Ostaggi (Gregorio e Bernardo, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

L’inaggirabilità del corpo, si diceva; campo decisivo dove si gioca la nostra «partita». Per san Gregorio Magno la strada da seguire è quella di un radicale ritorno in se stessi (habitare secum), chiudendo le porte che in noi si aprono al mondo, e ai suoi «pericoli», e spegnendo i sensi che vi sono connessi. In tale prospettiva il chiostro è simbolo perfetto di questo movimento e al tempo stesso strumento pratico di grande efficacia, quasi una piattaforma di lancio per ascendere alla contemplazione delle cose celesti. Parlando di san Benedetto, Gregorio sintetizza dicendo che in quella solitudine raggiunta «abitava con se stesso nel senso che si manteneva nel chiostro del suo pensiero; ma ogni volta che l’ardore della contemplazione lo portava alle altezze, senza dubbio si lasciava sotto se stesso» (il corsivo è mio). «In questo contesto», commenta Patricia Metzger1, il chiostro è presentato come un baluardo contro il mondo, così come la Chiesa e la fede sono presentate come paradisi di pace nel cuore di un mondo tormentato» (e non è difficile scorgere qui uno dei motivi di attrazione che gli stessi edifici monastici suscitano nei laici che li visitano).

Anche san Bernardo invita a partire dalla miseria della nostra condizione per orientarsi a Dio, ma non facendo leva sulla colpa, come Gregorio, bensì sulla progressiva conoscenza di sé, non sulla chiusura bensì sull’apertura. Mettendo anche in guardia sui rischi legati all’idealizzazione della contemplazione. L’interiorità, per Bernardo, non è un rifugio dolce e riposante, non deve esserlo se si vuole evitare il compiacimento – cioè l’inautenticità. Scrive Bernardo, con micidiale finezza, al canonico Ogero (Lettera 87): «Di’ la verità, cioè che tu hai avuto cura più della tua quiete che dell’utilità degli altri. E non c’è da meravigliarsene: anche a me, lo confesso, piace che una siffatta quiete ti piaccia, purché non ti piaccia troppo». E aggiunge, inchiodando alla sua responsabilità il povero Ogero, che, con sollievo, aveva «deposto il carico della cura pastorale»: «Qualsiasi bene che piace tanto che se non lo si può realizzare, secondo le norme, ci spinge però a realizzarlo lo stesso anche in un modo non lecito, è un che di troppo e per il fatto stesso che non è compiuto secondo le regole non è un bene». Il pericolo per Bernardo, secondo la lettura di Metzger, non è (quasi) mai nel mondo, ma (quasi) sempre e comunque in noi stessi, «nelle illusioni e nelle false immagini che alimentiamo su noi stessi».

L’ingresso nel chiostro, reale e simbolico («luogo alto e segreto, ma per nulla tranquillo»), quindi, non è una fuga dal mondo, corrisponde invece alla creazione di uno spazio, reale e simbolico, di accoglienza interiore per incontrare il divino, nella sua indefettibile misericordia. La quiete monastica libera dunque dall’affanno della ricerca di sé, e dalle trappole dell’autoaffermazione, in virtù di una completa apertura e disponibilità all’incontro. Non si abbandona se stessi, nel chiostro, semmai ci si sveste. E questo è un punto di comprensione cruciale anche per un non credente come il sottoscritto, cruciale per quanto assai sfuggente se privato, appunto, dell’altro Protagonista di tale incontro.

«Lungi dall’essere un ripiegamento su stessi», conclude Metzger, «la quiete si rivela qui come il culmine dell’incontro, permettendo all’uomo non di sfuggire al mondo, ma di trovare la distanza necessaria per non esserne ostaggio.»

Ma chi, o cosa, c’è laggiù, se Lui non si vede?

(2-fine)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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