Taccio (dal Diario di una novizia, di Emanuela Ghini)

Una pagina del Diario di una novizia, testé pubblicato dalla carmelitana Emanuela Ghini1, grande conoscitrice della Parola (non solo di quella con la «p» maiuscola), mi spinge a tornare su uno degli aspetti non risolti – irrisolvibili? – della mia comprensione della vocazione monastica. Più che di «aspetto non risolto», si tratta forse di una convinzione, se non di un pregiudizio, che faccio fatica ad abbandonare.

Il diario, che si propone datato tra la fine degli anni ’50 e il 1960, registra «un cammino spirituale verosimilmente analogo a quello di ogni giovane che accolga la chiamata di Cristo in contesti oggi molto diversi ma non interiormente dissimili da quelli di questa novizia», intervallato da incontri con sacerdoti, confratelli e conoscenti. Uno di questi, Carlo, laico o ecclesiastico non si sa, che «non comprende la vita monastica ma è una persona di grande onestà intellettuale», e che a differenza di altri compare significativamente una sola volta, contesta alla novizia la sua scelta: «Egli crede che ci dimentichiamo del mondo, delle sofferenze reali degli uomini, nelle quali bisogna calarsi per guarirle. Vede nel monachesimo una condizione di privilegio lontana dalla vita». La novizia evita la polemica («ognuno ha la sua porzione di verità»), ma in sostanza evita anche la risposta, o quanto meno non la riporta, e si dice dispiaciuta per l’incomprensione «di modalità della vita cristiana che sono evangeliche, se realmente vissute»: la preghiera, l’apostolato «nascosto», l’obbedienza, la povertà che rende «solidali con i minimi della terra».

Carlo non è convinto – «invano parlo a Carlo di noi come comunità di persone diverse, dissimili ma unite nel fondo dalla stessa passione» – e «ripete che facciamo tutto solo per noi, che ignoriamo la vita reale». Il colloquio, non privo di reciproco affetto, s’interrompe, la novizia vorrebbe discutere su cosa sia la «realtà», ma «desiste». E sull’argomento non tornerà praticamente più.

Non si tratta certo, per quanto mi riguarda, di «questionare» una scelta di vita (ovvero, da che pulpito…), né l’autenticità di quel sentimento di solidarietà con tutti i viventi nutrito e vissuto nella separazione, bensì di nominare la mia perplessità. Quante volte ho letto negli scritti di monaci e monache, contemporanei e no, il riferimento ai quaranta giorni di solitudine di Gesù nel deserto, o alla circostanza che spesso si ritirava «da solo a pregare», ma non posso non osservare che Gesù è sempre tornato indietro da quelle solitudini, da quelle scelte temporanee, se così posso chiamarle.

Ecco la mia convinzione, o il mio pregiudizio inveterato: non c’è, per taluni (non siamo appunto tutti uguali), anche una forma di sollievo nel rinunciare al contatto quotidiano e ininterrotto con «gli altri»? Una forma, lo ammetto, per me assai comprensibile. Sì, certo, la comunità monastica è pur sempre una incarnazione degli «altri», ma non è forse una declinazione più «accessibile», più «digeribile», e soprattutto unita dall’intento comune?

La pagina che registra l’incontro con Carlo si conclude con una citazione e tre puntini di sospensione che vanno a onore della novizia: «Mi torna alla mente un’espressione di Giovanni Crisostomo a proposito delle vergini stolte del Vangelo (Mt 25, 1-13): Così erano quelle vergini: caste, decorose, modeste ma utili a nessuno… Mi considero una di queste e taccio…»

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  1. Emanuela Ghini, Diario di una novizia, San Paolo 2024.

2 commenti

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2 risposte a “Taccio (dal Diario di una novizia, di Emanuela Ghini)

  1. Marco

    ho acquistato questo libro è uno scrigno di perle rarissime. Grazie

    • MrPotts

      Ne sono proprio contento: gli sparsi libri di Emanuela Ghini che ho potuto leggere sono tutti belli, veri, illuminanti e con un tono personale molto preciso.

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