
Sabina Baral e Alberto Corsani, Credenti in bilico. La fede di fronte alle fratture dell’esistenza, Claudiana 2020. Non di interesse direttamente monastico, ma molto interessante, poiché forse con una punta di pervicacia penso che oggi la domanda sia: «Com’è possibile credere?», e non più: «Com’è possibile non credere?». Gli autori, di confessione protestante, hanno interrogato nove figure di intellettuali assai diverse (psicanalisti, teologi, pedagogisti, artisti, scrittori, poeti, pastori…) sull’argomento espresso con precisione dal sottotitolo. Non sono stato scosso, se così si può dire, nelle mie convinzioni, perché posso ascoltare l’uomo («Non crediamo in un’idea o in un concetto astratto, ma in una persona che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita”. Un uomo, non una citazione dotta», Bruno Forte), ma non posso credere che quest’uomo sia risorto; perché penso che la promozione e lo sviluppo della fraternità non abbiano bisogno di fondamenti trascendenti; perché non penso che la famigerata «domanda sul senso» sia proficua, e così via. Nondimeno ho letto con grande interesse i dubbi espressi senza tanti giri di parole da questa schiera di, a vario titolo, credenti. In particolare quelli che si trovano nel sofferto intervento del pastore Gianni Genre, che esordisce con queste parole sorprendenti: «A livello personale, ho sempre avvertito l’incredulità [da distinguere dall’ateismo] come una continua minaccia, ma anche come un lusso che non mi potevo permettere… Avrei voluto – e a volte ancora vorrei – arrendermi alla suggestione che Dio non abbia alcuna voce in capitolo in ciò che succede attorno a me». Ed ecco la sua risposta alla domanda di cui sopra: «Ciò che io posso provare a definire fede mi salva dall’assurdo. L’assurdo, per me è pensare di potere credere. Pensare che la fede sia qualcosa che posso. Insomma, non c’è nessuna scelta, nessuna mia libera volontà, nessun lontano frammento di libero arbitrio».

Benoît Standaert, Diario dell’umiltà, traduzione di G. Romagnoli, Queriniana 2020. Monaco benedettino dell’abbazia di Saint-André a Zevenkerken, nelle Fiandre, d. Standaert è diarista di lunga esperienza e ha deciso di pubblicare qui uno dei suoi diari, esteso dall’agosto del 2007 (quando aveva 62 anni) al 2017, dedicato appunto alla teoria e alla pratica dell’umiltà, «senza dubbio il regalo più prezioso e segreto della tradizione cristiana rispetto a tutte le altre tradizioni». Riflessioni, ricordi, racconti, citazioni e appunti, talvolta anche sin troppo stringati, di una continua ricerca, prima ancora che della virtù «centrale della nostra ricerca monastica», della sua possibilità; di un reiterato tentativo di acquisire quello «svuotamento», che rappresenta uno dei concetti più imprescrutabili della fede cristiana – imprescrutabili se riferiti a Dio, poiché di esperienza quotidiana si tratta se riferito agli esseri umani: «Vivere “alla maniera di Dio” significa vivere nascosto. Sempre di più. Senza retorica, senza enfasi. Basta la sola kenosi. Quella di Dio in Cristo e di Cristo in noi. E di noi in tutto». Ciò nonostante, pure in questo nascondimento abbassamento svuotamento, d. Standaert ravvisa la possibilità, anzi la certezza di un’assoluta unicità dell’individuo: «Noi tutti abbiamo solo una frase da dire. Dopodiché, possiamo andare. L’oblio ricoprirà molte cose, talvolta in modo stranamente rapido. Non affliggerti troppo! Ma sii fedele alla tua prima chiamata, alla tua prima presa di coscienza, alla tua melodia di fondo».