

Anche da questo confuso elenco, che non gli rende ragione, emerge la dovizia del libro, che deriva da una tesi di dottorato2 e che in una certa misura ne risente: talvolta l’esposizione è quasi sopraffatta dalla quantità di dati e notizie che si sovrappongono, dalle prospettive di ricerca che si affiancano, ma alla fine prevale, direi, lo stupore per l’incredibile stratificazione di concetti, riferimenti e rimandi che si presenta a chi indaghi la figura e la vicenda del santo, e la sua altrettanto incredibile estensione temporale: sedici secoli in cui succede di tutto senza che si smarrisca un fondo comune, poiché, come conclude l’autrice, «l’Antonio contadino, l’Antonio burlone che va all’inferno per gabbare il diavolo, l’Antonio che protegge le stalle e i raccolti, l’Antonio che spegne gli incendi che minacciano le case coloniche è, nei fatti, lo stesso Antonio che nella biografia atanasiana coltiva il suo orticello contro i demoni, che sfida Satana nel deserto, che insegna ai suoi compagni come sopravvivere in un ambiente ostile, che risana prodigiosamente chi gli si rivolge».

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  1. Laura Fenelli, Dall’eremo alla stalla. Storia di sant’Antonio abate e del suo culto, Laterza 2011.
  2. Sant’Antonio abate. Parole, reliquie, immagini, tesi di dottorato in Storia medievale presso l’Università degli studi di Bologna, a.a. 2006-07 (che si può leggere qui).

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