Al volo

«Contro ogni consuetudine dei cenobi» Patermuzio ottiene di essere accolto in monastero insieme al figlio, di circa otto anni. Padre e figlio però vengono separati per evitare qualsiasi pensiero mondano. Giusto. Ognuno per conto suo, magari ci scappa un salutino ogni tanto, ma niente di più.

Il priore tuttavia vuole essere sicuro che Patermuzio abbia reciso ogni legame carnale, e cosa fa? Maltratta il figlio. «Il fanciullo [un po’ stupito, mi viene da aggiungere] veniva di proposito trascurato e vestito di stracci più che di abiti.» Non basta. Direi a questo punto spaventato, «veniva poi esposto ai colpi e agli schiaffi di molti», persino al cospetto del padre. E Patermuzio? Niente, non si preoccupa minimamente delle offese subite dal figlio, «anzi ne era contento, perché sapeva che esse non vengono mai sopportate senza frutto».

(Tra parentesi. L’esempio è così codificato che chi lo sta riportando quasi non si rende conto di quello che dice. L’ultima citazione infatti prosegue così: «Più che delle sue lacrime, egli si preoccupava della propria umiltà e perfezione».)

Non basta ancora. Un giorno il priore, sempre lui, «fingendo di essere adirato», comanda a Patermuzio di gettare il figlio nel fiume. Pronti, nessun problema! Patermuzio va e butta nell’acqua il figlio, che sarebbe annegato «se dei fratelli, mandati prima apposta a presidiare la riva del fiume, non avessero preso al volo il bambino appena gettato, quasi strappandolo all’alveo del fiume».

Il figlio di Patermuzio, di cui non conosciamo nemmeno il nome, non ha rilasciato dichiarazioni.

(da Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, IV, 27, a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.)

 

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