Due «schedine» dedicate a due libri che, nonostante la cronologia, in qualche misura rappresentano un possibile dialogo.
Max Horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, a cura di R. Gibellini, introduzione di H. Gumnior, Queriniana 20197 (trad. di Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen. Ein Interview mit Kommentar von Helmut Gumnior, 1970). «Devo dire che su Dio non possiamo esprimere proprio nulla.» È una delle prime risposte che Max Horkheimer dà nel corso di un’intervista condotta all’inizio del 1970 da Helmut Gumnior, nella quale il filosofo critico si dilunga, in maniera allora sorprendente, sugli aspetti religiosi della sua riflessione, giunta ormai quasi alla conclusione (Adorno è morto da qualche mese e lui «lo seguirà» nel 1973). C’è molto del pensiero ebraico, per ammissione stessa di Horkheimer, in quelle parole, ma non è una rinuncia completa ad affrontare il discorso teologico: «La teologia è», afferma infatti Horkheimer, sottolineando la necessità di una massima cautela, «la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola.» La teologia, più precisamente ancora e nella sua declinazione critica, sarebbe l’espressione di una nostalgia, «secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla vittima», e la religione stessa sarebbe l’immenso deposito della nostalgia provata dalle generazioni che si sono susseguite di «qualcosa di migliore», di altro se non di Altro. Non soltanto un sentimento, che contrasterebbe «la paura che Dio non ci sia», bensì il fondamento stesso dell’azione morale, che trova la sua ragione ultima nella reazione positiva dell’altro – la sua gioia. E tutto ciò mentre le società si avviano a essere completamente amministrate, senza reali alternative…
Lluís Duch, L’esilio di Dio, traduzione di M. Masini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2019 (trad. di L’exili de Déu, 2017). Notevolissimo: non diversamente definirei il libro del monaco e teologo catalano (ma non è forse una tautologia? Non sono forse monaci e monache i massimi esperti di teoprassia, di «teologia applicata?»). Rivolto principalmente ai credenti e in particolare alle persone di religione, il breve testo è pieno di stimoli, di spine, anche per chi osserva dall’esterno. Lluís Duch prende le mosse dalla «crisi dalle dimensioni colossali» dell’«immagine tradizionale del Dio della tradizione giudaico-cristiana», una «reliquia estranea» priva ormai di quella vitalità che le dovrebbe essere propria, e osserva l’affermarsi di forme composite, offerte dallo «psicologizzato ipermercato religioso», caratterizzate «da un solo fedele e da un solo culto – “questo” uomo o “questa” donna» – e con una sola finalità, «costituita dalla risposta alla domanda narcisitica per eccellenza: “Come sto?”». Da queste forme Dio, il Dio della tradizione, è assente, e tale assenza ha per così dire riportato in auge persino un certo rinnovato gnosticismo, che «aderisce molto bene a quell’individualismo esacerbato e solipsista che è stato proclamato e praticato in occidente quasi sempre da parte dei profeti del (neo)liberalismo economicista». La risposta a questa deriva risiede, secondo Duch, nel riconoscimento della «capacità di Dio» degli individui (che sono appunto capaces Dei), che ha comunque bisogno di un contesto per attuarsi, e più ancora, forse, da quella che Duch chiama «l’imprescrittibilità cristiana», cioè «la cura dell’altro: l’Altro con la lettera maiuscola che è Dio, ma anche qualsiasi essere umano che, nella varietà di spazi e di tempi, è un’inesorabile immagine di Dio»1.
Parlavo di «spine»: mi pare infatti di aver citato qualche volta il concetto di nostalgia, annotando i discorsi monastici, ma al tempo stesso devo riconoscere che sulla strada verso l’altro – espressione di cui almeno mi si concederà la «scivolosità» – ho fatto ben pochi, timidissimi passi.
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- «L’avvicinamento all’altro e il suo riconoscimento costituiscono la grande opportunità che Dio instancabilmente ci offre per “fare memoria” di lui in ogni qui e ora della nostra esistenza.»